L’accordo Lufthansa , tramite la controllata Air Dolomiti, e la Sea per una sei nuove rotte in partenza da Malpensa è l’inizio di un corteggiamento della compagnia aerea tedesca nei confronti di Alitalia oppure un mero grimaldello per entrare meglio in quello che è un mercato potenzialmente molto lucrativo del trasporto aereo europeo? E la beffarda affermazione del Presidente del Consiglio in pectore Silvio Berlusconi è solamente una boutade oppure una mano in una complessa partita di poker in cui un po’ tutti giocano al buio?
Cerchiamo di rispondere a queste due domande che rappresentano i nodi fondamentali delle notizie apparse in questi ultimi giorni sulla stampa quotidiana. Nel valutare le informazioni su Alitalia occorre sempre porsi nel contesto illustrato su L’Occidentale del 23 aprile: anche se fosse in buono stato di salute finanziaria, la compagnia sarebbe troppo piccola per competere con le major internazionali e troppo grande per essere un’aviolinea regionale europea. Chiusa (almeno per il momento) la partita con AirFranceKlm, non ancora iniziata quella (potenziale) con Aeroflot, lasciate nel futuribile fantasioso quelle con eventuali acquirenti asiatici o medio orientali, Lufthansa potrebbe essere il partner ideale di un matrimonio d’interessi strategico ed a lunga scadenza. Esiste una certa complementarità – specialmente nelle rotte verso il bacino del Mediterraneo e l’Africa. La compagnia tedesca, con base a Colonia, teme inoltre di restare isolata in Europea se si rafforza la rete d’alleanze che AirFrance-Klm sta stringendo, o tentando di stringere, a destra ed a manca. A riguardo a Londra un esperto economico russo, un tempo alto funzionario internazionale e coniugato con la figlia di un generale sovietico (un tempo lei stessa ai piani alti del Ministero dell’Interno dell’Urss) non fa mistero, tra un brandy e soda ed un altro, che Lufthansa ha in corso anche un corteggiamento (reciproco) con Aeroflot.
E’ in questo gioco, più che in quello di una cordata italiana e d’ipotesi immaginifiche su ferrovie o banche con le ali, che il futuro di Alitalia va collocato. Sempre che alla fine non sia costretta a diventare una piccola compagnia regionale. Cosa frena Lufthansa a chiedere la mano di Alitalia?
Sotto il profilo analitico, lo spiega un saggio appena apparso sulla “Review of Financial Studies”. Gli autori – Karl Lins dell’Università di Utah, Christian Leuz dell’Università di Chicago e Francis Warnock dell’Università della Virginia- hanno studiato 4049 aziende in 29 Paesi per determinare, statisticamente, in che misura la “corporate governance” (ossia come sono gestite e condotte) è variabile importante per attrarre investimenti esteri , o per farli scappare. Il risultato è che si tratta di determinante cruciale; l’investitore straniero se la da a gambe se “i ricavi sono opachi” e sono necessari costi elevati di monitoraggio. E’ questo, oggettivamente, il caso di Alitalia: le entrate sono nebulose poiché il prestito è incerto, i tempi dei rimborsi fiscali imprecisi e via discorrendo.
Tuttavia – si dice a Colonia – Lufthansa sarebbe disposta pure a sostenere i costi di monitoraggio. Il vero problema è altrove. Un banchiere tedesco ed un alto magistrato contabile della Repubblica Federale parlano di “terzo incomodo”. L’allusione è all’ipotesi (caldeggiata pare da alcuni settori della politica italiana) che il matrimonio dovrebbe anche coinvolgere AirOne. Già in passato il Presidente di Lufthansa ha espresso, in interviste su stampa internazionali, perplessità sulla capacità di AirOne di essere un partner industriale adeguato. Le informazioni pubblicate da Il Sole – 24 Ore su quella che sarebbe la situazione finanziaria di AirOne inducono i tedeschi a pensare di essere chiamati ad un doppio salvataggio – uno possibile in una strategia internazionale ed un altro da evitare. I tedeschi – è noto – sono puntuali e precisi: sta a AirOne smentire le cifre sulle sue finanze e sui suoi carichi apparse sulla stampa italiane (e non solo) e, soprattutto, produrre elementi sulla propria capacità industriale. Oppure, si sussurra oltre Reno, farsi da parte.
