martedì 24 settembre 2013

L’Italia, l’Europa e la politica industriale in L'Indro del 24 settembre



OpinioniItaliaEconomia
I figli di Colbert
I progetti dell'Ue e del nostro paese in materia economica e non solo
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Jean-Baptiste Colbert, chi era costui? Ad alcuni secoli di distanza dalla sua vita e dalle sue opere, il Ministro delle finanze (dell’economia, si direbbe oggi) di Luigi XVI sta acquistando notorietà nell’Italia di oggi. Il suo nome circola da qualche anno, da quando , oltre un lustro fa, in un discorso pronunciato a Pesaro dall’epoca nostro Ministro dell’Economia e delle Finanze (Giulio Tremonti) lo evocò a proposito dell’adesione della Cina all’Organizzazione Mondiale del Commercio (Omc) e delle implicazione che ciò comporta in materia di applicazione dei principi di reciprocità e di non discriminazione (i due pilastri dell’Omc). Viene ascoltato anche nell’anti-Palazzo (se è politically correct chiamarlo così) in occasione degli scioperi minacciati e proclamati Cgil sui problemi dell’industria manifatturiera in generale e della metalmeccanica in particolare. Riecheggia nelle richieste e delle tre maggiori sigle sindacali e della Confindustria a proposito di “politica industriale”, nonché in commenti della stampa paludata sul presente e sul futuro del manifatturiero in Italia.
Colbert fu un uomo di stato di multiformi attività. Da Segretario alla Marina, potenziò la flotta, modernizzò i cantieri navali e aprì rotte sull’Atlantico per creare “Nouvelle France”, la prima colonia francese in quello che è oggi è il Canada. Accademico di Francia, fu anche uomo di lettere ed urbanista; guidò il riassetto di molte città francesi e fondò l’Académie de France a Villa Medici a Roma. E’ ricordato, però, principalmente per il suo ruolo nell’economia: fautore dell’intervento pubblico, riorganizzò le autonomie locali ed il sistema tributario (abrogando esenzioni e deduzioni); adottò una politica per attirare in Francia lavoratori stranieri con professionalità che mancavano nel Regno (per le banche, la finanza, l’industria nascente); mise, soprattutto, in atto una strategia mercantilista diretta a potenziare l’export e proteggere, con dazi e contingenti, le manifatture nazionali.
Un pianificatore od un liberista? Nel contesto del Seicento francese, deve, paradossalmente, essere considerato un liberizzatore a fronte della frammentazione di mercati locali regolati da interessi particolaristici, del pensiero “bullionista” ancora imperversante (favorevole alla più ampia circolazione di moneta nei confini del territorio nazionale ed alla “cattura” di metalli preziosi) e del protezionismo pure più spinto (si pensi all’Atto di Navigazione che vietava l’import di merci non trasportate su navi di Sua Maestà Britannica) vigente sull’altra sponda della Manica. In breve, sempre nel contesto dell’epoca, un liberale nazionale favorevole ad uno Stato decisamente regolatore e, quindi, anche ispettore. Il management di Invitalia Spa, e del nuovo poltronificio che dovrebbe nascere dalle sue costole per attirare capitali e tecnologia straniera nel nostro Paese, avrebbe molto da imparare da Colbert.
Come Faust, il Colbert economico aveva, però, due anime. Dato che era (si direbbe oggi) “un uomo del fare”, piuttosto che del teorizzare, non lasciò nessuno scritto organico; quindi, le sue anime vanno ricavate dai suoi “decreti” – ne firmava tanti”! L’anima liberale-regolatoria (nel quadro della Francia del Seicento) traspare dal rigore delle misure contro la contraffazione e la corruzione (della pubblica amministrazione e dei concessionari di esazione delle imposte). Quella nazionale-mercantilista dalla tariffa doganale e dagli incentivi (su base non discriminatoria, grande segno di modernità a quell’epoca) per l’industria francese.    
Le due anime hanno dato origine a due filoni di nipoti; ambedue si riconoscono in  Colbert , pure nella madre-Patria, ma non si amano; anzi, come avviene in molte famiglie, da oltre tre secoli litigano per l’eredità (il nome) dell’illustre antenato. Un filone ha sempre promosso la teorizzazione e razionalizzazione dell’intervento pubblico dell’economia; nella stessa Francia ha prodotto la “programmazione indicativa” ed il Commissariato al Piano, metodi e strumenti a cui si abbeverarono, in estasi, molti economisti italiani all’inizio degli Anni Sessanta quando il centro-sinistra faceva i suoi primi passi traballanti. Di recente, Oltralpe, ha trovato epigoni in economisti come Marc Chervel e politici come Chévenement.
