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Europa: uno sguardo a lungo termine
Eurozona destinata, per i prossimi 10 o 15 anni, a una crescita lenta, molto prossima alla stagnazione
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Settembre è il mese in cui le istituzioni europee -specialmente
quelle economiche e finanziarie- devono cercare di giungere a posizioni
comuni all’assemblea annuale della Banca mondiale e del Fondo Monetario che
quest’anno ha luogo a Washington all’inizio di ottobre. Raramente, questi
tentativi hanno successo: spesso gli stessi Paesi dell’eurozona prendono
linee differenti, ove non necessariamente divergenti, all’assemblea delle
due maggiori istituzioni finanziarie internazionali.
L’Italia, uno degli Stati fondatori dell’Unione Europea (UE), potrebbe
avere un ruolo importante nel mediare su temi specifici (ad esempio, le
differenze tra Francia e Germania in materia di mercato del lavoro e di
vigilanza bancaria) ma anche e soprattutto sul più vasto argomento di quale
Europa predisporre per il futuro: se un’Europa che vada progressivamente
verso il federalismo od una a cerchi concentrici di varie forme e gradi di
cooperazioni intergovernative. Per avere questo ruolo e, ancor più, per
trasmettere l’immagine a sé stessa ed agli altri nelle prossime contese
elettorali, occorre uscire da discussioni sul breve periodo -short termism per
utilizzare una parola inglese ormai diventata di uso comune anche nel nostro
Paese- e dai giochetti personalistici di potere. Il Governo ha appena trovato
una soluzione a problemi scottanti come quelli dell’IMU e di alcune categorie
di esodati.
Occorre, però, una visione di lungo termine. Il quadro
non è rassicurante. Lo confermano le stime del Rapporto Fmi: una contrazione
del Pil di 14 punti percentuali tra il 2008 ed il 2014 a cui seguirebbero
(se le riforme vengono effettuate nei modi e nei tempi previsti), dieci anni
con un aumento compressivo del Pil di 4 punti percentuali (ossia dello 0,33%
l’anno). Nel contempo, la contrazione 2008-2014 ha distrutto parte
importante del principale settore produttivo di un Paese a vocazione
manifatturiera come il nostro in quanto privo di risorse naturali, con
un’agricoltura poco competitiva e con servizi finanziari non innovativi: la
produzione industriale è passata dal 22% al 15% del Pil in sette e nel
Mezzogiorno, secondo l’ultimo Rapporto Svimez, siamo alle prese con una
vera e propria ‘desertificazione industriale’. In questo contesto si pone il
problema occupazionale, all’origine anche dei moti studenteschi di questi
giorni.
Il problema non è solamente italiano ma di tutta l’UE. In una recente riunione Aspen, il Ministro delle Finanze della Repubblica
federale tedesca, Wolfgang Schäuble, ha ammonto che è meglio non farsi
illusioni: la Germania cresce ancora (pur se a un tasso annuo solamente attorno
all’1%), ma, una volta -chissà quando- terminata la recessione, l’Europa in
generale, e l’Eurozona in particolare, sono destinate a una lunga
fase di crescita lenta, con inevitabili pressioni sul mercato del lavoro.
In sintesi, le prospettive per i prossimi dieci-quindici anni sono di
aumenti del Pil molto prossimi alla stagnazione. La determinante di fondo è
la perdita (avvenuta negli Anni Novanta del Novecento) del monopolio
del progresso tecnologico di cui un gruppo di Paesi OCSE ha fruito per circa
due secoli; alcuni Paesi dell’UE (Austria, Germania, Olanda, Finlandia)
hanno dato prova di notevole ‘efficienza adattiva’ a nuovo contesto mondiale ed
a realizzare le necessarie riforme. Altri, come l’Italia, pur avendo mostrato
notevole ‘efficienza adattiva’ in passato (ad esempio nel dopoguerra e negli
Anni Ottanta) non sono capaci di effettuare le riforme per tener conto del
nuovo quadro internazionale e della sua probabile evoluzione.
