giovedì 17 aprile 2008

TRE COSE CHE L’INTERNATIONAL STABILITY FORUM DEVE SPIEGARE, Libero 15 aprile

Sarebbe ingeneroso non riconoscere che l’International Stability Forum (Isf), presieduto dal Governatore della Banca d’Italia Mario Draghi, non ha raggiunto i risultati attesi. Chi ha esperienza d’organismi internazionali sa che è un mini-miracolo che un rapporto consensuale sia stato prodotto da un “foro” composto da 26 autorità nazionali (banche centrali, ministeri finanziari, authority di regolazione e vigilanza), 6 istituzioni finanziarie internazionali (Fmi, Banca mondiale e simili), 7 organi internazionali di vigilanza e 2 comitati internazionali di esperti. Tanto più che l’Isf manca di una propria struttura tecnica e amministrativa e lavora (dal 1999) tramite riunioni periodiche nei cinque continenti. Rasenta un ottimismo quasi utopistico, però, pensare che le proposte del documento riescano ad incidere nel pasticciaccio brutto dei mercati finanziari internazionali (in seguito a quella che tutti chiamano la “crisi dei mutui subprime”). Oppure soltanto ritenere che il calendario dei cento giorni per “i sette Grandi”, dell’agenda per il resto del 2008 e via discorrendo sarà rispettato.
Le proposte, grazie al Cielo, sono ispirate al buon senso: inviti ad una maggiore trasparenza, all’impiego di regole contabili uniformi (quelle dell’International Accounting Standard Board), al miglioramento della gestione dei rischi e (naturalmente) alla continuazione delle peripatetiche riunioni dell’Isf medesimo. Si temeva – e lo ha scritto a tutto tondo Libero Mercato – un approccio più dirigistico, specialmente per il peso, nell’Isf, di numerosi Paesi europei ed asiatici (tutti pronti a pensare che con un maggiore intervento pubblico si risolvano i problemi dell’universo mondo). Tuttavia, da un lato, neanche quel poco di buon senso ha grandi probabilità di essere realizzato; da un altro, l’Isf ha dato prova di miopia – assorbito quasi interamente dalla “crisi dei mutui subprime” non ha scavato nei problemi di base del mercato internazionale dei capitali.
Molto più cauta, e meno elogiativa, degli applausi della stampa italiana, l’analisi fatta dalla Reuters: il G7 sta tentando di remare controcorrente ma ha a che fare con flussi fortissimi, risucchi e trabocchetti di ogni genere. Il G7 e le istituzioni finanziarie internazionali sono alle prese con disfunzioni di dimensione e spessore mai vista prima d’ora; le loro radici non sono tanto nei mutui subprime quanto in quella titolarizzazione che è al centro dell’innovazione e dell’integrazione finanziaria. Nella migliore delle ipotesi, le proposte dell’Isf saranno considerate un elenco di desideri che le stesse autorità nazionali presenti del Forum attueranno con molta cautela (temendo di buttare via il bambino – la titolarizzazione – con l’acqua sporca (il subprime). Inoltre, le proposte non affrontano il nodo centrale della stessa crisi subprime: cosa sono in grado di fare le autorità pubbliche (ministeri, banche centrali, authorities di ogni ordine e grado) per ristabilire la fiducia tra le banche. La fiducia – diciamo noi – è come i figli di “Filomena Maturano”: “nun se compra e nun se vende”. Il lungo e non facile processo di ricostruzione della fiducia tra le banche – ha scritto con acume “The Financial Times” – non è ancora iniziato.
Veniamo ora al secondo punto: cosa manca al rapporto Isf perché possa essere considerato effettivamente credibile e, quindi, incisivo nella comunità internazionale a cui è diretto. Si potrebbero prendere decine di papers recenti scritti negli ultimi sei mesi, ma non sarebbe corretto: ci vuole tempo perché le idee transitino dai pensatoi ai “Forum”. Mi baso, quindi, su un testo fondamentale (e certamente noto a tutti i componenti dell’Isf): il libro di Maurice Obstfeld e Alan Taylor Global Capital Markets in the Long Run pubblicato dalla Cambridge University Press nel 2003 e dalla serrata critica fattene da uno dei maggiori specialisti di finanza internazionale Jeffrey G. Williamson (Università di Harvard) pubblicata nel giugno 2007 sul Journal of Economic Literature , periodico scientifico al tempo stesso molto autorevole e molto diffuso (circa 30.000 abbonati). Dal combinato disposto del lavoro di Obstfeld e Taylor (in cui si analizzano 150 anni di movimenti di capitali) e dalla critica di Williamson si individuano ciò che l’Isf ha accantonato, o preferito accantonare:
· Dato che il mercato dei capitali adesso non è più come in passato “finanza per lo sviluppo” (flussi da Paesi ricchi in capitali a Paesi poveri in capitali) ma “finanza di diversificazione” (da Paesi ricchi a Paesi ricchi alla ricerca di una più vasta gamma d’impieghi), ci si deve chiedere come mai, contrariamente a quanto numerosi membri dell’Isf insegnano in università, il capitale non va dove la sua produttività marginale è più elevata ma si avviluppa in una diversificazione (anche per tipologie di titoli) sempre più complessa nell’area dove è più abbondante (e la sua produttività marginale dovrebbe essere comparativamente più bassa).
· Quali sono i costi relativi all’apertura dei mercati di capitali? E’ una domanda che dobbiamo porci proprio noi liberisti (e se lo devono chiedere a maggior ragione quelli che potremmo chiamare “i liberisti della Domenica”). Il beneficio economico più consistente (insegniamo) è che la libertà dei mercati dei capitali impone disciplina. Sosteniamo che è una disciplina necessaria per indurre i Governi (ed i Parlamenti) a comportamenti virtuosi. Il percorso tracciato da Obstfeld e Taylor cinque anni fa, e la critica di Williamson, mostrano che erano già in atto i prolegomeni della crisi subprime. E che quindi le istituzioni finanziarie (in primo luogo le banche e le loro Siv, società specializzate d’investimento) non tengono la disciplina conseguente la globalizzazione del mercato di capitali.
· Altra conseguenza della libertà di movimento di capitali alla ricerca di una diversificazione (sempre più avviluppata) è quella di andare dove la mano fiscale è più dolce (specialmente se i rendimenti marginali lordi non sono molto elevati). Ciò implica di spostare sul fattore lavoro l’onere di finanziare i servizi sociali (come ha fatto per decenni la sinistra in Italia) o di ridimensionarli.
· Infine, quali sono le implicazioni sull’economia reale delle tensioni sui mercati internazionali di capitali? Obstfeld e Taylor passano in rassegna una letteratura e modellistica molto ampia- Williamson la arricchisce ancora di più. Non c’è alcuna risposta.
L’Isf continuerà a peregrinare (e si lamenterà di non essere stato preso troppo sul serio dal G7 e dagli altri). Tra un viaggio e l’altro e tra una riunione e l’altra, sarebbe auspicabile che risponda a queste domande. Avrebbe una base più solida per le sue proposte. Od anche soltanto per i suoi auspici.

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