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Telecom e Ilva di Taranto, così l’industria italiana si è "ammalata"
Pubblicazione: lunedì 23 settembre
2013
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I maggiori commentatori economici si sono mobilitati per commentare le
vicende, sempre più ingarbugliate e sempre più tristi, di Telecom e Ilva.
Nessuno, però, credo abbia evidenziato come si tratti di vicende e di malattie
parallele. Un’occasione potrebbe essere la presentazione dell’opera del Ciriec Protagonisti
dell’Intervento Pubblico in Italia mercoledì 25 settembre alla Camera dei
Deputati da un panel di rango (Pierluigi Ciocca, Marcello De Cecco, Giorgio La
Malfa, Flavia Piccoli Nardelli - moderatore Piero Craveri), quando verrà, senza
dubbio, rievocato il ruolo dello Stato nell’industrializzazione dell’Italia e
non si potrà non parlare del metodo non certo privo di pecche utilizzato nelle
de-nazionalizzazioni (locuzione da preferire a privatizzazioni) degli anni
Novanta. Le vite parallele e i malanni anch’essi paralleli di Ilva e di Telecom
iniziarono allora.
Sono stato uno dei contributori del Rapporto Cafferena che delineò
la politica industriale degli anni Ottanta: Nino Caffarena e i fratelli
Paternò, allora molto giovani, che lavoravano con lui, erano liberali sino al
midollo e sono rimasti tali (Caffarena, purtroppo, se ne è andato da anni).
Tuttavia, ritenevano che in certi settori industriali la presenza dello Stato
fosse necessaria, a ragione principalmente delle scarse qualità del management
disponibile sul mercato. Eravamo nel 1984 non negli anni di Beneduce o in
quelli di Montemartini.
L’Ilva nasce dal tracollo dell’Italsider, diventata ormai decotta perché
nel settore della siderurgia nuovi entranti ci avevano spiazzato nella
produzione di base e non eravamo andati speditamente verso quella di acciai
speciali. Molti anni prima, nel gennaio 1969, al mio primo lavoro come giovane
funzionario ancora in prova della Banca Mondiale, mi venne dato l’incarico di
studiare i settori industriali della Repubblica araba unita (come allora si
chiama l’Egitto) e rimasi stupito dagli impianti siderurgici di Elwan, così più
moderni di quelli che avevo visto in Italia.
Allora era già iniziato un periodo di svolta per la siderurgia italiana.
Valutazioni molto ottimistiche sulle prospettive di crescita dei consumi di
prodotti siderurgici (in un quadro di continuo sviluppo dell’economia italiana
e mondiale) e l’allargamento del passivo del saldo siderurgico con l’estero
incoraggiarono l’approvazione di ingenti piani pubblici d’investimento. Tra
questi il raddoppio dell’impianto di Taranto, che prese la forma di un nuovo
modulo per lavorazioni identiche al primo. L’espansione impressa al settore
pubblico stimolò analoghe iniziative nel privato da cui venne un ulteriore
impulso all’aumento dei livelli di capacità.
Il 1974 fu l’anno record dell’offerta siderurgica italiana. La produzione
nazionale di acciaio risultò pari a circa 23 milioni di tonnellate, una misura
molto prossima al livello del consumo apparente. Nello stesso anno, la capacità
produttiva raggiunse i 30 milioni di tonnellate. Contrariamente alle
previsioni, gli anni di massima espansione dell’offerta coincisero con l’inizio
di un periodo di caduta dei consumi siderurgici, determinando l’insorgere di
problemi di eccesso di capacità produttiva inutilizzata.
La depressione, particolarmente pronunciata tra il 1975 e il 1977, risultò
aggravata dalla crescente competitività dei produttori emergenti e dal
rafforzamento dei concorrenti tradizionali. Il nuovo stabilimento di
Fos-sur-Mer in Francia, per esempio, era concorrente diretto del centro
siderurgico di Taranto, ma alla fine risultò più competitivo grazie ai minori
costi di trasporto garantiti da una migliore ubicazione. Se le difficoltà
affrontate dal nostro Paese non risparmiarono gli altri produttori europei, in
Italia esse vennero però accresciute dalla scarsa flessibilità delle grandi
imprese pubbliche, che durante le fasi di depressione della domanda non
poterono adeguare i livelli occupazionali all’aumento dei costi.In questo contesto, si arriva alle cessione degli impianti a un’antica (nata nel 1905) società del gruppo Riva. Non sta certo a un semplice economista entrare in quella che è diventata una complessa battaglia politico-giudiziaria. È verosimile che la proprietà non abbia investito in modernizzazione e trasformazione degli impianti i misura necessaria. È anche possibile che un atteggiamento ecologista-dirigista aggravi il quadro. Se l’Ilva smette di produrre, la metà circa della siderurgia italiana resta sospesa e l’insieme del sistema industriale tracolla.
