Roma/Teatro dell’Opera
LA FANCIULLA DEL WEST
di Giacomo Puccini
Per la ricorrenza del centocinquantesimo anno dalla nascita di Giacomo Puccini, Roma mette in scena quattro delle sue dieci opere: una,“La Bohème” (recensita su OperaClick, l’11 novembre 2007), è stata rappresentata in autunno all’inaugurazione della stagione dell’Orchestra Sinfonica Roma; le altre tre sono curate dal Teatro dell’Opera: “Tosca” con cui la fondazione ha inaugurato la stagione il 14 gennaio, “La fanciulla del West” che ha debuttato l’8 aprile e “Madama Butterfly” di cui si varerà un nuovo allestimento il prossimo agosto. Inoltre si tengono una serie di iniziative collaterali, ad esempio: l’Istituzione universitaria dei concerti ha dedicato una serata a musiche rare pucciniane; la “Piccola Lirica” al Teatro Flaiano ha in programma per diversi mesi una “Tosca” ridotta a 90 minuti con un unico intervallo, strumentazione per pochi orchestrali e live electronics. “La Bohème”, “Tosca” e “Butterfly” sono nei cartelloni 2008 dei quattro teatri minori (due ospitati in chiese anglicane) della capitale. In breve, escludendo Lucca (e Torre del Lago) e New York (che considera Puccini un proprio concittadino), Roma è la città dove l’ ”anno pucciniano”, si avverte maggiormente.
In termini di frequenza di rappresentazioni, le opere di Puccini si dividono in tre categorie: due (“Edgard” e “Le Villi”) non vengono eseguite che raramente; cinque (“Manon Lescaut”, “Bohème”, “Tosca”, “Madama Butterfly”, “Turandot”) sono quasi sempre in cartellone nei cinque continenti, tre (“La fanciulla del West”, “La rondine” ed “Il Trittico”) vengono messe in scena con minore frequenza, in particolar modo “La fanciulla del West” per alcune difficoltà specifiche che vale la pena esaminare al fine di recensirne con equilibrio gli allestimenti. Pur se tra il 1911 ed il 1988 si contino, nella capitale, 27 edizioni per complessivamente 179 repliche, mancava a Roma da 20 anni. Nella stessa New York non si vede una nuova produzione da tre lustri.
Le ragioni per la comparativamente scarsa presenza di “La fanciulla” (rispetto ad altre opere di Puccini) dai palcoscenici sono tre. In primo luogo, con buona pace dei maggiori studiosi pucciniani, la drammaturgia del lavoro teatrale di Belasco (da cui è tratto, con poche libertà, il libretto) stride, specialmente nel secondo atto, con la scrittura musicale, tanto vocale quanto orchestrale. Nel programma di sala, un saggio di Gina Guandalini, ricorda che all’inizio del Novecento, David Belasco era il “Re di Broadway”. Ricordiamoci che si trattava della Broadway puritana delle commedie musicali patriottico-moralistiche di George M. Cohen. Il dramma ha di conseguenza aspetti inverosimili: come si può pensare che Minnie (unica donna in un mondo di minatori e cow boys) sia una locandiera vergine (quasi goldoniana), che non ha ancora dato “il primo bacio”, e che vada a dormire sul divano del soggiorno per non dividere il letto con l’uomo di cui è perdutamente innamorata? Ciò è perfettamente in linea con un’America che ancora negli Anni Quaranta faceva morire di stenti uno dei maggiori compositori del secolo scorso, Alexander von Zemlisky, poiché considerava “indecente” il suo ultimo capolavoro. Ma cozza con la musica di un Puccini che 17 anni prima del debutto di “La fanciulla” aveva riportato prepotentemente, sulla scena lirica italiana, tramite “Manon Lescaut”, quell’eros che era stato messo alla porta dal melodramma verdiano. Nell’edizione vista ed ascoltata a Torre del Lago nel 2005, sembrava che il “saloon” fosse un Cral (dopolavoro) aziendale e l’intera vicenda uno spettacolo per educande.