mercoledì 30 aprile 2008
UN MEDAGLIA A SANTORO E FLORIS PER IL LIBERO MERCATO DELLA POLITICA, Libero 30 aprile
Nei corridoi del Palazzo, circola insistentemente la voce secondo cui, pochi giorni dopo l’insediamento a Palazzo Chigi, il Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi proporrebbe al Capo dello Stato di insignire due conduttori televisivi d’importanti onorificenze della Repubblica: Michele Santoro potrebbe fregiarsi del titolo di Cavaliere di Gran Croce (e della pertinente medaglia); a Giovanni Floris, per il momento, una più modesta crocetta da commendatore (con relativo di distintivo da mostrare sul collo della giacca). La motivazione? Il contributo che le invettive televisive del primo ed i sorrisi accattivanti (ma sempre chiaramente di parte) del secondo hanno dato alla semplificazione del sistema politico italiana, alla riduzione del numero di partiti da quello del numero delle carte necessarie per giocare a scopone scientifico a 5-6, la sparizione dal Parlamento della sinistra radicale e d’altri gruppi eversivi anti-sistema, e la vittoria del PdL. Viste le prime trasmissioni post elettorali dei loro “talk show” – il Presidente del Consiglio lo sa – continueranno ad essere i più efficaci persuasori occulti a favore del Parlamento eletto il 13-14 aprile e del Governo che di tale Camera e Senato è espressione.
Può darsi che raggiungono tale risultato in via preterintenzionale ma il mercato – diceva Luigi Einaudi – si vendica sempre. Ed il libero mercato della politica è, sotto questo profilo, non differente dagli altri. Non è il suk tratteggiato da una certa pubblicistica che vuole essere saccente ma che è, invece, semplicemente ignorante. Ha sue regole precise analizzate nel lontano 1957 da Antony Downs in “An Economic Theory of Democracy” (Harpers & Row) – pubblicato in edizione italiana da “Il Mulino” nel 1988 – ed argomento di un filone di saggistica recente che ha tra i propri autori di maggior rilievo Avinash Dixit e Dani Rodrik. Già prima di Downs, però, George Bernard Shaw (ingegno multiforme, non unicamente scrittore di commedie e saggi) utilizzava il libero mercato della politica per prendere in giro niente po’ di meno che John Maynard Keynes e le tendenze di costui di proporre ricette che interferiscono con il libero mercato della politica. Proprio quelle nei confronti delle quali il mercato (proprio quella della politica) si vendica sempre. Einaudiamente parlando.
Al Cav. Berlusconi – si dice- l’idea di premiare Santoro e Floris sarebbe venuta assistendo, in quel di Arcore, ad un visione di un vecchio film del 1952 (protagonisti Jean Simmons e Victor Mature) tratto da una commedia di G.B. Shaw (“Androclo e il Leone). Sarebbe dovuto essere un momento di mero relax, dopo una faticosa giornata per le trattative sulla formazione del Governo. Quel bricconcello di Shaw gli ha mostrato a tutto tondo quanto Santoro e Floris hanno lavorato per la sua vittoria. La vicenda del “Play” , tratta da una leggenda antica, è nota: il cristiano Androclo ha tolto, nella foresta, una spina dal piede di un feroce leone e quando, presto dalle milizie imperiali, viene inviato alle fiere nel Colosseo, il leone non solo si rifiuta di azzannarlo ma lo difende dalle altre bestie feroci. A fronte del clamore dalle gradinate, Vespasiano non può che concedere la grazia. Ma – ed è qui che entra in ballo il libero mercato della politica – l’Imperatore confida ai suoi intimi di essersi lui stesso convertito alla Fede di Cristo già da dieci anni ma di mandare i cristiani in pasto ai leoni in base ad un calcolo preciso per assicurarsi il Paradiso (a fronte d’ogni martirio in arena almeno cento conversioni sulle gradinate). Chi meglio di lui contribuisce alla Causa?
