martedì 17 settembre 2013

La mini-manovra sulle pensioni in Avvenire 18 settembre



La mini-manovra sulle pensioni

Il governo studia interventi sugli assegni retributivi sopra i 65mila euro


DI GIUSEPPE PENNISI C ontinuano nelle stanze ministeriali i lavori sul­l’altra mini-manovra, quella che riguarda le pen­sioni. La riforma previdenziale allo studio del go­verno ha un appiglio costituzionale: gli articoli 36 e 38 della Carta secondo cui il lavoratore ha titolo a una re­tribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad as­sicurare a sé e alla famiglia un’esisten­za libera e dignitosa. Si sono poi ag­giunte le sentenze della Corte Costitu­zionale che considerano la pensione un «salario differito», tale quindi da as­sicurare un’esistenza decorosa. Pur­troppo, per il modo in cui è stato at­tuato in Italia, il meccanismo «contri­butivo » comporta forti disparità per l’ultima generazione di lavoratori rispetto al meccani­smo «retributivo». La situazione si aggrava ulteriormente per tutti coloro che avranno occupazioni frammenta­te. D’altro canto, riforme in materia previdenziale in­nescano forti tensioni in tutti gli «aventi diritto», pen­sionati già in quiescenza e fasce di età prossime ad an­darci. È pertanto materia da trattare con i piedi di piom­bo.

Anche se l’obiettivo è la «giustizia sociale» e non «fare cassa», è comunque opportuno chiedersi quello che potrebbe portare all’erario – in una fase di ristrettezze di finanza pubblica – una «manovra» finalizzata a dare a ciascuno una pensione commisurata ai contributi ef­fettivamente versati e appropriatamente rivalutati. La somma così «risparmiata» potrebbe essere utilizzata per i giovani o per migliorare l’assegno sociale agli «in­capienti » (coloro al gradino più basso della scala dei redditi). Occorre ovviamente avere un’asticella poiché, anche ammesso che si possano fare i calcoli (molti ne dubitano), sarebbe inutile effettuarli per coloro che han­no pensioni comunque basse o medio basse. In sinte­si, se ci si rivolgesse ai cosiddetti «pensionati d’oro» si ricaverebbe ben poco: 3-400 milioni di euro. Se invece, come pare si stia facendo, l’asticella venisse posta a 65.000 euro lordi (di reddito da pensione) l’anno, si po­trebbe arrivare a 2 miliardi (ma si mol­tiplicherebbero i ricorsi). Non si tratte­rebbero in ogni caso di ricavi annui, ma di riduzione della spesa previdenziale destinati a diminuire man mano che, per ragioni anagrafiche, i pensionati (d’oro, d’argento o di piombo) dimi­nuiscono. Di fronte a questi numeri, ci si deve davvero chiedere se il gioco va­le la candela in termini di travaglio po­litico parlamentare che innescherebbe.

Dato che una trentina di Paesi sono transitati da siste­mi previdenziali retributivi’ a sistemi contributivi, per­ché questo problema è più grave in Italia che altrove? Nel nostro Paese le disparità sono state rese più acute per due ragioni: avere previsto un regime transitorio molto lungo e avere aumentato con la «riforma Amato» del 1993 da 15 a 20 anni di versamenti il requisito mi­nimo per avere titolo a pensione (oggi chi lavora e ver­sa per 19 anni 11 mesi e 25 giorni finanzia le pensioni altrui, se non totalizza almeno cinque anni di gestione separata con il resto). È impossibile tornare indietro in termini di periodo di transizione. Ma si può raddrizza­re il requisito di anni di versamento (portandoli a 10-15, come negli altri maggiori Paesi sviluppati) e attendere che i pensionati d’oro progressivamente diminuiscano.

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Si potrebbero risparmiare così 2 miliardi, più dei 500 milioni che si avrebbero dalla sole pensioni d’oro

LE ANALOGIE

COME LA SVEZIA. MA NON DEL TUTTO


Molti Paesi che hanno effettuato la transizione dal «retributivo» al «contributivo» non sono comparabili all’Italia poiché appartengono a quello che era il «blocco del socialismo reale». Lo è però la Svezia, la cui riforma (dopo dieci anni di dibattiti) è stata varata pochi mesi prima della «legge Dini» del 1995 e ha molti punti in comune con la nostra. La differenza principale sta nell’attuazione: è stato previsto un periodo transitorio di tre non di 18 anni proprio per evitare il sorgere di un forte ceto beneficiario delle «vecchie regole». Inoltre, mentre un contributo base del 16% della retribuzione viene versato all’equivalente dell’Inps, un addizionale 2,5% viene versato o all’istituto statale di previdenza o a un fondo pensione finanziario (sono pochi, non 700 come in Italia) a scelta dell’individuo. (G.Pen.)


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