OpinioniItaliaEconomia
I figli di Colbert
I progetti dell'Ue e del nostro paese in materia
economica e non solo
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Jean-Baptiste
Colbert, chi era costui? Ad alcuni secoli di distanza dalla sua vita e dalle
sue opere, il Ministro delle finanze (dell’economia, si direbbe oggi) di Luigi
XVI sta acquistando notorietà nell’Italia di oggi. Il suo nome circola da qualche
anno, da quando , oltre un lustro fa, in un discorso pronunciato a Pesaro
dall’epoca nostro Ministro dell’Economia e delle Finanze (Giulio Tremonti)
lo evocò a proposito dell’adesione della Cina all’Organizzazione Mondiale del
Commercio (Omc) e delle implicazione che ciò comporta in materia di
applicazione dei principi di reciprocità e di non discriminazione (i due
pilastri dell’Omc). Viene ascoltato anche nell’anti-Palazzo (se è
politically correct chiamarlo così) in occasione degli scioperi minacciati e
proclamati Cgil sui problemi dell’industria manifatturiera in generale e della
metalmeccanica in particolare. Riecheggia nelle richieste e delle tre
maggiori sigle sindacali e della Confindustria a proposito di “politica
industriale”, nonché in commenti della stampa paludata sul presente e sul
futuro del manifatturiero in Italia.
Colbert fu
un uomo di stato di multiformi attività. Da Segretario alla Marina, potenziò la flotta,
modernizzò i cantieri navali e aprì rotte sull’Atlantico per creare “Nouvelle
France”, la prima colonia francese in quello che è oggi è il Canada. Accademico
di Francia, fu anche uomo di lettere ed urbanista; guidò il riassetto di molte
città francesi e fondò l’Académie de France a Villa Medici a Roma. E’
ricordato, però, principalmente per il suo ruolo nell’economia: fautore
dell’intervento pubblico, riorganizzò le autonomie locali ed il sistema
tributario (abrogando esenzioni e deduzioni); adottò una politica per attirare
in Francia lavoratori stranieri con professionalità che mancavano nel Regno (per
le banche, la finanza, l’industria nascente); mise, soprattutto, in atto una
strategia mercantilista diretta a potenziare l’export e proteggere, con dazi e
contingenti, le manifatture nazionali.
Un
pianificatore od un liberista? Nel contesto del Seicento francese, deve,
paradossalmente, essere considerato un liberizzatore a fronte della
frammentazione di mercati locali regolati da interessi particolaristici, del
pensiero “bullionista” ancora imperversante (favorevole alla più ampia
circolazione di moneta nei confini del territorio nazionale ed alla “cattura”
di metalli preziosi) e del protezionismo pure più spinto (si pensi all’Atto di
Navigazione che vietava l’import di merci non trasportate su navi di Sua Maestà
Britannica) vigente sull’altra sponda della Manica. In breve, sempre nel
contesto dell’epoca, un liberale nazionale favorevole ad uno Stato
decisamente regolatore e, quindi, anche ispettore. Il management di
Invitalia Spa, e del nuovo poltronificio che dovrebbe nascere dalle sue costole
per attirare capitali e tecnologia straniera nel nostro Paese, avrebbe molto da
imparare da Colbert.
Come Faust,
il Colbert economico aveva, però, due anime. Dato che era (si direbbe oggi) “un uomo del fare”,
piuttosto che del teorizzare, non lasciò nessuno scritto organico; quindi, le
sue anime vanno ricavate dai suoi “decreti” – ne firmava tanti”! L’anima
liberale-regolatoria (nel quadro della Francia del Seicento) traspare dal
rigore delle misure contro la contraffazione e la corruzione (della pubblica
amministrazione e dei concessionari di esazione delle imposte). Quella
nazionale-mercantilista dalla tariffa doganale e dagli incentivi (su base
non discriminatoria, grande segno di modernità a quell’epoca) per l’industria
francese.
Le due anime
hanno dato origine a due filoni di nipoti; ambedue si riconoscono in Colbert , pure nella
madre-Patria, ma non si amano; anzi, come avviene in molte famiglie, da oltre
tre secoli litigano per l’eredità (il nome) dell’illustre antenato. Un filone
ha sempre promosso la teorizzazione e razionalizzazione dell’intervento
pubblico dell’economia; nella stessa Francia ha prodotto la “programmazione
indicativa” ed il Commissariato al Piano, metodi e strumenti a cui si
abbeverarono, in estasi, molti economisti italiani all’inizio degli Anni
Sessanta quando il centro-sinistra faceva i suoi primi passi traballanti. Di
recente, Oltralpe, ha trovato epigoni in economisti come Marc Chervel e
politici come Chévenement.