Nello scenario secondo cui le riforme verrebbero attuate come programmato, come si è visto, l’Italia potrà contare su una crescita dello 0,33%
per i dieci anni dal 2014 al 2024; se non si faranno le riforme, o
se saranno meno tempestive e meno incisive di quanto ora progettato, la
crescita sarà inferiore. Solo tre anni fa, la Banca Centrale Europea (Bce),
la Commissione Europea (Ce), e il Fondo Monetario Internazionale (Fmi) ponevano
all’1,3% l’anno il ‘potenziale di crescita’ dell’economia italian - dato che
suscitò ironia tra alcuni giornalisti economici italiani, i quali, non si sa
bene con quale strumentazione, contrapposero un solido (e fantastico) 3%.
La situazione italiana non è peggiore di quella di altri Paesi dell’Unione
Europea (Ue). Grecia, Spagna, Portogallo e Malta hanno
prospettive più negative delle nostre. La Francia le ha più o meno come le
nostre. I ‘virtuosi’ nordici crescerebbero meno dell’1% l’anno, con il
risultato di non potere neanche loro assorbire la crescente massa di nuova
forza lavoro con poche speranze di avere carriere e redditi analoghi a quelli
dei loro padri e nonni. Nei cassetti della Ce si sta rispolverando un
programma di alcuni anni fa, quello del ‘servizio civile europeo’:
allora, si pensava a un mero collegamento tra i ‘servizi’ nazionali, adesso a
qualcosa come il rooseveltiano ‘esercito del lavoro’, il cui finanziamento
richiederebbe, però, seri emendamenti ai trattati che regolano
l’eurozona.
Il problema ha radici profonde: l’Europa ha perso -unitamente agli Stati
Uniti- il monopolio del progresso tecnologico proprio quando è iniziato un
inarrestabile invecchiamento della popolazione -fenomeno noto a demografi ed
economisti e su cui sono stati scritti diecine di volumi (per una sintesi si
veda il brillante paper di Francesco Giavazzi ‘The risky game of chicken
between Eurozone governments and the ECB’, pubblicato alcuni anni fa, ma
ancora freschissimo), ma a cui gran parte della politica ha prestato poca
attenzione. Anzi, spesso ne ha aggravato (e ne sta aggravando) gli effetti.
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L’invecchiamento della popolazione porta a un aumento dell’età
dell’elettore ‘mediano’. Nelle società in cui le decisioni
sono prese a maggioranza, il risultato della consultazione elettorale tenderà a
collocarsi intorno alla posizione mediana nelle preferenze dei diversi
individui. Il teorema costituisce uno dei più noti risultati della teoria
delle votazioni che studia le procedure di formazione delle scelte
collettive e dimostra che il risultato finale della votazione tende a
corrispondere alle preferenze dell’elettore per il quale l’alternativa migliore
si colloca in una posizione mediana. Quest’ultimo elettore, infatti, è quello
che esprime una posizione con cui concorda la maggioranza degli elettori.
Già adesso l’età dell’elettore ‘mediano’
nell’UE si avvicina ai 50 anni. Il risultato è che per conquistare il
voto di coloro che fanno massa si guarda più agli obiettivi degli anziani che a
quelli delle giovani generazioni. Non solo chi è anziano tende a preferire
la stabilità al rischio (elemento essenziale per la crescita, come sappiamo sin
dai primi lavori di Joseph Schumpeter), ma diffida di riforme che possono,
direttamente o indirettamente, mettere a repentaglio quelli che loro giudicano,
a ragione o a torto, ‘diritti quesiti’ nella loro vita lavorativa ed ultimi
anni della loro avventura terrena.
Ne abbiamo avuto due esempi recenti. In Francia, il Governo socialista ha
varato un programma di aggravi tributari di 30 miliardi di euro e di riduzione
della spesa di 10 miliardi di euro che ha portato in piazza il 30 settembre ben
80.000 persone solamente a Parigi, ma ha trovato modi e maniere per riportare
da 62 a 60 l’età pensionabile, proprio al fine di soddisfare l’elettore
‘mediano’. In Spagna, il Governo popolar-liberale ha varato il programma di
finanza pubblica più severo della storia del Regno al fine di evitare
insolvenze e fallimenti bancari a catena; non solamente non ha toccato il capitolo
pensioni, ma ha previsto, per il 2013, un leggero aumento per tutto coloro che
sono ‘a riposo’. In Spagna, la spesa previdenziale è pari al 9% del Pil,
inferiore a quella dell’Italia (13%) e della Francia (15%), ma l’invecchiamento
è più rapido che negli altri due Paesi: nel 2050 un terzo della popolazione
avrà più di 65 anni.
