Le
sofferenze del Teatro dell’Opera di Roma
Scritto da Giuseppe
Pennisi il 31 gennaio 2014 in L'opinione
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di Giuseppe Pennisi
IL PRIMO DI
FEBBRAIO dovrebbe andare in scena al Teatro dell’Opera di Roma l’atteso dittico
L’heure espagnole e L’enfant et les sortilèges di Maurice
Ravel, in coproduzione con il Festival di Glyndebourne. Anche se negli ultimi
anni le due opere si sono potute ascoltare a Palermo, Ancona e Verona,
mancavano nella capitale da diversi decenni. Vengono proposte nel migliore dei
modi: la produzione segna il debutto romano del regista Laurent Pelly, nome di
prestigio sulla scena internazionale, ed il ritorno di Charles Dutoit, una
delle migliori bacchette francesi. Affascinanti le scene e divertenti i costumi
degli animali e degli oggetti (che si animano e diventano protagonisti). Buono
l’adattamento dal palcoscenico relativamente piccolo di Glyndebourne e quello,
molto più grande, del teatro lirico romano. Il condizionale è d’obbligo poiché
la prima in programma il 30 gennaio è saltata a ragione di uno sciopero
di parte dell’orchestra. Si era pensato – gli scioperi alle prime vogliono
dire perdita di abbonati – di fare lo spettacolo con l’accompagnamento solo del
pianoforte, ma il pianista era tra gli scioperanti, non se ne è trovato un
altro che conoscesse le due partiture e Dutoit è di formazione violinistica.
Quindi, tutti a casa.
La situazione
finanziaria è gravissima. Il 9 gennaio, a dieci giorni dal suo
insediamento, il nuovo Sovrintendente, Carlo Fuortes, ha convocato una
conferenza stampa per fare un’operazione verità sulla situazione
finanziaria dell’ente. «Il pre-consuntivo 2013 – ha detto– mostra un disavanzo
di 10 milioni di euro su un budget di circa 50 milioni di euro». Le
determinanti, spiega, sono un aumento dei costi del 10% (rispetto al
preventivo) e una contrazione dei ricavi di 4,2 milioni di euro. «Negli ultimi
tre anni la situazione è gradualmente peggiorata, con un tracollo della
biglietteria». Le tabelle fornite mostrano altri aspetti inquietanti: forte
indebitamento con il fisco e con gli istituti previdenziali, fornitori che
attendono di essere pagati, numero dei dirigenti dimezzato (da 4 a 2) ma con un
costo più che raddoppiato, una pianta organica (ora decaduta) molto più ampia
di teatri le cui recite sono quattro volte quelle dell’Opera di Roma. Il 9
gennaio Fuortes ha annunciato: «Ce la faremo, ma senza ricorso alla Legge Bray
e una profonda riorganizzazione, non ci sarebbe stata altra strada che la
liquidazione» (anche a ragione della forte contrazione della dotazione di
capitale della fondazione). Dopo la prima seduta del nuovo Consiglio
d’Amministrazione, la fondazione (priva, pare, di liquidità) è corsa a fare
ricorso alla Legge Bray che le fornirebbe a breve 5 milioni di euro a fronte di
un piano che prevede la riduzione dell’organico (nessuno resterebbe a piedi;
gli ‘esuberi’ andrebbero a lavorare alla Ales, azienda in-house del
Ministero dei Beni Ambientali Culturali), ed una revisione del contratto
integrativo.
Occorre
precisare che non tutte le sigle sindacali hanno aderito allo sciopero (che ha
comportato anche l’annullamento del concerto in programma in 31 gennaio). Da un
lato Slc-Cgil, Fials-Cisal, Libersind-Confsal confermano il blocco di tutte le
prime in programma, compresa la tournée in Giappone. Dall’altro, la Uilcom ha
preso le distanze. «In questi ultimi anni – sostiene la Uilcom – il teatro è stato
governato come fosse una colonia da utilizzare per interessi che nulla hanno a
che vedere con la produzione di arte, musica e spettacoli. Dietro la copertura,
discutibile, di personaggi stimati, alcuni sindacati hanno difeso e avallato
ogni scelta per trarne un consociativismo volto a interessi diversi da quelli
aziendali. Tali determinazioni hanno portato al tracollo economico e
finanziario ben evidenziato dalla attuale dirigenza». Insieme alla Uilcom
anche la Fistel Cisl di Roma e del Lazio ha preso le distanze dallo
sciopero, definendo irresponsabili le sigle che l’hanno proclamato. «La loro
rappresentanza è veramente minimale, anche se coinvolge componenti
dell’orchestra», sostiene la Fistel Cisl, che ricorda invece come all’Opera si
sia «aperto un tavolo di confronto dove la Fondazione espone un percorso di
gestione dei contenuti della legge e un piano di salvataggio e di rilancio del
teatro».
In effetti,
se si ristruttura l’azienda ed il modo di operare, è probabile che si vada
verso la liquidazione. Già uno dei soci fondatori, il Comune di Roma, che
forniva finanziamenti per circa 20 milioni l’anno, parla di non più di 5
milioni l’anno (a ragione e di altre priorità – mobilità, rifiuti, sociali – e
della scarsa produttività del teatro) . Il MIBAC afferma di non essere in grado
di aumentare il proprio apporto e la Regione parla di riduzioni del suo. Il
quadro, quindi, non è incoraggiante.
Ben nove
fondazioni liriche (su 13) fanno ricorso alla Legge Bray per ottenere la
liquidità e gli ammortizzatori sociali necessari a riorganizzarsi. Per comprendere
la situazione occorre fare un passo indietro. Nel 2008, il Governo trovò una
situazione inquietante: le fondazioni avevano accumulato un debito di 300
milioni di euro (ora è quasi a 400 milioni). Con un provvedimento d’emergenza
venne aumentato il contributo dello Stato e furono risanate alcune situazioni
facendo ricorso anche ai fondi destinati inizialmente al Mezzogiorno. Una
legge del 2010 diede una nuova cornice al comparto. Il regolamento (rimasto in
bozza ancorché approvato dal Consiglio dei Ministri) rappresenta, in effetti,
il primo testo unico in molti anni e avrebbe portato la legislazione italiana
in linea con quella degli Stati europei. Avrebbe posto un vincolo al
finanziamento dello Stato: per essere tale una Fondazione avrebbe dovuto
coprire metà del proprio bilancio con entrate autonome (biglietteria,
sponsorizzazioni) e contributi da Enti locali (Regioni, Province, Comuni),
nonché l’apporto di soci privati. Gli Enti locali protestarono di essere già
troppo oberati. Ma il punto debole era (ed è) non prevedere incentivi per la detrazioni
o deduzioni dei contributi privati dall’imponibile: nel resto d’Europa le
detrazioni tributarie si aggirano sul 30% dell’elargizione filantropica (ed in
Francia le deduzioni arrivano al 66%) mentre in Italia si è sul 19%. Nella
primavera 2013 il nuovo Governo ha dovuto seguito una strada differente,
sull’onda della crisi di solvibilità soprattutto di Firenze, Genova e Cagliari,
e ha approvato un sistema di prestiti a tasso agevolato per le fondazioni in
difficoltà. I fondi verranno distribuiti in relazione alle attività svolte e
rendicontate. Il MIBAC, però, non si è mai dato un’effettiva struttura di
valutazione; quella che aveva creato in base ad una legge del 1999 valida per
tutte le amministrazioni l’ha smantellata nel 2005.
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