Scuola ed
economia, l’Italia continua ad essere contro la modernità
13 - 09 - 2013Giuseppe Pennisi
Se non si affrontano le radici anti-moderne dell'Italia si resta nel
pantano. Il primo passo (ma solo il primo) costituisce nel dare primato al
sapere scientifico. Lo fa il recentissimo “Decreto Scuola”?
E’ probabile che oggi 13 settembre, se le fibrillazioni in Parlamento non
sono troppo acute, il Consiglio dei Ministri faccia un primo esame del ‘Decreto
del Fare n.2’: la bozza che circola contiene una serie di misure puntiformi che
dovrebbero contribuire ad agganciare l’economia italiani ai segnali (peraltro
timidi) che si avvertono nel resto dell’eurozona.
Le misure previste
Gran parte di queste misure sono indubbiamente utili: provvedimenti per
abbassare i costi dell’energia elettrica, crediti d’imposta per ricerca e
sviluppo, incentivi per grandi progetti industriali, compensazione debiti della
pubblica amministrazione con crediti fiscali, fiscalità agevolata per
investimenti a lungo termine, promozione della digitalizzazione delle imprese e
via discorrendo.
E la crescita?
Tuttavia, per quanto utili, non scalfiscono il nodo centrale: perché dopo
il “miracolo economico” sino alla fine degli Anni Sessanta, la “notte della
Repubblica” negli Anni Settanta e la politica per ridurre inflazione senza
frenare crescita negli Anni Ottanta, l’Italia ha smesso di crescere ed è da
anni in declino. Il “miracolo economico” è stato in gran parte determinato
dalla “riserva” capitale umano impiegato in attività improduttive dalla metà
degli Anni Trenta alla fine della seconda guerra mondiale. L’equilibrio tra
contenimento dell’inflazione e sviluppo è stato reso possibile grazie
all’innovazione di parte dell’industria manifatturiera agevolata da
“svalutazioni competitive”, non più possibili da quando si è parte dell’unione
monetaria.
Le tesi che spiegano la stagnazione italiana
Tuttavia, c’è molto di più. Per anni si è messo l’accento sul carattere
“corporativo” della società italiana e, quindi, dei Parlamenti e dei Governi da
essa espressi e, di conseguenza, di piccoli gruppi organizzati (si pensi alle
associazioni/cooperative dei taxi nella grandi città) di incidere in misura
determinante sulle scelte pubbliche (come ci ricorda il primo teorema del
public choice di Buchanan e Tullock). Oppure su
caratteristiche sociologiche quali il “familismo amorale” di Banfield.
Oppure ancora su come il feudalesimo del Regno delle Due Sicilie
(secondo Putman) ha inquinato il potenziale di crescita delle
“repubbliche comunali” del resto d’Italia.
L’Italia che si oppone alla modernità
In questi giorni, esce un saggio a quattro mani di Elio Caldelo (un
giornalista specializzato in tematiche scientifiche) e Luciano Pellicani
(un sociologico di rango) intitolato suggestivamente: “Contro la Modernità:
le radici della cultura anti-scientifica in Italia“. E un libro snello di
170 pagine che si legge in un giorno e che Enrico Letta e molti altri uomini e
donne impegnati nell’azione di governo dovrebbero studiare (e meditare) prima
di approntare “Decreti del Fare” (quale che sia il loro numero d’ordine). La
prima parte, in particolare, analizza come nell’Ottocento quando la cultura
scientifica si affermava in Europa e Nord America (avendo come corrispettivo il
“positivismo”), in Italia si rispose trasformando (mi si consenta il termine)
la teologia in “idealismo” e dando un forte primato agli studi classici. I
“modernizzatori”, sotto il profilo intellettuale, vennero costretti
all’emigrazione: Guglielmo Ferrero, Gaetano Salvemini, Giuseppe Peano,
Raffaele Petazzoni, Federigo Enriques, Giovanni Vailati, Vito Volterra e
via discorrendo. Un fenomeno analogo a quello attuale: le università americane
(specialmente quelle tecnologiche) sono piene di ricercatori e docenti italiani
ai quali le “nostrane” hanno sbarrato la porta. Dopo la seconda guerra
mondiale, la situazione è stata aggravata da una linea di pensiero (di origine
marxista) secondo cui la razionalità economica e la razionalità scientifica
sarebbero state il frutto “della logica irrazionale del capitalismo”. I tempi
più recenti “i guru dell’antimodernità hanno messo al centro del progetto
politico l’emergenza ecologica e la giustizia sociale”, fraintendendo sia la
prima sia la seconda.
Se non si affrontano queste radici anti-moderne si resta nel pantano. Il
primo passo (ma solo il primo) costituisce nel dare primato al sapere
scientifico. Lo fa il recentissimo “Decreto Scuola”?
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