C’è la probabilità che l’aumento dell’età dell’elettore ‘mediano’
sarà un freno alla riforme e che i tassi di crescita saranno ancora più
bassi di quelli, deludenti, citati. Da anni una pattuglia di
economisti e di demografi sostiene l’urgenza di dare attenzione alla politica
per la famiglia come veicolo per aumentare la natalità e cominciare a
modificare le tendenze. Nell’UE e in numerosi Stati membri non se parla. In
Italia se ne bisbiglia soltanto. Non è mai troppo tardi per porre il tema sul
tavolo.
Oggi in Italia il tasso di coloro che cercano attivamente lavoro senza
trovarlo è pari al12% delle forze lavoro. Nell’Europa a 28, gli ‘occupati
in attività dipendenti’ dell’Italia sono i penultimi in termini di orari
settimanali effettivi di lavoro. Secondo stime (mai smentite) elaborate dal
Premio Nobel Edward C. Prescott, su base annua un ‘occupato’
italiano lavora un numero di ore di lavoro inferiore al 40% di quelle
effettivamente lavorate da un ‘occupato’ americano. Inoltre, l’invecchiamento
della popolazione in parte dovuto alla mancanza di una politica per la famiglia,
l’età mediana (quella attorno alla quale di addensa la maggior parte di
uomini e donne) degli elettori italiani sta raggiungendo (come si è
detto) i 50 anni -quando moltissimi contano i mesi che li separano
dalla pensione, non investono guardando al lungo periodo (specialmente se non
hanno figli), non innovano e tanto meno si dedicano al venture capital o
simili. Le prospettive sono di una società grigia e sempre più povera di
reddito e -ciò che è più grave- di idee.
Questo percorso sembra irrevocabilmente segnato. Tuttavia,occorre
aprire ed approfondire il ‘dibattito proibito’, per riprendere il titolo di un
libro di Jean Paul Fitoussi, su questi temi. Al fine di esaminare come
cambiare tracciato e giungere nel 2030 ad Italia che sia almeno al livello del
2010.
Cerchiamo di vedere quali sono le trappole da evitare e quali le
leve che si può pensare di utilizzare.
Innanzitutto, se il nodo del problema riguarda l’‘efficienza adattiva’, anche e soprattutto a ragione dell’invecchiamento demografico e dell’apparato produttivo, occorre non cadere nella trappola secondo cui ritrovata la sovranità monetaria (uscendo, ad esempio, dall’unione monetaria) potremmo accelerare una crescita che non c’è. Negli Anni Settanta, quando si guardava alla Banca d’Italia per uscire dalla recessione, l’allora Governatore Guido Carli dava conto delle misure di stimolo prese aggiungendo ‘Il cavallo non beve’. D’altronde lo stesso John Maynard Keynes, in alcune pagine della ‘Teoria Generale’, aveva esaminato casi di cosiddetta ‘trappola della liquidità’: individui, famiglie e imprese mettono sotto il materasso la liquidità loro offerta perché prefigurano tempi bui in cui ne avranno esigenza. Tesorizzano invece di investire o migliorare livello e qualità dei consumi.