In secondo luogo, proprio a ragione dell’eros (non dimentichiamo che in quel periodo Puccini stava vivendo una complicata vicenda sentimental-sessuale personale), “La fanciulla del West” è la partitura più wagneriana del compositore lucchese. Lo sottolineano e Julien Budden e Michele Girardi ricordando, sia l’impiego dei leimotive sia l’ ”accordo di Tristano” (il motivo di quattro note che domina l’intero finale del secondo atto) sia i (meno noti) nessi tra il breve arioso di Rance al primo atto ed il monologo di Re Marco. Il richiamo a Wagner (più che a Strauss, Korngold e Debussy molto presenti nelle opere successive, specialmente in “La Rondine” ed in “Turandot”) dipende, a mio avviso dalla carica erotico-passionale, che Puccini ha dato a “La fanciulla”, specialmente nel secondo atto. Non dimentichiamo l’impatto che ebbe su Puccini il “Siegfried”- specialmente la seconda parte del terzo atto, la travolgente scena d’amore tra Brunhilde ed il giovane protagonista in cui si intrecciano i leit-motive dell’”estasi d’amore” del “rapimento d’amore”. Replicare una tensione analoga in “Fanciulla” – come il compositore pare intendesse - comporta un’orchestrazione grandiosa e, al tempo stesso, raffinata. Non per nulla, l’opera è stata scritta avendo in mente l’orchestra del Metropolitan e la direzione musicale d’Arturo Toscanini alla cui bacchetta venne affidata la prima il 10 dicembre 1910 a New York.
In terzo luogo, l’opera è stata concepita per due voci molto speciali: Emmy Destinn ed Enrico Caruso, nei ruoli di Minnie e Dick. Emmy Destinn era uno dei maggiori soprani wagneriani dell’epoca ma aveva un’estensione che le consentiva di giungere a ruoli da mezzosoprano come Carmen; ebbe una carriera relativamente breve a ragione di complesse vicende politiche legate alla prima guerra mondiale. Note le doti, pressoché uniche, di Caruso, seppure le case discografiche dell’epoca si siano lasciate sfuggire l’opportunità di fargli incidere le due arie più celebri di Fanciulla. Il ruolo di Jack venne scritto pensando a Pasquale Amato, baritono verista secondo tutti i canoni del caso ma, a mio parere, non particolarmente eccezionale. In locandina ci sono, ben altri 16 ruoli minori, ciascuno dei quali, ben definito vocalmente e non tutti privi d’asperità. Ancora una volta un riferimento wagneriano: ad opere colme di personaggi come “I maestri cantori”.
Veniamo al nostro spettacolo. Si tratta di un riadattamento dell’allestimento prodotto della Los Angeles Opera negli Anni Novanta e già sperimentato, oltre che in varie città Usa, anche in Canada, Nizza e Torino. Le modifiche apportate dai laboratori del Teatro dell’Opera renderanno questa produzione, maggiormente compatibile ai palcoscenici europei.
Il dramma viene situato in un contesto chiaramente ispirato ai film Western in technicolor del periodo tra gli Anni Quaranta e gli Anni Sessanta. Ricostruzione minuta del saloon, del villaggio, delle montagne innevate; tormenta di neve in scena; cavalli veri, cavalcati da Daniela Dessì e da Fabio Armiliato; sparatorie; “dissolvenze”; cielo rosso nel finale. Molto curati i dettagli come sempre nelle regie di Giancarlo Del Monaco. Di livello la recitazione della ventina di solisti e del coro. Come è risolto il nodo della discrasia tra libretto e musica al secondo atto? Del Monaco tiene i letti separati (per i pochi minuti richiesti dal testo) ma segue la scrittura musicale e vocale (più che il puritano libretto). Come afferma prepotentemente la musica, la scena è fortemente passionale – e tale continua nella partita a poker e nell’abbraccio tra Minnie e Dick mentre cala il sipario (e la tormenta di neve si infittisce).
Ciò è in piena sintonia con quanto avviene nella buca d’orchestra. Gelmetti ha recuperato, nel caveau di Casa Ricordi, una versione della partitura arricchita da modifiche apportate dallo stesso Puccini e da Toscani. E’ leggermente più lunga di quella ormai nella prassi: dura circa due ore e 30 minuti rispetto ad esempio alle due ore 8 minuti dell’incisione di Capuana (con Tebaldi) e alle due ore 18 minuti di quella di von Matačić (con Nilsson). E’ soprattutto più ricca, più wagneriana (se si vuole) con un maggior peso ai legni ed ai fiati, con una maggiore attenzione a fare percepire i lietmotive e al sinfonismo. In tal senso, vale la pena ricordare che di recente Gelmetti e l’orchestra del Teatro dell’Opera di Roma hanno messo in scena “Tristano ed Isotta”- un passo importante per darci una “Fanciulla” marcatamente differente da quella diretta da Alberto Veronesi a Torre del Lago e da quella di Giuseppe Patané ascoltata a Roma nel lontano 1983, piuttosto che l’edizione fiorentina di Donato Renzetti negli Anni Novanta od anche alla celebre edizione di Dimitri Mitropoulos di un lontano Maggio Musicale. Sono sottigliezze che possono essere apprezzate unicamente da specialisti ma che aprono un sentiero (siamo nel West dei tempi della febbre dell’oro) nuovo per le lettura di questa importante partitura.
