Dopo 34 anni
Parsifal torna a Bologna
“Parsifal” torna a Bologna, prima
città italiana dove nel gennaio 1914 venne rappresentata la “sacra
rappresentazione scenica” (così la chiamo Richard Wagner), appena scaduto il
divieto posto dall’autore di produrre il lavoro in teatri differenti da quello
da lui ideato per il Festival di Bayreuth.
Scritto da Giuseppe
Pennisi | mercoledì, 15 gennaio 2014 · Lascia un commento
Parsifal a Bologna – photo Rocco Casaluci
Il ritorno di Parsifal a Bologna era molto
atteso sia perché, dopo la prima italiana del 1914, la “sacra
rappresentazione scenica” è stata ripesa unicamente nel 1931, nel 1963 e
nel 1978, sia perché l’edizione del 1978 ebbe un successo tale che venne
replicata “fuori abbonamento” nel 1980, sia perché il Teatro Comunale ha
portato per l’inaugurazione della stagione 2014 una produzione che ha avuto un
grande successo ma anche fatto molto discutere quando ha debuttato, nel 2011,
al Théâtre Royal de la Monnaie a Bruxelles.
Perché Parsifal viene ascoltato molto (sia in disco sia in esecuzioni dal vivo in forma di concerto) ma rappresentato poco? L’opera che, sotto il profilo musicale, ha anticipato nel 1882 gran parte dell’innovazione del Novecento Storico (dal cromatismo alla dodecafonia) comporta difficoltà enormi di rappresentazione scenica. I suoi tre atti richiedono “trasformazioni” di luogo e ambiente a sipario alzato (per rendere possibile una di tali trasformazioni, nel 1882, durante le prove, Engelberg Humperdinck, allora assistente di Richard Wagner, dovette mettere mano alla partitura e aggiungere alcune misure musicali). Alcune trasformazioni, poi, avvengono senza cambiamento di luogo e ambiente: ad esempio, nel secondo atto il lussureggiante giardino del mago Klingsor diventa un deserto e nel terzo l’erba inaridita dall’inverno (e dal peccato) torna a verdeggiare il Venerdì Santo.
Perché Parsifal viene ascoltato molto (sia in disco sia in esecuzioni dal vivo in forma di concerto) ma rappresentato poco? L’opera che, sotto il profilo musicale, ha anticipato nel 1882 gran parte dell’innovazione del Novecento Storico (dal cromatismo alla dodecafonia) comporta difficoltà enormi di rappresentazione scenica. I suoi tre atti richiedono “trasformazioni” di luogo e ambiente a sipario alzato (per rendere possibile una di tali trasformazioni, nel 1882, durante le prove, Engelberg Humperdinck, allora assistente di Richard Wagner, dovette mettere mano alla partitura e aggiungere alcune misure musicali). Alcune trasformazioni, poi, avvengono senza cambiamento di luogo e ambiente: ad esempio, nel secondo atto il lussureggiante giardino del mago Klingsor diventa un deserto e nel terzo l’erba inaridita dall’inverno (e dal peccato) torna a verdeggiare il Venerdì Santo.
Parsifal a Bologna – photo Rocco Casaluci
Inoltre, l’azione drammatica è in gran parte narrata:
in tre atti per una durata complessiva di circa quattro ore ci sono pochi
avvenimenti scenici e numerosi lunghi racconti. I dialoghi sono in gran misura
filosofico-religiosi e richiedono una buona conoscenza del Cristianesimo e del
Buddismo, oltre che delle filosofie prevalenti in Germania nell’Ottocento. La
stessa disponibilità di sovratitoli lascia molti interrogativi a chi non ha
fatto i propri compiti a casa prima di affrontare un’esecuzione del vivo del
lavoro. Come se ciò non bastasse, Wagner ha lasciato disposizioni sceniche
molto precise: dal 1882 allo scoppio della Seconda guerra mondiale, a Bayreuth
sono state utilizzate le scene dipinte secondo le sue istruzioni e ispirate al
Duomo di Siena e alla “timpa” (la scoscesa verso il mare) etnea tra Acireale e
il villaggio di Santa Maria La Scala (gran parte della composizione della
“sacra rappresentazione scenica” avvenne durante un lungo viaggio in
Italia del compositore e della sua famiglia).
Ho visto e ascoltato Parsifal dal vivo una ventina di volte e raramente ho trovato una versione scenica pienamente soddisfacente. Sino a tempi recenti si privilegiavano improbabili Medioevi spagnoleggianti di cartapesta (particolarmente brutte edizioni viste per anni al Metropolitan di New York e al Teatro dell’Opera di Roma). Quindi si sono spesso preferite edizioni in forma di concerto: ne ricordo una negli Anni Settanta nella Cattedrale di Washington e più di recente quelle dei complessi dell’Accademia di Santa Cecilia nel 1995 (con Giuseppe Sinopoli sul podio) e nel 2008 (Daniele Gatti), del Teatro dell’Opera di Roma nella Basilica di Santa Maria degli Angeli nel 1983 (Wolfang Rennert) e di Christoph Eschembach nel 2013 al Kennedy Center di Washington. Occorre pensare che anche l’eccellente, sotto molti punti di vista, versione cinematografica di Hans-Jürgen Syndeberger non ha nulla di realistico e si svolge quasi interamente su un’enorme maschera funebre di Wagner.