Come già detto, l’attuale recessione è differente rispetto a quelle di cui abbiamo avuto esperienza nel secondo dopoguerra. Non è stata determinata da un rallentamento, prima, e da un crollo, poi, della produzione. Oppure da un’improvvisa contrazione dei consumi. Nell’eurozona (e negli Stati Uniti) si è alle prese non solo con l’invecchiamento e la scarsa ‘efficienza adattiva’ ma anche con quella che Richard C. Koo -economista nippo-americano che guida da anni il servizio studi del Nomura Research Institute- chiama acutamente una ‘balance sheets recession’, ovvero una recessione dei conti profitti e perdite. Ciò si verifica quando alcuni asset perdono drasticamente di valore, causando crisi debitorie più o meno gravi, e gli obiettivi d’investimento di individui, famiglie e imprese mutano drasticamente: dalla ‘massimizzazione del profitto’ si passa alla ‘minimizzazione dell’indebitamento’ (per timore di nuove crisi debitorie). Per questo motivo la crisi è tanto grave e la stagnazione, accompagnata da momenti di recessione, minaccia di essere duratura.
Innanzitutto, se il nodo del problema riguarda l’‘efficienza adattiva’, anche e soprattutto a ragione dell’invecchiamento demografico e dell’apparato produttivo, occorre non cadere nella trappola secondo cui ritrovata la sovranità monetaria (uscendo, ad esempio, dall’unione monetaria) potremmo accelerare una crescita che non c’è. Negli Anni Settanta, quando si guardava alla Banca d’Italia per uscire dalla recessione, l’allora Governatore Guido Carli dava conto delle misure di stimolo prese aggiungendo ‘Il cavallo non beve’. D’altronde lo stesso John Maynard Keynes, in alcune pagine della ‘Teoria Generale’, aveva esaminato casi di cosiddetta ‘trappola della liquidità’: individui, famiglie e imprese mettono sotto il materasso la liquidità loro offerta perché prefigurano tempi bui in cui ne avranno esigenza. Tesorizzano invece di investire o migliorare livello e qualità dei consumi.
Come già detto, l’attuale recessione è differente rispetto a quelle di cui abbiamo avuto esperienza nel secondo dopoguerra. Non è stata determinata da un rallentamento, prima, e da un crollo, poi, della produzione. Oppure da un’improvvisa contrazione dei consumi. Nell’eurozona (e negli Stati Uniti) si è alle prese non solo con l’invecchiamento e la scarsa ‘efficienza adattiva’ ma anche con quella che Richard C. Koo -economista nippo-americano che guida da anni il servizio studi del Nomura Research Institute- chiama acutamente una ‘balance sheets recession’, ovvero una recessione dei conti profitti e perdite. Ciò si verifica quando alcuni asset perdono drasticamente di valore, causando crisi debitorie più o meno gravi, e gli obiettivi d’investimento di individui, famiglie e imprese mutano drasticamente: dalla ‘massimizzazione del profitto’ si passa alla ‘minimizzazione dell’indebitamento’ (per timore di nuove crisi debitorie). Per questo motivo la crisi è tanto grave e la stagnazione, accompagnata da momenti di recessione, minaccia di essere duratura.
L’Italia non è in una ‘balance sheets recession’
particolarmente acuta a ragione della prudenza e del proprio sistema
bancario e delle famiglie. Ma è contornata da Paesi che lo sono
(Francia, Spagna, Grecia, Portogallo, anche parte della Germania). È un vaso di
coccio tra vasi di ferro. Dato il forte grado d’integrazione europea, viene
trascinata dagli altri: la nostra recessione tradizionale dipende in gran
misura dalle recessioni altrui. Inoltre, l’aumento della pressione fiscale
rischia di trasformare in depressione la recessione.
Per tornare a crescere ci vorrebbero un’iniezione di fiducia, un obiettivo condiviso in cui credere, una liberalizzazione dei mercati protetti, un miglioramento della qualità delle risorse umane -gli ingredienti che fanno crescere competitività e produttività e, quindi, ‘efficienza adattiva’. Invece, liberarsi dai vincoli dell’unione monetaria e ritrovare la ‘sovranità monetaria’, porterebbe ad una drastica svalutazione -stime della Commissione Europea (CE) pongono al 30% la fiscal devaluation dell’Italia- che diffonderebbe sfiducia, non fiducia. Aggravando la situazione, non migliorandola. In questo contesto, poi, una scossa alla Reagan (ossia una drastica riduzione della pressione fiscale accompagnata da una manovra espansionistica del bilancio pubblico), pur avvocata da un’associazione di imprenditori e docenti universitari tra i 35 ed i 45 anni e risultante come la misura più votata all’ultimo sondaggio del Club dell’Economia, potrebbe avere effetti devastanti dato che l’economia italiana non gode della fiducia da ‘ultima spiaggia’ di cui fruisce l’economia americana e dato che l’euro (ove ci fosse concesso di restare nell’unione monetaria in piena flagranza di violazione dei trattati) non la funzione di signoraggio di cui gode il dollaro degli Stati Uniti.