La terza parte di “An Economic Theory of Democracy”, per citare il capostipite del filone, tratta proprio di questa materia: nel mercato della politica, acquisire informazione costa, i cittadini razionali si abituano quindi a ridurne i costi utilizzando con acume il flusso d’informazioni gratuite (le invettive di Santoro, i sorrisi di Floris), sanno trarne rendimenti per le decisioni di voto e per influenzare le politiche pubbliche. A filippiche che mettono in dubbio il proprio raziocinio, rispondono esercitandolo al massimo, nel mercato della politica.
Conosco Floris da quando, nel lontano 1992, gli conferii un premio per la sua tesi di laurea. E’ persona colta ed accorta. Non so se ha dimestichezza con “Androclo ed il Leone”; la ha senza dubbio con “An Economic Theory of Democracy”, almeno nella versione filtrata dal volume “Duello a Sinistra” di Giuliano Amato e di Giuliano Cafagna (Il Mulino, 1982). Il suo contributo al successo del PdL è stato verosimilmente con coscienza di causa. I miei contatti personali con Michele Santoro si limitano ad un paio di colazioni nel roof garden del Palazzo delle Esposizioni (in quel di Via Nazionale a Roma) all’inizio degli Anni Novanta. Santoro si è meritato una laurea in filosofia con 110 e lode; è culturalmente, quindi, molto distante dal leader del PD Walter Veltroni (i cui esiti scolastici sono documentati nell’archivio del Liceo Tasso). Poco portato all’analisi economica, ha certamente letto “Androclo e il Leone”, o ne ha visto l’edizione cinematografica. Nel libero mercato della politica si comporta quindi da PdLino antemarcia. Grazie, Michele! Grazie, Giovanni!
Può darsi che raggiungono tale risultato in via preterintenzionale ma il mercato – diceva Luigi Einaudi – si vendica sempre. Ed il libero mercato della politica è, sotto questo profilo, non differente dagli altri. Non è il suk tratteggiato da una certa pubblicistica che vuole essere saccente ma che è, invece, semplicemente ignorante. Ha sue regole precise analizzate nel lontano 1957 da Antony Downs in “An Economic Theory of Democracy” (Harpers & Row) – pubblicato in edizione italiana da “Il Mulino” nel 1988 – ed argomento di un filone di saggistica recente che ha tra i propri autori di maggior rilievo Avinash Dixit e Dani Rodrik. Già prima di Downs, però, George Bernard Shaw (ingegno multiforme, non unicamente scrittore di commedie e saggi) utilizzava il libero mercato della politica per prendere in giro niente po’ di meno che John Maynard Keynes e le tendenze di costui di proporre ricette che interferiscono con il libero mercato della politica. Proprio quelle nei confronti delle quali il mercato (proprio quella della politica) si vendica sempre. Einaudiamente parlando.
Al Cav. Berlusconi – si dice- l’idea di premiare Santoro e Floris sarebbe venuta assistendo, in quel di Arcore, ad un visione di un vecchio film del 1952 (protagonisti Jean Simmons e Victor Mature) tratto da una commedia di G.B. Shaw (“Androclo e il Leone). Sarebbe dovuto essere un momento di mero relax, dopo una faticosa giornata per le trattative sulla formazione del Governo. Quel bricconcello di Shaw gli ha mostrato a tutto tondo quanto Santoro e Floris hanno lavorato per la sua vittoria. La vicenda del “Play” , tratta da una leggenda antica, è nota: il cristiano Androclo ha tolto, nella foresta, una spina dal piede di un feroce leone e quando, presto dalle milizie imperiali, viene inviato alle fiere nel Colosseo, il leone non solo si rifiuta di azzannarlo ma lo difende dalle altre bestie feroci. A fronte del clamore dalle gradinate, Vespasiano non può che concedere la grazia. Ma – ed è qui che entra in ballo il libero mercato della politica – l’Imperatore confida ai suoi intimi di essersi lui stesso convertito alla Fede di Cristo già da dieci anni ma di mandare i cristiani in pasto ai leoni in base ad un calcolo preciso per assicurarsi il Paradiso (a fronte d’ogni martirio in arena almeno cento conversioni sulle gradinate). Chi meglio di lui contribuisce alla Causa?