Un altro filone è quello dove il giovane Frédéric Bastiat (del cui bicentario della nascita si è ricordata nel nostro Paese solo ItaliaOggi) succhiò il latte come se fosse quello della “su’ mamma”. Liberista integrale, anzi integralista (nonché padre della roccaforte viva e vegeta nell’Università di Aix en Provence e lontano zio di Pascal Salin), Bastiat definì, prima degli economisti scozzesi, le condizioni essenziali per un mercato funzionante: una “soglia minima” di simmetria di posizioni e di informazioni. In termini poveri, il mercato produce benessere solo se nessuno bara, almeno per quanto attiene alle regole di base.
In materia di politica industriale e commercio internazionale, la divisione è netta. Un filone ha dato vita ad una scuola di pensiero ed azione nettamente protezionista ed a favore di industrie decotte e carrozzoni per tenerle in vita (pur se solo vegetativa); in Italia iniziò a prendere piede già nel 1878 con la tariffa doganale Luzzatti, proseguì negli Anni Trenta e riapparve negli Anni Settanta con gemme quali la “legge Prodi” e  la netta chiusura di gran parte dell’attuale opposizione alle liberalizzazioni conseguenti il sistema di cambio europeo. La seconda, invece, ha rappresentato il filone che ha scelto l’apertura dell’economia italiana al mercato internazionale ed ha tenuto duro anche nella buia notte di quell’esperimento di “solidarietà nazionale” che ha portato a dilatazione dell’intervento e della spesa pubblica ed progressive svalutazioni.
A livello internazionale, è alla base dalla filosofia del Gatt prima dell’Omc (Organizzazione Mondiale del Commercio) poi – ambedue basate sui principi della non-discriminazione e della reciprocità in materia di commercio internazionale. Dall’inizio degli Anni Ottanta, però, risoluzioni parallele dell’Omc e dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (Oil) affermano che tali principi devono essere applicati tenendo conto di “soglie invalicabili”, sotto il profilo sia economico sia morale: non si possono aprire le porte a chi bara sfruttando il lavoro minorile, il lavoro coatto, financo la schiavitù ed a chi non mantiene standard minimi di regole lavoristiche e sanitarie (per l’appunto le convenzioni “fondamentali” dell’Oil). 
Tanto tra i primi quanto tra i secondi, però, si annidano anche dei nipotacci, quelli dell’intervento pubblico impiccione e pasticcione, di cui, per il vostro chroniqueur, è stato anni fa un esempio lampante il “decreto salva calcio”; lo sono i mille rivoli di sussidi alle imprese (chiamati pudicamente ‘incentivi’) che secondo il ‘Rapporto Giavazzi’ potrebbero essere ridotti di 10 miliardi euro senza colpo ferire e nell’interesse della collettività.
Una “politica industriale” italiana in questo primo scorcio di 21simo secolo non deve essere protezionista e sussidiatoria ma può, ed anzi, deve situarsi nell’alveo di quel documento Ue “Europa 2020” che dovrebbe costituire la stella polare delle strategie di integrazione europea.
E’ utile ricordare quali sono i punti essenziali di “Europa 2020” e cosa si è inteso in Italia per “politica industriale”.Il primo  è un compito semplice. Più complesso il secondo poiché il significato del termine ha avuto un’evoluzione considerevole negli ultimi decenni.
“Europa 2020” è un documento snello di 30 pagine a stampa fitta-  un merito importante data la nota predilezione di Bruxelles per volumi ponderosi. La crisi economica – afferma la premessa del documento - ha messo a nudo le gravi carenze di un'economia già resa fragile dalla globalizzazione, dal depauperamento delle risorse e dall'invecchiamento demografico. La Commissione dichiara che questi ostacoli possono essere superati, se l'Europa decide di optare per un mercato “più verde e innovativo”. La strategia individua le seguenti priorità: sostenere le industrie a basse emissioni di CO2, investire nello sviluppo di nuovi prodotti, promuovere l'economia digitale e modernizzare l'istruzione e la formazione. Propone inoltre cinque obiettivi quantitativi, compreso l'innalzamento del tasso di occupazione ad almeno il 75% dall'attuale 69% e l'aumento della spesa per ricerca e sviluppo al 3% del prodotto interno lordo. Attualmente quest'ultima rappresenta soltanto il 2% del PIL, un livello di gran lunga inferiore a quello di Usa e Giappone.
La nuova strategia riconferma gli ambiziosi obiettivi dell'UE in materia di cambiamenti climatici (20/20/20) e propone di ridurre il tasso di povertà del 25% per aiutare circa 20 milioni di persone ad uscire dall'indigenza. Nel campo dell'istruzione, la Commissione vuole portare il tasso di abbandono scolastico al di sotto del 10% (dall'attuale 15%) e accrescere in maniera significativa (dal 31% al 40%) la percentuale dei giovani trentenni con un'istruzione universitaria. Nessuno di questi obiettivi sottintende una “politica industriale” nei vari significati che, di volta in volta, ha avuto il termine.
