“Zitti,
zitti, piano, piano/Senza fare alcun rumore/ Dalla scala del balcone”
Questo è l’inizio di un celebre terzetto del secondo atto de “Il Barbiere di
Siviglia” di Goacchino Rossini – il terzetto che apre il vorticoso finale.
Qualcosa di analogo sta avvenendo con il Trattato
di Maastricht . Ed finale potrebbe essere parimenti vorticoso,
specialmente se alle imminenti elezioni tedesche hanno un’affermazione quei
gruppi politici (anche all’interno di singoli partiti) che, a torto o ragione,
vogliono puntare i piedi in materia di futuro dell’Europa.
Pochi si sono accorti che si sta riscrivendo il Trattato di
Maastricht. Ma a pezzi e bocconi. E senza una chiara idea , per utilizzare il
linguaggio colloquiale, su dove si andrà a parare.
Lo rivela a tutto tondo l’accordo raggiunto nei giorni scorsi tra Parlamento Europeo
(PE) e Banca
centrale europea (Bce) sull’informativa che la Bce darà al PE
in materia delle competenze di vigilanza su parte del sistema bancario che
stanno per essere trasferite dalle autorità nazionali e Francoforte. È
informativa inferiore a quella inizialmente richiesta dal PE e molto inferiore
a quella che la Federal Reserve fornisce al Congresso degli Stati Uniti.
Non è, però, sul merito dei contenuti che ci si deve confrontare quanto sul
fatto che sia il PE sia la Bce acquisiscono ruoli e funzioni non concepite nel
Trattato di Maastricht. Ora il negoziato, peraltro altamente giuridico,
riguarda come dare un’interpretazione estiva ad alcuni articoli del Trattato di
Maastricht (in particolare il 114) per potere affidare compiti alla Bce in
materia di resolution di crisi bancarie (ossia riassetto di istituti) senza
dovere emendare formalmente il Trattato, poiché – come è noto- la Germania (non
solo il Governo ancora in carica ma anche verosimilmente la prossima
legislatura) è contraria ad un nuovo negoziato che comporti ratifiche da parte
dei parlamenti dell’eurozona (ed in alcuni casi anche di referendum).
In effetti, l’opera di riscrittura del Trattato è iniziata con il
Protocollo Interpretativo del 2005, quando l’inchiostro era ancora caldo sul
testo ufficiale del documento, per permetterne una lettura più lasca dato che
gli “azionisti di maggioranza” (Germania e Francia) travalicavano i parametri
di stabilità, specialmente il vincolo in base a cui l’indebitamento netto delle
pubbliche amministrazioni non deve superare il 3% del Pil.
La crisi iniziata nel 2007 ha portato, da un lato, al Fiscal
Compact per rendere i freni più serrati (e più cogenti) e, dall’altro, alla
creazione, in varie forme, del Fondo Salva Stati che è in chiara contraddizione
con il Trattato e con la teoria mundelliana dell’’area valutaria ottimale’ che
dovrebbe essere alla base di qualsiasi unione monetaria.
Il timore che crisi bancarie facciano saltare l’eurozona (come è
avvenuto spesso in passato anche recente: si pensi alla fine dell’unione
monetaria tra Gran
Bretagna ed Irlanda
e della Federazione
della Malesia e Singapore,
nonché all’implosione nel novembre 1967 della “zona della sterlina”) ha messo
in moto la trattativa per l’unione bancaria. Un percorso ancora lungo e non
facile ma che prevede passaggi e cambiamenti organizzativo – istituzionali che
poco hanno a che fare con il Trattato e sembrano contraddirlo.
È giusto ricordare che il Trattato di Maastricht è stato redatto
frettolosamente, sotto la spinta delle conseguenze dell’unificazione tedesca
sul resto d’Europa. È anche corretto dire che le istituzioni e le norme
“evolvono”.Tuttavia, senza un quadro di riferimento, c’è il pericolo che tra
qualche anno l’eurozona assomigli al vestito d’Arlecchino – una serie di toppe
multicolori , oggetto di infinite vertenze giuridiche sulla loro
interpretazione ed applicazione.
Non si vuole essere difficili ma l’unione monetaria non è né
un’opera buffa né un dramma giocoso. Tra pochi mesi, l’Italia avrà la
Presidenza dell’Unione
Europea (UE): perché non cogliere l’occasione non
necessariamente di rinegoziare il Trattato di Maastricht ma di giungere ad un
chiarimento su dove si vuole arrivare e come si vuole farlo.
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