La terza parte di “An Economic Theory of Democracy”, per citare il capostipite del filone, tratta proprio di questa materia: nel mercato della politica, acquisire informazione costa, i cittadini razionali si abituano quindi a ridurne i costi utilizzando con acume il flusso d’informazioni gratuite (le invettive di Santoro, i sorrisi di Floris), sanno trarne rendimenti per le decisioni di voto e per influenzare le politiche pubbliche. A filippiche che mettono in dubbio il proprio raziocinio, rispondono esercitandolo al massimo, nel mercato della politica.
Conosco Floris da quando, nel lontano 1992, gli conferii un premio per la sua tesi di laurea. E’ persona colta ed accorta. Non so se ha dimestichezza con “Androclo ed il Leone”; la ha senza dubbio con “An Economic Theory of Democracy”, almeno nella versione filtrata dal volume “Duello a Sinistra” di Giuliano Amato e di Giuliano Cafagna (Il Mulino, 1982). Il suo contributo al successo del PdL è stato verosimilmente con coscienza di causa. I miei contatti personali con Michele Santoro si limitano ad un paio di colazioni nel roof garden del Palazzo delle Esposizioni (in quel di Via Nazionale a Roma) all’inizio degli Anni Novanta. Santoro si è meritato una laurea in filosofia con 110 e lode; è culturalmente, quindi, molto distante dal leader del PD Walter Veltroni (i cui esiti scolastici sono documentati nell’archivio del Liceo Tasso). Poco portato all’analisi economica, ha certamente letto “Androclo e il Leone”, o ne ha visto l’edizione cinematografica. Nel libero mercato della politica si comporta quindi da PdLino antemarcia. Grazie, Michele! Grazie, Giovanni!
martedì 29 aprile 2008
LA LEGGENDA DELLA CITTA INVISIBILE DI KITEZ, Operaclick 28 aprile
Cagliari/Teatro Lirico
LA LEGGENDA DELLA CITTÀ INVISIBILE DI KITEŽ E DELLA FANCIULLA FEVRONIJAopera in quattro attilibretto Vladimir Bel’skijmusica Nikolaj Rimskij-Korsakov
Come ogni anno, l’inaugurazione della stagione del Teatro Lirico di Cagliari è un evento che richiama la stampa internazionale in Sardegna poiché viene messa in scena un’opera rara, spesso in prima assoluta per l’Italia. L’inaugurazione della stagione 2008 è il 24 aprile (in coincidenza con la Festa di Sant’Efisio, santo molto venerato nella città ed il relativo festival che si estende sino al 22 maggio con molta cameristica e concerti, tra l’altro, della Filarmonica della Scala e della Dresden Staatskappelle) con “La leggenda della città invisibile di Kitež e della fanciulla Fevronija”, opera in quattro atti su libretto di Vladimir Bel’skij e musica di Nikolaj Rimskij-Korsakov, realizzata in coproduzione con il Teatro Bolshoi di Mosca per la regia del lituano Eimuntas Nekrosius.
Rimskij-Korsakov è conosciuto in Italia principalmente per le sue opere a carattere storico (quali “La sposa dello Zar” e “Ivan il Terribile”) o fantastico (quali “La fanciulla di neve” e “Sadko”) , per il suo gusto pittorico nel mettere in musica la natura, per la ricchezza e delicatezza della sua orchestrazione (e per l’amore con cui orchestrò i lavori lasciati prematuramente incompleti dalla morte del suo fraterno amico Mussorsgkij. “La leggenda della città invisibile di Kitež e della fanciulla Fevronija” (di cui si può trovare in commercio una rara registrazione integrale effettuata per un’esecuzione alla radio russa nel 1956, mentre due incisioni più recenti, rispettivamente del Mariinskij , 1994, e del Festival di Bregenz, del 1995, sono di difficile reperimento) non si distingue dal resto della sua produzione per la durata (circa tre ore e mezzo di musica), la trasparenza orchestrale, il sinfonismo da grande organico wagneriano e la complessità vocale (richiede 18 solisti) ma anche perché è un’opera d’ispirazione mistico-religiosa. Un musicologo sovietico, Petrovski, la ha chiamata “opera liturgica”. Il programma allegato all’esecuzione del 1956 si chiedeva “E’ un Parsifal russo?”. Nel suo saggio del 1977 sull’opera slava, uno specialista come Carlo Marinelli ha sottolineato come, accanto all’afflato religioso, il minuzioso e pluriennale lavoro compiuto dal librettista e dal compositore per giungere ad un “testo” che riproducesse i “detti” popolari, ossia leggende molto radicate nella tradizione. Nella saggistica più recente, Franco Pulcini e Gianluigi Mattieti hanno de-enfatizzato il wagnerismo del lavoro, sottolineando, correttamente, come nonostante la forte struttura tematica (specialmente nel terzo e nel quarto atto), non ci sono cenni di cromatismo; la scrittura, specialmente quella orchestrale, è marcatamente diatonica mentre in quella vocale non mancano “numeri chiusi” pur se in gran parte articolata in declamato che scivola in ariosi (altro elemento tratto da Wagner).
