Nelle prime dichiarazioni alla stampa, il Presidente del Consiglio “in pectore” Silvio Berlusconi ha indicato che il nuovo Governo dovrà prendere misure impopolari; per questo motivo è necessario che, oltre ad essere numericamente, la maggioranza parlamentare sia coesa.
Di cosa si tratta? Non certo d’aumenti della pressione fiscale – di cui è stata annunciata, invece, una riduzione. Neanche di tagli alle voci di spesa pubblica inerenti ai trasferimenti alle famiglie (pensioni, sanità, sussidi alle fasce più deboli). Non potranno chiamarsi “impopolari” i provvedimenti (quali la razionalizzazione di appalti e commesse) mirati a spendere meglio le risorse di tutti.
Per afferrare cosa probabilmente intende Berlusconi (stiamo congetturando ipotesi) occorre prendere un documento appena diramato (il “Bollettino” più recente della Banca centrale europea- Bce) ed un bel libro uscito un anno fa negli Stati Uniti ma che verosimilmente pochi italiani hanno letto (Barry Eichengreen “The European Economt since 1945: Coordinate Capitalism and Beyond” Princeton University Press, 2007 pp. xx 495 $ 35).
Prendiamo l’avvio dal lavoro di Eichengreen , risultato di 20 anni di studi della rapida crescita (tra il 1950 ed il 1973) e del successivo debole andamento e stasi delle economie europee, oltre che delle prospettiva “di sopravvivenza” del “modello europeo” nel contesto dell’integrazione economica internazionale. Il punto centrale è che l’Europa occidentale in generale (e l’Italia più di altri Paesi) sono state caratterizzate da un “capitalismo coordinato” (un modo elegante per dire “corporativo”) che hanno permesso lo slancio del 1950-73 (grazie alla concertazione e consociazione tra produttori – il “patto” di cui ha parlato nostalgicamente WV, Walter Veltroni, negli ultimi giorni della campagna elettorale) ma hanno in seguito ingabbiato la crescita in una ragnatela di reti corporative. Il pilastro delle “misure impopolari” è la rottura di questa ragnatela. Berlusconi lo ha sperimentato sulla propria pelle nella XII legislatura (quando tentò una riforma sensata e moderata della previdenza) e nella XIV (quando iniziò il programma di liberalizzazioni). Le “lenzuolate” varate (senza grande esito) dal Ministro alla Sviluppo Economico Pierluigi Bersani nella XV legislatura non hanno certo contribuito alla popolarità del già malmesso Governo Prodi. Il capitalismo coordinato delle corporazioni comporta costi per chi perde rendite di posizione; dato che in Italia (e non solo) le categorie che fruiscono di tali rendite sono numerosissime, le misure dirette verso tali obiettivi (per rilanciare produttività e competitività) sono inevitabilmente impopolari.
Il documento Bce è soltanto l’ultimo (per ora) in ordine di tempo parere di un’organizzazione internazionale sull’urgenza di riforme (specialmente nei mercati dei prodotti e dei servizi oltre che nella spesa pubblica) per rimettere in moto l’economia italiana.
Una ventina di anni fa, un socio-economista americano (ma cresciuto a Trieste), Albert Hirschmann, allora considerato tra i beniamini della sinistra, ha pubblicato un libro su “Come far passare le riforme” (edito in Italia da Il Mulino): uno dei punti essenziali dell’analisi è il messaggio secondo cui i “reform monger” (coloro che vogliono fare le riforme) devono trovare un grimaldello, spesso esterno, per rompere i muri di gomma e le sabbie mobili che ostacolo il rinnovamento e l’innovazione. Nello studio fondamentale di Paul Pierson sulle riforme attuate negli Anni 80 negli Usa ed in Gran Bretagna (“Dismantling the Welfare State? Reagan, Thatcher and the Politics of Retrenchmen”. Cambridge University Press, 1994) si sottolinea come il grimaldello fu in un caso (Usa) l’invio dell’aereonatica per porre fine allo sciopero dei controllori di volo e nell’altro (GB) l’atteggiamento energico del Governo nei confronti del sindacato dei minatori. Né gli Stati Uniti né la Gran Bretagna sono alle prese con un “capitalismo coordinato” radicato come quello italiano.
Non è difficile individuare cosa fare (è appena uscito “Il Manuale delle Riforme” dell’Istituto Bruno Leoni ed il 18 maggio sarà in libreria il “Rapporto sulla liberalizzazione della società italiana” di Società Libera) ma è arduo capire quale può essere il grimaldello per avviare un processo di liberalizzazioni e di riforme, specialmente in una fase (come l’attuale) in cui il debole andamento dell’economia reale e la situazione della finanza pubblica non consentono di offrire “compensi” di breve periodo a chi, a torto od a ragione, crede di doversi sobbarcare costi per le liberalizzazioni e riforme.
Parafrasando il sindacalista francese Marc Blondel, possiamo, però, dire che le “non-riforme” sono molto più care. Non in base all’intuizione che le “non-riforme” sono una delle determinanti del più basso potenziale di crescita di lungo periodo (tra quelli dei Paesi Ocse) computato dalla Bce per l’Italia, un misero 1,3% l’anno. Ma sulla scorta d’analisi puntali. La prima è uno studio dell’Ocse di pochi mesi fa che non avuto quasi alcuna diffusione in Italia. Misura il differenziale di lungo termine di un indicatore composito (livelli e crescita del tenore di vita a parità di potere d’acquisto) rispetto ad un benchmark (metro di confronto) convenzionale, gli Usa: Italia e Giappone sono i Paesi che presentano il divario maggiore. Le non-riforme ci costano un tasso di crescita potenziale di almeno mezzo punto del pil l’anno: una legislatura di non riforme vuol dire una riduzione media dei tenori di vita almeno del 3% rispetto a quanto sarebbe stato possibile. Un’analisi freschissima del maggiore istituto tedesco di ricerca economica (l’Ifo) conferma queste stime e contiene indicazioni specifiche per mettersi al passo. Per l’Italia, esse sono le seguenti: a) intensificare l’utilizzazione del lavoro (riducendo il cuneo fiscale ed incoraggiando la contrattazione collettiva decentrata al posto di quella nazionale) e b) aumentarne la produttività (promuovendo la concorrenza nei servizi cominciando dalla privatizzazione e liberalizzazione di quelli pubblici, migliorare scuola e università, modernizzare corporate governance e diritto fallimentare).
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