Il Governo Prodi non lascia in eredità al Governo che emergerà dalle prossime elezioni solamente una falla di bilancio valutabile in 8-12 miliardi, ma anche un’ascesa del carovita che morde nelle tasche delle famiglie, principalmente del ceto medio e medio-basso, penalizzando gravemente quelle più povere. In marzo il tasso d’ aumento dei prezzi in Italia è stato il 3,3% su base annua (rispetto al 2,9% rilevato in febbraio). Non si hanno ancora dati per l’area dell’euro; quelli premilitari suggeriscono che l’indice armonizzato è appena più basso di quello italiano, mentre in Spagna il tasso d’inflazione sta già sfiorando il 5%.
Non vogliamo entrare in polemiche sulla rappresentatività di questi dati rispetto ad indici calcolati sulla base dei beni e servizi acquistati “più frequentemente” e sulle accuse più o meno velate all’Istat di taroccare i numeri. In tutta Europa, gli indici dell’andamento del costo della vita per le famiglie di operai ed impiegati (quelli utilizzati da Eurostat e Bce) sottostimano il morso sulle tasche: uno studio di Hans Wolfgang Brachinger, professore di statistica all’Università di Friburgo in Svizzera (distinto e distante da noi e dal resto dell’area dell’euro), conclude che con un paniere che meglio rispecchi le spese delle famiglie, il tasso di aumento dei prezzi in Germania viaggia sul 7,5% l’anno, non sul 2,8% delle ultime rilevazioni (e si tira dietro quelli di altri Paesi). Tutto ciò conferma le preoccupazioni delle associazioni dei consumatori sul balzo dei prezzi degli alimentari in corso e sull’impennata delle bollette già in atto.
Il fenomeno, e la sua associazione con una fase di bassa crescita, era stato previsto (anche nella sua tempistica : ultimi anni della prima decade del terzo millennio) con precisione da numerosi economisti nella seconda metà degli Anni Novanta. Era stato anticipato in dimensioni meno contenute poiché non si metteva in conto la crescita dell’economia reale dell’Asia (con le sue implicazioni sui corsi dei prodotti di base). Analisi di Martin Feldstein, per lustri Presidente del National Bureau of Economic Research Usa, indicavano nelle politiche effettive per arrivare all’euro (aumenti delle tasse, e riduzioni soltanto limitate della spesa pubblica nonché poche e rare liberalizzazioni) la determinante di incrementi latenti di prezzi che, come una pentola con acqua in ebollizione, avrebbero a dieci anni dalla creazione dell’euro, fatto saltare il coperchio. E’ poco elegante citare sé stessi: in un articolo sulla “Rivista di Politica Economica” del 1999 concludevo che o si cambiavano comportamenti o con la moneta unica si sarebbe andati verso la stagflazione (prezzi alti e crescita piatta): l’aumento della pressione fiscale (sette punti del pil) per equilibrare i conti ed essere ammessi nel club dell’euro era, già allora, un pessimo segnale. Veni tacciato di “euroscetticismo”, se non peggio.
Le determinanti sono, però, profondamente differenti da quelle della stagflazione dell’inizio degli Anni 70. Non siamo alle prese con brusche variazioni delle ragioni di scambio e con il riassetto interno delle remunerazioni del lavoro e del capitale (come negli Anni 70) ma con un mutamento strutturale dell’economia mondiale, aggravato in Italia da politiche poco coerenti in materia di prezzi e salari.
Eloquente l’ultimo rapporto Fao, pubblicato l’autunno scorso: siamo alla fine dei bassi costi delle derrate alimentari (dal 1850 al 1970 l’indice delle loro quotazione è aumentato appena del 50% per poi prendere un impennata che lo ha portato nel 2005 a superare di dieci volte il livello del 1850 ed all’ultima rilevazione di ben quindici volte). Ancora più inquietanti le rilevazioni più recenti della Fao: soltanto nel 2007, i prezzi mondiali dei lattiero-caseari sono aumentati dell’80%, quelli del frumento del 42%. Secondo l’Ocse, nei prossimi dieci anni i prezzi del granturco aumenteranno del 27%, quelli dei semi di olio del 23% e quelli del riso del 9%. All’ultima tornata, l’indice aggregato dell’Economisti dei prezzi degli alimentari corre ben del 60% tra il marzo 2007 ed il marzo 2008.
L’aumento delle quotazioni degli alimentari è più importante di quello dei corsi del petrolio (cresciuti del 61% negli ultimi 12 mesi). In tema d’energia, c’è una gamma di alternative tecnologiche molto più ampia di quella in tema di produzione di cibo, la cui domanda è in rapida crescita poiché centinaia di milioni di persone stanno uscendo dalla miseria: mediamente un cinese mangiava 20 chili di carne l’anno nel 1985, oggi ne mangia 44 (e ci vogliono 8 chili di grano per produrne uno di carne).
Di fronte ad un cambiamento strutturale globale, sarebbe ingeneroso attribuire ai 20 venti del Governo Prodi la responsabilità di non averlo affrontato con le politiche appropriate. L’Esecutivo in vita ancora alcuni giorni per l’ordinaria amministrazione ha, però, la responsabilità di non averlo diagnosticato e di non avere neanche iniziato a riflettere sulle strategie attuabili.
Ce ne sono. Quali sono lo vedremo la settimana prossima in questa rubrica.
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