Parallela la vicenda di Telecom. Ai tempi del monopolio telefonico, l’azienda aveva la fama di essere una delle più moderne del mondo, sotto il profilo tecnologico. Non concordano gli abitanti di Roma centro (come il vostro “chroniqueur”) alle prese con disservizi trentennali della fantomatica “centralina delle Belle Arti” e costretti a ricorrere alla giustizia per bollette chiaramente fantasiose. Comunque il monopolio faceva gola e ha scatenato varie “guerre” a suon di leva finanziaria per impadronirsi di quella che sembrava una rendita finanziaria assicurata. Si sono in vario modo feriti la Fiat, i “capitani coraggiosi” bresciani, la Pirelli e altri. Alcuni sono rimasti sul campo.
Chi contava su una rendita di tutto rispetto non ha riflettuto su due elementi di base: l’integrazione economica internazionale della tecnologia delle telecomunicazioni (tutto sommato piuttosto semplice e nella cui catena del valore ha un ruolo importante la rete); il differenziale - sottolineato in tutta la letteratura- tra rendimenti economici alla collettività e rendimenti finanziari all’azienda. Per anni nelle convenzioni di finanziamento alle telecomunicazioni la Banca mondiale ha inserito clausole di ROE (Return on Equity) e ROI (Return on Investment) di “soglia” per incoraggiare le aziende a essere efficienti. La rendita non è c’è stata o non è stata adeguata alla leva finanziaria e oggi Telecom si trova in pessime acque.
Se due pilastri importanti dell’industria italiana vanno a carte quarantotto c’è di che essere molto preoccupati. Dal 2007 a oggi il peso del manifatturiero sul valore aggiunto è passato dal 22% al 15%. Senza industria, e senza una vera cultura di servizi di qualità competitivi sul piano internazionale, l’Italia rischia di diventare un “parco di divertimenti” per stranieri. Per anni si è messo l’accento sul carattere “corporativo” della società italiana e, quindi, dei Parlamenti e dei Governi da essa espressi e, di conseguenza, di piccoli gruppi organizzati (si pensi alle associazioni/cooperative dei taxi nella grandi città) di incidere in misura determinante sulle scelte pubbliche (come ci ricorda il primo teorema del public choice di Buchanan e Tullock). Oppure su caratteristiche sociologiche quali il “familismo amorale” di Banfield. Oppure ancora su come il feudalesimo del Regno delle Due Sicilie (secondo Putman) ha inquinato il potenziale di crescita delle “repubbliche comunali” del resto d’Italia.
n questi giorni, esce un saggio a quattro mani di Elio Cadelo (un giornalista
specializzato in tematiche scientifiche) e Luciano Pellicani (un sociologico di
rango) intitolato suggestivamente: “Contro la Modernità: le radici della
cultura anti-scientifica in Italia“. È un libro snello di 170 pagine che si
legge in un giorno e che Enrico Letta e molti altri uomini e donne impegnati
nell’azione di governo dovrebbero studiare (e meditare) prima di approntare
“Decreti del Fare” (quale che sia il loro numero d’ordine).
La prima parte, in particolare, analizza come nell’Ottocento, quando la
cultura scientifica si affermava in Europa e Nord America (avendo come
corrispettivo il “positivismo”), in Italia si rispose trasformando (mi si
consenta il termine) la teologia in “idealismo” e dando un forte primato agli
studi classici. I “modernizzatori”, sotto il profilo intellettuale, vennero
costretti all’emigrazione: Guglielmo Ferrero, Gaetano Salvemini, Giuseppe
Peano, Raffaele Petazzoni, Federigo Enriques, Giovanni Vailati, Vito Volterra e
via discorrendo. Un fenomeno analogo a quello attuale: le università americane
(specialmente quelle tecnologiche) sono piene di ricercatori e docenti italiani
ai quali le “nostrane” hanno sbarrato la porta.
Dopo la Seconda guerra mondiale, la situazione è stata aggravata da una
linea di pensiero (di origine marxista) secondo cui la razionalità economica e
la razionalità scientifica sarebbero state il frutto “della logica irrazionale
del capitalismo”. In tempi più recenti “i guru dell’antimodernità hanno messo
al centro del progetto politico l’emergenza ecologica e la giustizia sociale”,
fraintendendo sia la prima che la seconda. Se non si affrontano queste radici
anti-moderne si resta nel pantano.
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