Un altro
filone è quello dove il giovane Frédéric Bastiat (del cui bicentario
della nascita si è ricordata nel nostro Paese solo ItaliaOggi) succhiò
il latte come se fosse quello della “su’ mamma”. Liberista integrale, anzi
integralista (nonché padre della roccaforte viva e vegeta nell’Università di
Aix en Provence e lontano zio di Pascal Salin), Bastiat definì, prima
degli economisti scozzesi, le condizioni essenziali per un mercato funzionante:
una “soglia minima” di simmetria di posizioni e di informazioni. In termini
poveri, il mercato produce benessere solo se nessuno bara, almeno per quanto
attiene alle regole di base.
In materia
di politica industriale e commercio internazionale, la divisione è netta. Un filone ha dato vita ad una
scuola di pensiero ed azione nettamente protezionista ed a favore di industrie
decotte e carrozzoni per tenerle in vita (pur se solo vegetativa); in Italia
iniziò a prendere piede già nel 1878 con la tariffa doganale Luzzatti, proseguì
negli Anni Trenta e riapparve negli Anni Settanta con gemme quali la “legge
Prodi” e la netta chiusura di gran parte dell’attuale opposizione alle
liberalizzazioni conseguenti il sistema di cambio europeo. La seconda, invece,
ha rappresentato il filone che ha scelto l’apertura dell’economia italiana al
mercato internazionale ed ha tenuto duro anche nella buia notte di
quell’esperimento di “solidarietà nazionale” che ha portato a dilatazione
dell’intervento e della spesa pubblica ed progressive svalutazioni.
A livello
internazionale, è alla base dalla filosofia del Gatt prima dell’Omc (Organizzazione Mondiale del Commercio)
poi – ambedue basate sui principi della non-discriminazione e della reciprocità
in materia di commercio internazionale. Dall’inizio degli Anni Ottanta, però,
risoluzioni parallele dell’Omc e dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro
(Oil) affermano che tali principi devono essere applicati tenendo conto di
“soglie invalicabili”, sotto il profilo sia economico sia morale: non si
possono aprire le porte a chi bara sfruttando il lavoro minorile, il lavoro
coatto, financo la schiavitù ed a chi non mantiene standard minimi di regole
lavoristiche e sanitarie (per l’appunto le convenzioni “fondamentali”
dell’Oil).
Tanto tra i
primi quanto tra i secondi, però, si annidano anche dei nipotacci, quelli
dell’intervento pubblico impiccione e pasticcione, di cui, per il vostro
chroniqueur, è stato anni fa un esempio lampante il “decreto salva calcio”; lo sono i mille rivoli di sussidi
alle imprese (chiamati pudicamente ‘incentivi’) che secondo il ‘Rapporto
Giavazzi’ potrebbero essere ridotti di 10 miliardi euro senza colpo ferire e
nell’interesse della collettività.
Una
“politica industriale” italiana in questo primo scorcio di 21simo secolo non
deve essere protezionista e sussidiatoria ma può, ed anzi, deve situarsi
nell’alveo di quel documento Ue “Europa 2020” che dovrebbe costituire la stella
polare delle strategie di integrazione europea.
E’ utile
ricordare quali sono i punti essenziali di “Europa 2020” e cosa si è inteso in
Italia per “politica industriale”.Il primo è un compito semplice. Più
complesso il secondo poiché il significato del termine ha avuto un’evoluzione
considerevole negli ultimi decenni.
“Europa
2020” è un documento snello di 30 pagine a stampa fitta- un merito
importante data la nota predilezione di Bruxelles per volumi ponderosi. La crisi economica – afferma la
premessa del documento - ha messo a nudo le gravi carenze di un'economia già
resa fragile dalla globalizzazione, dal depauperamento delle risorse e
dall'invecchiamento demografico. La Commissione dichiara che questi ostacoli possono
essere superati, se l'Europa decide di optare per un mercato “più verde e
innovativo”. La strategia individua le seguenti priorità: sostenere le
industrie a basse emissioni di CO2, investire nello sviluppo di nuovi prodotti,
promuovere l'economia digitale e modernizzare l'istruzione e la formazione.
Propone inoltre cinque obiettivi quantitativi, compreso l'innalzamento
del tasso di occupazione ad almeno il 75% dall'attuale 69% e l'aumento della
spesa per ricerca e sviluppo al 3% del prodotto interno lordo. Attualmente
quest'ultima rappresenta soltanto il 2% del PIL, un livello di gran lunga
inferiore a quello di Usa e Giappone.
La nuova
strategia riconferma gli ambiziosi obiettivi dell'UE in materia di cambiamenti
climatici (20/20/20) e propone di ridurre il tasso di povertà del 25% per
aiutare circa 20 milioni di persone ad uscire dall'indigenza. Nel campo dell'istruzione, la
Commissione vuole portare il tasso di abbandono scolastico al di sotto del 10%
(dall'attuale 15%) e accrescere in maniera significativa (dal 31% al 40%) la
percentuale dei giovani trentenni con un'istruzione universitaria. Nessuno di
questi obiettivi sottintende una “politica industriale” nei vari significati
che, di volta in volta, ha avuto il termine.