Il documento propone che i governi concordino obiettivi nazionali che tengano conto delle condizioni di ciascun paese, aiutando nel contempo l'UE nel suo insieme a raggiungere i suoi traguardi. La Commissione controllerà i progressi compiuti e, in caso di "risposta inadeguata", formulerà un monito. L'UE già sorveglia le finanze pubbliche per evitare squilibri tali da mettere in pericolo l'area dell'euro. La nuova strategia va tuttavia oltre e affronta anche altri problemi che potrebbero minare la competitività dell'UE.
Vengono individuate  sette iniziative prioritarie per stimolare la crescita e l'occupazione. Tra queste figurano i programmi per migliorare le condizioni e l'accesso ai finanziamenti nel settore della R&S, l'introduzione in tempi rapidi dell'Internet ad alta velocità e il maggiore ricorso alle energie rinnovabili. Programmi che potrebbero essere letti come parte di una “politica industriale” “a basso potenziale” e tale ds guardare al lungo periodo, piuttosto che al breve e medio (quali le situazioni di crisi di questa o quella azienda o di questo o quel comparto).
L’Italia, Paese definito di “tarda industrializzazione” nelle storie economiche dell’Europa, non ha parlato di “politica industriale”, ma ne ha fatta a partire dell’età giolittiana, intensificandola (ed, in gran misura, razionalizzandola durante il fascismo). “Politica industriale” è stata uno dei temi principale di dibattito a partire dall’inizio degli Anni Sessanta e, quindi, dall’inizio del centro-sinistra. In una prima lunga fase si è seguita quella che veniva chiamata “la politica dei settori”, ossia l’identificazione di settori che, tramite poli di sviluppo ed interdipendenze, fossero in grado di trainare il resto dell’economia. Si è favorita l’industria di base  (metallurgia, siderurgia, chimica), unitamente, sin troppo ovviamente, con la metalmeccanica. I risultati sono stati inferiori alle aspettative, in gran misura perché puntavamo su comparti i cui costi di produzione erano notevolmente inferiori ai nostri in Paesi del vicino Mediterraneo.
Negli ultimi due decenni del 20simo secolo, l’accento è passato ad una “politica dei fattori”, sgravi tributari e deroghe alla normativa generale sul lavoro, sia generalizzati sia diretti a comparti od ad aree territoriali da promuovere o d cui alleviare il declino. La “politica dei fattori” è stata accompagnata da strumenti etichettati “incentivi” che celavano sussidi più o meno espliciti a questo o quel comparto da incoraggiare o di cui attenuare le difficoltà. La “politica dei fattori” è stata rivalutata recentemente in analisi retrospettive degli Anni Ottanta, ma è stata gradualmente abbandonata in quanto molti dei suoi aspetti, e delle sue misure specifiche, non in linea con le regole EU in materia di concorrenza. Anche ove una lettura forzata della normativa europea, rendesse possibile un rilancio della “politica dei fattori”, le difficoltà di bilancio pubblico non rendono pratica una “politica dei fattori” (ed ancor meno una “politica dei settori) analoghe a quelle del passato.
Come affrontare allora i nodi delle vertenze per industrie in difficoltà (non solo Ilva, Telecom e Alitalia, ma tante altre) ? E, soprattutto, come rilanciare il manifatturiero in modo che l’Italia sia in grado di agganciarsi ai segni di ripresa mondiale? Nel breve periodo, la strada più facilmente percorribile consiste nel facilitare ristrutturazioni e riorganizzazioni mirate ad una migliore produttività ed ad una maggiore competitività ; occorre ,però, un’attenta valutazione finanziaria ed economica dei piani specifici di riorganizzazione e ristrutturazione. Il MISE dispone a riguardo di un’apposita unità di valutazione, che dovrebbe essere utilizzata a pieno regime.
Per il più lungo termine, gli inviti di “Europa 2020” per una maggiore e migliore ricerca ed innovazione minacciano di diventare mere novene se non accompagnate da risorse finanziarie (anche esse attentamente valutate) che la finanza pubblica non è in grado di fornire. Una possibilità da esplorare con attenzione consiste nell’attirare l’attenzione e l’interesse del Long Term Investors Club, l’associazione di grandi investitori istituzionali come la Cassa Depositi e Prestiti, la Caisse de Depots et Consignations, la Banca europea degli investimenti, ed alcuni fondi sovrani. E’ una strada perfettamente in linea con “Europa 2020”.
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