In materia di voci, una prima notazione riguarda l’attenta scelta dei numerosi caratteristi per il vasto numero di ruoli, per così dire, minori a cui è affidato, ad esempio, il contrappunto polifonico iniziale ed il mergersi gradualmente con il coro nel finale. Non li citiamo individualmente perché ciascuno di loro merita un apprezzamento. Soffermiamoci invece sui tre protagonisti.
All’applausometro, Fabio Armiliato è stato il trionfatore della serata. Ha bissato, su grande richiesta del pubblico, “Ch’ella mi creda”. E’ entrato perfettamente nel personaggio di Dick, anche grazie alla sua figura magra e slanciata che gli conferisce tutte le caratteristiche per essere un credibile cow boy. Al chiuso, si riesce a percepire, meglio di quanto non sia stato possibile fare a Torre del Lago nel luglio 2005, quanto e come Armiliato sia adatto per ruoli di tenore lirico spinto che richiedono una voce leggermente brunita, volume generoso ma anche buona estensione ed un dolce legato. Molto bello anche il luminoso finale in mi maggiore (con Minnie ed all’unisono con il coro) con cui termina la partitura.
Daniela Dessì giunge con Minnie ad un nuovo capitolo di una carriera iniziata con ruoli rossiniani e pergolesiani. Una carriera ben calibrata (che il 29 aprile a Bologna, si arricchirà del ruolo di “Norma”) in cui ha saputo maneggiare attentamente l’evoluzione delle sue caratteristiche vocali. Come Minnie l’avevo già ascoltata a Torre del Lago quando, credo, debuttò nel ruolo. All’aperto, non è facile apprezzare la spontaneità (frutto di grande studio) con cui, come richiesto dalla parte, Daniela Dessì scivola dal declamato ai brevi ariosi (uno degli aspetti più difficili del ruolo). Nel primo atto, il suo ingresso (al momento della rissa) è imponente: affronta egregiamente quella che potrebbe essere considerata l’aria d’apertura, anche se aria non è ma frasi brevi che si concludono con una dissonanza che resta irrisolta sino alla frase successiva caratterizzata da un mutamento di armonia. E’ stata eccellente nel terrificante (vocalmente parlando) secondo atto, tanto nella scena passionale con Dick quanto nella partita a poker con Jack. Nel terzo atto, il ruolo è relativamente breve, ma riesce a trasmettere efficacemente il punto centrale: il climax della resa che da un verso affidato a lei sola viene cantato dai solisti e da tutto il coro. Applaudita a scena aperta e nelle numerose chiamate al termine dello spettacolo.
Merita un elogio (non alla carriera ma all’interpretazione specifica) Silvano Carroli, un Jack Rance a tutto tondo. Libidinoso nel secondo atto; distrutto dagli avvenimenti nel finale; particolarmente bravo nel breve arioso del primo atto.
Roma, Teatro dell’Opera 8 aprile 2008
Giuseppe Pennisi
LA LOCANDINA
· LA FANCIULLA DEL WEST
· Opera in tre atti di Giacomo Puccini Libretto di Guelfo Civinini e Carlo Zangarinitratto dal dramma The Girl of the Golden West di David Belasco
· Maestro concertatore e direttore
Gianluigi Gelmetti
· Maestro del Coro
Andrea Giorgi
· Regia
Giancarlo Del Monaco
· Scene e costumi
Michael Scott
· Disegno luci
Wolfgang von Zoubeck, Alessandro Santini
· Combattimenti a cura di
Mario Bellanova
· interpreti
· Minnie
Daniela Dessì
· Jack Rance
Silvano Carroli
Dick Johnson
Fabio Armiliato
· Nick
Aldo Orsolini
· Ashby
Francesco Facini
· Sonora
Massimiliano Gagliardo /
· Trin
Patrizio Saudelli
· Sid
Danilo Serraiocco
· Bello
Roberto Accurso
· Harry
Mario Bolognesi
· Joe
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· Happy
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· Larkens
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· Billy Jackrabbit
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· Wowkle
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· Jack Wallace
Mario Bellanova
· Josè Castro
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· Un postiglione
Vinicio Cecere /
· ORCHESTRA E CORO DEL TEATRO DELL'OPERA
Allestimento del Teatro dell'Opera di Roma basato su una produzione teatro dell’opera di Los Angeles
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