Ho visto e ascoltato Parsifal dal vivo una ventina di volte e raramente ho trovato una versione scenica pienamente soddisfacente. Sino a tempi recenti si privilegiavano improbabili Medioevi spagnoleggianti di cartapesta (particolarmente brutte edizioni viste per anni al Metropolitan di New York e al Teatro dell’Opera di Roma). Quindi si sono spesso preferite edizioni in forma di concerto: ne ricordo una negli Anni Settanta nella Cattedrale di Washington e più di recente quelle dei complessi dell’Accademia di Santa Cecilia nel 1995 (con Giuseppe Sinopoli sul podio) e nel 2008 (Daniele Gatti), del Teatro dell’Opera di Roma nella Basilica di Santa Maria degli Angeli nel 1983 (Wolfang Rennert) e di Christoph Eschembach nel 2013 al Kennedy Center di Washington. Occorre pensare che anche l’eccellente, sotto molti punti di vista, versione cinematografica di Hans-Jürgen Syndeberger non ha nulla di realistico e si svolge quasi interamente su un’enorme maschera funebre di Wagner.
Parsifal a Bologna – photo Rocco Casaluci
Questa premessa mi pare necessaria per comprendere la
scelta di base effettuata quando è stato deciso l’allestimento di Parsifal
in scena sino al 25 gennaio a Bologna. Dato che nel 1882 la “sacra
rappresentazione scenica” rappresentò l’avanguardia musicale più estrema, ci si
è affidata a Romeo Castellucci che, per vent’anni, con la Socìetas
Raffaello Sanzio, ha rappresentato l’avanguardia drammaturgica più innovativa
in Italia e Francia, mietendo successi in vari Paesi. Inoltre, per completare
il quadro, nelle rappresentazioni bolognesi si è in gran misura mantenuto il
cast di Bruxelles, ma si è affidata la concertazione e direzione d’orchestra
per il debutto di Roberto Abbado nei misteri di questa complessa
partitura.
Castellucci affronta (con la drammaturga Piersandra Di Matteo) il testo, e la musica, di Wagner in modo differente non solo dalle versioni tradizionali, ma anche di quelle recenti che hanno destato polemiche come le produzioni di Calixto Bieito a Stoccarda e di Stephen Langridge a Londra (in ambedue la vicenda viene attualizzata e si dà enfasi ai passaggi più violenti).
In questa produzione, la “sacra rappresentazione scenica” non viene attualizzata ma le viene dato un afflato atemporale e universale. Il primo atto si svolge in una foresta primordiale (poco importa se si tratti dell’Amazzonia o della Germania prima dell’arrivo dei romani) dove ci sono animali e le foglie sono così dense che anche i protagonisti sembrano in tute mimetiche coperte da fogliame; la “trasformazione” (per renderla il Tempio del Graal) avviene con un abile gioco di proiezioni; il Tempio è un ambiente spoglio e la celebrazione dell’Eucarestia (momento sempre molto delicato nelle rappresentazioni sceniche) avviene dietro un sipario bianco con il coro dislocato in varie parti del teatro per dare effetti stereofonici. Come da libretto, il giovane ignaro e ignavo protagonista (Parsifal) non comprende il mistero e non afferra che il capo della comunità, Amfortas, è ferito poiché ha peccato. Nel secondo atto siamo in un palazzo spoglio i cui abitanti vestono in fogge della prima metà del Novecento: è il dominio di Klingsor, il quale per diventare cavaliere del Graal e restare puro si è castrato. Il “giardino delle delizie” è anche un giardino dei supplizi in cui Klingsor sfoggia il proprio potere assoluto, e le proprie perversioni, sulle donne del palazzo e induce Kundry (“costretta a non morire” in quanto ha irriso Cristo sulla Croce) a sedurre il protagonista. Parsifal, però, acquisendo consapevolezza del peccato, ha pietà per Amfortas e Kundry, sconfigge Klingsor e trasforma in deserto il palazzo di quest’ultimo. Il terzo atto si svolge nella periferia di una città contemporanea un Venerdì Santo. Parsifal, ormai consapevole, risana Amfortas e Kundry: negli ultimi 45 minuti tutta la popolazione si mette in cammino verso la salvezza sino a quando (pochi istanti prima del calar del sipario) il protagonista, appena diventato sacerdote, resta solo e una voce fuori scena ricorda come nella Redenzione uomini e donne si congiungono con l’Alto.
Castellucci affronta (con la drammaturga Piersandra Di Matteo) il testo, e la musica, di Wagner in modo differente non solo dalle versioni tradizionali, ma anche di quelle recenti che hanno destato polemiche come le produzioni di Calixto Bieito a Stoccarda e di Stephen Langridge a Londra (in ambedue la vicenda viene attualizzata e si dà enfasi ai passaggi più violenti).