L’opera è stata composta nel 1903-1905. In quegli anni, Rimskij-Korsakov (pur restando rigorosamente in ambito musicale) stava assumendo posizioni sempre più critiche nei confronti del regime zarista, come avrebbe documentato il suo ultimo lavoro “Il gallo d’oro”, mordente satira laica dell’autoritarismo. Si avvicinava sempre più alla religione, dopo avere avuto, per gran parte della vita, una posizione essenzialmente panteista. Nel periodo del leninismo e dello stalinismo, la Commissione per l’Ateismo discusse a lungo se si potesse autorizzare la rappresentazione del lavoro. Venne in parte modificato (eliminando i cori di ringraziamento a Dio) per poter andare in scena al Bolshoi nel 1926; da allora alla morte di Stalin in Russia la stessa versione modificata venne ripresa soltanto otto volte, mentre arrivò (quesi integrale) a Parigi, in Spagna, in Belgio ed alla Scala (nel 1933 e nel corso di una tournée di una compagnia dell’Est alla metà degli Anni 50). In Italia è riapparsa (molto tagliata) al Maggio Musicale Fiorentino del 1990, con la regia di Pier Luigi Pizzi. Ora è di frequente sulle scene russe ed anche tedesche.
La vicenda, tratta da ballate del decimo secolo, è molto complessa ; ruota attorno ai tentativi dei tartari di conquistare e di occupare uno dei principati in cui allora si divideva quella che sarebbe diventata la Russia. Un tentativo evitato proprio grazie al miracolo che rende invisibile la capitale. Un miracolo reso possibile dalla Fede della protagonista e dall’amore per la libertà dei russi (e per un sistema di governo comunitario e non autoritario, quindi marcatamente differente da quello caratteristico dell’invasore tartaro, altro elemento di polemica contro lo zarismo che tuttavia non piacque al regime leninista e stalinista dei decenni successivi alla Rivoluzione d’Ottobre).
Sotto il profilo della scrittura musicale e orchestrale vale il giudizio di Marinelli: il tessuto connettivo è un’orchestra luminosa e lucente con il canto che si dipana con continuità di linea e caratterizzando fortemente i personaggi (ieratico per l’azione principe, appassionato per suo figlio, fervido per la fanciulla Fevronija, agitato per l’ubriacone che vende il percorso verso la città ai tartari). Rossella Bertolazzi in uno scritto degli Anni 90 ha messo in rilievo come in questa opera più che in altre si fondono mirabilmente le musiche sia ritmiche sia melodiche che riprendono il canto popolare russo. Elvio Giudici ne loda il singolare fascino di una scrittura musicale molto complessa anche se basata sull’intreccio di un numero limitato di motivi integrati da tre micro-poemi sinfonici (il preludio, la battaglia, l’entrata dei due giovani innamorati nella città diventata miracolosamente invisibile) e da colossali scene mistiche nel finale.