Il documento
propone che i governi concordino obiettivi nazionali che tengano conto delle
condizioni di ciascun paese, aiutando nel contempo l'UE nel suo insieme a
raggiungere i suoi traguardi. La Commissione controllerà i progressi compiuti e, in
caso di "risposta inadeguata", formulerà un monito. L'UE già
sorveglia le finanze pubbliche per evitare squilibri tali da mettere in
pericolo l'area dell'euro. La nuova strategia va tuttavia oltre e affronta
anche altri problemi che potrebbero minare la competitività dell'UE.
Vengono
individuate sette iniziative prioritarie per stimolare la crescita e
l'occupazione. Tra queste
figurano i programmi per migliorare le condizioni e l'accesso ai finanziamenti
nel settore della R&S, l'introduzione in tempi rapidi dell'Internet ad alta
velocità e il maggiore ricorso alle energie rinnovabili. Programmi che
potrebbero essere letti come parte di una “politica industriale” “a basso
potenziale” e tale ds guardare al lungo periodo, piuttosto che al breve e medio
(quali le situazioni di crisi di questa o quella azienda o di questo o quel
comparto).
L’Italia,
Paese definito di “tarda industrializzazione” nelle storie economiche
dell’Europa, non ha parlato di “politica industriale”, ma ne ha fatta a partire
dell’età giolittiana, intensificandola (ed, in gran misura, razionalizzandola
durante il fascismo). “Politica
industriale” è stata uno dei temi principale di dibattito a partire dall’inizio
degli Anni Sessanta e, quindi, dall’inizio del centro-sinistra. In una prima
lunga fase si è seguita quella che veniva chiamata “la politica dei settori”,
ossia l’identificazione di settori che, tramite poli di sviluppo ed
interdipendenze, fossero in grado di trainare il resto dell’economia. Si è
favorita l’industria di base (metallurgia, siderurgia, chimica), unitamente,
sin troppo ovviamente, con la metalmeccanica. I risultati sono stati inferiori
alle aspettative, in gran misura perché puntavamo su comparti i cui costi di
produzione erano notevolmente inferiori ai nostri in Paesi del vicino
Mediterraneo.
Negli ultimi
due decenni del 20simo secolo, l’accento è passato ad una “politica dei
fattori”, sgravi tributari e deroghe alla normativa generale sul lavoro, sia
generalizzati sia diretti a comparti od ad aree territoriali da promuovere o d
cui alleviare il declino. La “politica dei fattori” è stata accompagnata da
strumenti etichettati “incentivi” che celavano sussidi più o meno espliciti a
questo o quel comparto da incoraggiare o di cui attenuare le difficoltà. La
“politica dei fattori” è stata rivalutata recentemente in analisi retrospettive
degli Anni Ottanta, ma è stata gradualmente abbandonata in quanto molti dei
suoi aspetti, e delle sue misure specifiche, non in linea con le regole EU in
materia di concorrenza. Anche ove una lettura forzata della normativa europea,
rendesse possibile un rilancio della “politica dei fattori”, le difficoltà di
bilancio pubblico non rendono pratica una “politica dei fattori” (ed ancor meno
una “politica dei settori) analoghe a quelle del passato.
Come
affrontare allora i nodi delle vertenze per industrie in difficoltà (non solo
Ilva, Telecom e Alitalia, ma tante altre) ? E, soprattutto, come rilanciare il
manifatturiero in modo che l’Italia sia in grado di agganciarsi ai segni di
ripresa mondiale? Nel breve periodo, la strada più facilmente percorribile consiste nel
facilitare ristrutturazioni e riorganizzazioni mirate ad una migliore
produttività ed ad una maggiore competitività ; occorre ,però, un’attenta
valutazione finanziaria ed economica dei piani specifici di riorganizzazione e ristrutturazione.
Il MISE dispone a riguardo di un’apposita unità di valutazione, che dovrebbe
essere utilizzata a pieno regime.
Per il più
lungo termine, gli inviti di “Europa 2020” per una maggiore e migliore ricerca
ed innovazione minacciano di diventare mere novene se non accompagnate da
risorse finanziarie (anche esse attentamente valutate) che la finanza pubblica
non è in grado di fornire. Una possibilità da esplorare con attenzione consiste
nell’attirare l’attenzione e l’interesse del Long Term Investors Club,
l’associazione di grandi investitori istituzionali come la Cassa Depositi e
Prestiti, la Caisse de Depots et Consignations, la Banca europea degli
investimenti, ed alcuni fondi sovrani. E’ una strada perfettamente in linea con
“Europa 2020”.
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