In questa produzione, la “sacra rappresentazione scenica” non viene attualizzata ma le viene dato un afflato atemporale e universale. Il primo atto si svolge in una foresta primordiale (poco importa se si tratti dell’Amazzonia o della Germania prima dell’arrivo dei romani) dove ci sono animali e le foglie sono così dense che anche i protagonisti sembrano in tute mimetiche coperte da fogliame; la “trasformazione” (per renderla il Tempio del Graal) avviene con un abile gioco di proiezioni; il Tempio è un ambiente spoglio e la celebrazione dell’Eucarestia (momento sempre molto delicato nelle rappresentazioni sceniche) avviene dietro un sipario bianco con il coro dislocato in varie parti del teatro per dare effetti stereofonici. Come da libretto, il giovane ignaro e ignavo protagonista (Parsifal) non comprende il mistero e non afferra che il capo della comunità, Amfortas, è ferito poiché ha peccato. Nel secondo atto siamo in un palazzo spoglio i cui abitanti vestono in fogge della prima metà del Novecento: è il dominio di Klingsor, il quale per diventare cavaliere del Graal e restare puro si è castrato. Il “giardino delle delizie” è anche un giardino dei supplizi in cui Klingsor sfoggia il proprio potere assoluto, e le proprie perversioni, sulle donne del palazzo e induce Kundry (“costretta a non morire” in quanto ha irriso Cristo sulla Croce) a sedurre il protagonista. Parsifal, però, acquisendo consapevolezza del peccato, ha pietà per Amfortas e Kundry, sconfigge Klingsor e trasforma in deserto il palazzo di quest’ultimo. Il terzo atto si svolge nella periferia di una città contemporanea un Venerdì Santo. Parsifal, ormai consapevole, risana Amfortas e Kundry: negli ultimi 45 minuti tutta la popolazione si mette in cammino verso la salvezza sino a quando (pochi istanti prima del calar del sipario) il protagonista, appena diventato sacerdote, resta solo e una voce fuori scena ricorda come nella Redenzione uomini e donne si congiungono con l’Alto.
Parsifal a Bologna – photo Rocco Casaluci
Non credo che Castellucci sia credente. Se lo è, la
sua fede non è il luteranesimo con venature buddiste caratteristico degli
ultimi anni di vita di Wagner (il quale, tra l’altro, scrisse il libretto di
un’opera – mai messa in musica – su Budda). Tuttavia l’allestimento rende
efficacemente l’eternità atemporale del trinomio consapevolezza del peccato-
pietà- redenzione, che è il cuore stesso dell’ultimo lavoro di Wagner.
Nella produzione ci sono altri aspetti importanti: i protagonisti hanno tutti le physique du rôle e un ottimo livello di recitazione; le masse (150 tra coristi e comparse) sono anch’esse protagoniste; il contrasto tra la ricchezza di effetti speciali nel primo atto e un palcoscenico relativamente spoglio (sino al grande cammino finale) agevola la comprensione del dramma.
Ci sono, però, specialmente nel secondo atto, scelte registiche che la complicano: ad esempio, gli esercizi di bondage sulle donne schiave di Klingsor distraggono dal seguire il dialogo tra quest’ultimo e Kundry (passaggio essenziale del lavoro), le fanciulle fiore sono algide atlete non tali da eccitare il giovane, e casto, Parsifal; le scritte di Kundry sul muro sono comprensibili unicamente a chi conosce molto bene il libretto. Sono aspetti su cui la regia potrà riflettere in nuove riprese del lavoro. Non inficiano il valore complessivo di un grande e importante sforzo drammaturgico che segna un passo importante nella realizzazione scenica di Parsifal, capolavoro artistico immenso che sul palcoscenico non potrà mai essere perfetto o definitivo.
Nella produzione ci sono altri aspetti importanti: i protagonisti hanno tutti le physique du rôle e un ottimo livello di recitazione; le masse (150 tra coristi e comparse) sono anch’esse protagoniste; il contrasto tra la ricchezza di effetti speciali nel primo atto e un palcoscenico relativamente spoglio (sino al grande cammino finale) agevola la comprensione del dramma.
Ci sono, però, specialmente nel secondo atto, scelte registiche che la complicano: ad esempio, gli esercizi di bondage sulle donne schiave di Klingsor distraggono dal seguire il dialogo tra quest’ultimo e Kundry (passaggio essenziale del lavoro), le fanciulle fiore sono algide atlete non tali da eccitare il giovane, e casto, Parsifal; le scritte di Kundry sul muro sono comprensibili unicamente a chi conosce molto bene il libretto. Sono aspetti su cui la regia potrà riflettere in nuove riprese del lavoro. Non inficiano il valore complessivo di un grande e importante sforzo drammaturgico che segna un passo importante nella realizzazione scenica di Parsifal, capolavoro artistico immenso che sul palcoscenico non potrà mai essere perfetto o definitivo.
Giuseppe Pennisi
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