Alitalia e Telecom, monumenti all’incapacità dei manager
26 - 09 -
2013Giuseppe Pennisi
Mentre il presidente del Consiglio
Enrico Letta è all’estero per vantare le virtù di “Destinazione
Italia” (cinquanta capsule di aspirina mentre l’ammalato ha urgente
bisogno del chirurgo), due tra le poche grandi imprese italiane prendono la
strada dell’estero, finendo sotto il definitivo controllo straniero.
Una, Telecom Italia, lo ha già fatto
senza curarsi di informare il proprio presidente Esecutivo (che ne dovrebbe
trarre le conseguenze). La seconda è in procinto di farlo nonostante le preci e
gli ammonenti del responsabile economico del “socio di maggioranza” del
governo. Dovrebbe anche lui trarne conseguenze dato che il proprio padre
(presidente del gruppo in uscita) non lo ascolta (come usano fare i genitori
anziani nei confronti di figli che ritengono maturi).
Se non fossero in ballo il futuro
dell’industria manifatturiera italiana (che, secondo i più recenti dati
dell’Eurostat, ha perso il 20% della propria capacità produttiva nell’ultimo
lustro) e migliaia di posti di lavoro (in un contesto in cui il saggio di
disoccupazione è già al 12% della forza lavoro), si potrebbe dire che siamo
alle prese con un genere di teatro in musica tipicamente italiano il
dramma giocoso.
Vorrei precisare che da economista e da liberale, a me non interessa se la proprietà di un’impresa sia italiana o straniera purché i livelli di produttività e di competitività siano elevati e la qualità del servizio ai più alti standard mondiali. Mi preoccupa, però, la de-industrializzazione dell’Italia in quanto Paese privo di agricoltura concorrenziale ed i cui servizi sono antiquati ed a basso livello di tecnologia.
Vorrei precisare che da economista e da liberale, a me non interessa se la proprietà di un’impresa sia italiana o straniera purché i livelli di produttività e di competitività siano elevati e la qualità del servizio ai più alti standard mondiali. Mi preoccupa, però, la de-industrializzazione dell’Italia in quanto Paese privo di agricoltura concorrenziale ed i cui servizi sono antiquati ed a basso livello di tecnologia.
Tutti i commentatori stanno
discettando in questi giorni su come ridurre il danno (ad esempio, scorporando
la rete Telecom o mantenendo un hub aeroportuale a Roma). Pochi si chiedono
quale sono le determinanti di fondo degli avvenimenti di questi giorni.
Utile a riguardo è leggere i
ritratti in un’opera in più volumi, i primi due sono usciti in questi giorni
(CIRIEC Protagonisti dell’intervento pubblico in Italia prefazione
di Antonio Maccanico Introduzione di Luciano Cafagna, Aragno Editore)
che, casualmente, proprio il 26 settembre, sono stati presentati nella Sala
delle Colonne di uno degli edifici sotto il controllo della Camera dei
Deputati. I ritratti riguardano il passato e sono basati in gran parte su
documenti dell’archivio Iri, raramente studiato (nonostante sia disponibile
presso l’Archivio dello Stato).
Il quadro che ne risulta è che
l’intervento pubblico nell’economia nato come conseguenza della crisi degli
Anni Trenta sarebbe dovuto essere temporaneo. Quando il Governo dell’epoca
propose ai maggiori industriali italiani di privatizzare le imprese risanate,
non trovò nessun acquirente, sempre che la bolletta (della denazionalizzazione)
non fosse stata pagata dallo Stato medesimo. Il capitalismo italiano era non
soltanto “senza capitali” ma anche senza “manager”.
Gli uffici a Roma del Piano Marshall
non capendo, sulle prime, cosa fosse l’Iri (e pensando che si trattasse di uno
strumento figlio di un’ideologia), conclusero – sulla base di una relazione di
Donato Menichella e soprattutto di rapporti riservati di Viktor Sullam, Hollis
Chenery, Vera Lutz e Gisèle Podbielski – che le partecipazioni statali erano
l’equivalente “all’italiana” delle public companies anglosassone,
con proprietà diffusa ma management scelto su principi meritocratici, mentre il
“capitalismo senza capitali” era privo di capacità imprenditoriali e si passava
lo scettro da padre in figlio, perdendo pezzi ad ogni passaggio.
Ben sappiamo come il sistema Iri sia
degenerato dalla metà degli Anni Cinquanta e che, anche ove fosse rimasto di
grande qualità, sarebbe stato incompatibile con un mercato aperto e con
l’integrazione economica internazionale. Occorre, però, chiedersi se al di là
degli errori delle singole privatizzazioni (e le vicende di Telecom ed Alitalia
ne mostrano molteplici), l’Italia non solo ha difficoltà a selezionare il ceto
politico ma ne ha anche a selezionare quello imprenditoriale e manageriale per
le maggiori imprese. E’ un problema degli italiani in Italia non all’estero: i
due Senior Vice President della maggiore impresa mondiale – General Electrics –
si chiamano Mastrangelo e Sollecito – non certo nomi anglosassoni o nordici.
Quindi, offriamo al resto del mondo
una “Destinazione Italia” prima di avere un ben articolato diritto
dell’economia ed un sistema giudiziario con un minimo di efficienza e dopo aver
avviato verso l’estero chi ha capacità imprenditoriale e manageriale per
tenerci cortigiani privi dell’essenza del mestiere di imprenditore e di
manager.
In giro per il mondo, il presidente
del Consiglio dovrebbe riflettere su “chi ha Giocondo i
scritto in fronte”. Proprio come nel concertato con cui si chiude il primo atto
del dramma giocoso Il Barbiere di Siviglia.
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