Per il lungo periodo, utili spunti si possono trarre da proposte presentate
in questi mesi da varie Fondazioni più o meno contigue a schieramenti
politico-culturali. Un primo gruppo di proposte riguarda come ridurre il
fardello del debito pubblico che, di per se stesso, frena di un punto
percentuale la crescita economica dell’Italia -e spiega come l’aumento
potenziale annuo del Pil sia passato dall’1,3% stimato verso il 2005 da CE,
Bce, e Fmi allo 0,3% delle ultime stime OCSE). Anche se un lavoro molto recente
del FMI (incluso nell’ultima edizione del ‘World Economic Outlook’)
mostra scetticismo nei confronti della solidità e durevolezza di misure
straordinarie per ridurre il debito pubblico, un seminario al CNEL ha messo
a confronto una dozzina di proposte che vanno dal ‘vendere, vendere,
vendere’, a prestiti forzosi, a strumenti finanziari per
riscattare il debito in essere (diminuendo l’interesse medio ed allungando
le scadenze). La proposta più articolata è quella messa a punto dalla Fondazione
Astrid; se attuata, potrebbe riportare verso il 2025 il tasso di
crescita potenziale all’1,3% l’anno). Prevede una gamma di strumenti e la
possibilità di misurare in concreto efficienza ed efficacia di ciascuno di essi,
modificando, per così dire, le dosi in corso d’opera.
Relativamente poco ambiziosa, ove non modesta, la proposta del Ministero
dell’Economia e delle Finanze di riduzione (tramite dismissioni) di un punto
percentuale l’anno il rapporto tra stock di debito pubblico e Pil.
Il secondo punto chiave riguarda la politica industrial-manifatturiera.
E’, e continuerà ad essere, l’asse portante di un Paese privo di risorse
naturale (e quindi trasformatore) ed in cui i servizi sono composti o da
mini-imprese marginali o da comparti protetti. Alcune analisi (ad esempio,
quelle della Fondazione Edison) suggeriscono che le piccole e medie
imprese hanno dato prova, di fronte alla crisi, ad un buon grado di ‘efficienza
adattiva’. Solo l’Arel pare affrontare, almeno in parte, il problema centrale: le
dimensioni d’impresa; le nostre sono minute nel contesto europeo ed
ancor più in quello mondiale, non in grado, quindi, di fare altra
innovazione che quella ‘adattiva’ -ossia applicare all’Italia i risultati
di ricerche di base straniere. Occorre, a mio avviso, studiare con
attenzione il programma elaborato in Germania ed attuato dagli Anni Ottanta
per aumentare le dimensioni delle loro ‘piccole imprese’ (che corrispondono a
grandi imprese italiane) e farle diventare i giganti oggi alla conquista del
mercato mondiale. Ciò comporta nuove regole di ‘governance’ imprenditoriale,
di selezione del management, di formazione e governo delle
risorse umane, nonché incentivi a fusioni e concentrazioni.
Il nodo centrale resta come avviare, portare avanti e realizzare questo
cambiamento di un percorso che, alla Douglas C. North, sembra ‘predefinito’. Il
requisito di base è inevitabilmente politico: i cittadini devono
ritrovare fiducia nel ceto politico -ciò comporta riduzione del
numero dei Parlamentari, fine del bicameralismo perfetto, adeguamento di
indennità almeno a quelle del Parlamento Europeo, drastico tagli agli
apparenti, un sistema elettorale che consenta contatti tra elettori ed eletti e
monitoraggio dei primi nei confronti dei secondi, eliminazione di alcuni
livelli intermedi di governo, e via discorrendo.
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