E’ una delle ragioni della rarità della messa in scena sono, oltre alla durata, le difficoltà di effettuare trasformazioni a sipario aperto e la drammaturgia (caratterizzata da grandi quadri ma da un’azione scenica limitata). A Cagliari ci si è affidati Eimuntas Nekrosius ed alla sua squadra per risolvere questi due nodi. Lo hanno brillantemente: “La città invisibile” è, a mio avviso, la regia lirica più innovativa del regista lituano. La vicenda si svolge in un Medio-Evo visionario dove un numero limitato di elementi scenici riescono, con pochi tratti, a ricreare la foresta, la città piccola, la città grande, il lago, il campo tartaro, le steppe ed anche il Paradiso. Inoltre a differenza dell’approccio ieratico (e statico) della regia di Pizzi al Maggio Musicale del 1990, ogni azione per movimento scenico viene colta; ne risulta un ritmo incalzante (nei limiti che ciò è possibile in un’opera fiabesco-religiosa) , nonché una vera e propria messe di invenzioni. Il lavoro è co-prodotto dal Bolshoi d Mosca dove entra in repertorio il 10 ottobre ma è stato anche concepito per essere agevolmente portato in tournée. Quindi, la scenografia è scarna; ispirata alla pittura nordica (piuttosto che all’iconografia russa), con un omaggio a Piero della Francesca (i cappelli dei notabili), in modo che possa essere trasportata da un palcoscenico ad un altro.
Nelle registrazioni disponibili ci sono due modi di concertare l’opera: trattarla come un mosaico (come fa Valeri Geergev in quella del 1994) oppure come una serie di tableaux (come fa Vassilli Nebolsin nel 1956)- tralascio quella di Vladimir Feosseyev del 1995 a ragione della non buona qualità complessiva. Alexander Vedernikov , direttore musicale del Bolshoi, opta per i “tableaux”. E’ un’interpretazione del tutto legittima (ed in sintonia con lo stile russo) anche si perde un po’ della unitarietà del lavoro. Inoltre, lo presenta quasi integrale, con qualche taglio nel secondo quadro del terzo atto e nel quarto atto. A Bolshoi le prime cinque repliche saranno quasi integrali, come a Cagliari, ma verranno effettuati tagli più consistenti per la edizione di repertorio e di tournée. L’orchestra ed il coro (guidato da Fulvio Fogliazza ) hanno risposto egregiamente.
Tre le voci spicca la protagonista Tatiana Mogarova , un soprano lirico purissimo dalla linea melodica trasparente, a cui è affidato un ruolo terrificante: quasi sempre in scena, lunghe arie aperte o chiuse da declamati ed intercalati da duetti e concertati. Ha anche grandi capacità scenica ed è avvenente come richieste la parte. Tra i due tenori Mikhail Gusby, nelle vesti del ubriacone traditore, vince hai punti, Vitaly Panfilov, il principe buono. Il primo è tenore spinto il cui squillo ricorda quello che aveva Galouzine tre lustri fa; un vero prodigio vocale per tessitura, ampiezza di registro, volume ed agilità. Il secondo è un bari-tenore con difficoltà nei do e nei si e, la sera della prima rappresentazione, un volume contenuto (rispetto all’impetuosità dell’orchestra e dei cori). Tra gli altri, troppo numerosi per ricordarli tutti, spicca il giovane Mikhail Kazarov nei panni del principe anziano: un basso profondo in grado di scendere verso tonalità abissali e di farlo con agilità.
Doveroso notare che la sera dell’inaugurazione il pubblico cagliaritano ha applaudito con relativa freddezza, probabilmente a ragione della durata della serata (quattro ore in teatro) ed alla relativa novità del linguaggio musicale..
Cagliari , 24 aprile 2008
Giuseppe Pennisi
LA LOCANDINA LA LEGGENDA DELLA CITTÀ INVISIBILE DI KITEŽ E DELLA FANCIULLA FEVRONIJAopera in quattro attilibretto Vladimir Bel’skijmusica Nikolaj Rimskij-Korsakovin lingua originale con sopratitoli in italianopersonaggi e interpretiPrincipe Jurij Vsevolodovič Michail Kazakov/Principe Vsevolodov Vitaly Panfilov/Fevronija Tatiana MonogarovaGriška Kuter’ma Mikhail Gubskij/Feodor Pojarok Albert Schagidullin/Un giovinetto Marika GulordavaBardo Riccardo FerrariDomatore di orsi Stefano ConsoliniBediaj Valerij GilmanovBurundaj Alexander NaumenkoSirin Rosanna SavoiaAlkonost Elena ManistinaPrimo Ricco Borghese Gianluca FlorisSecondo Ricco Borghese Marek KalbusUn mendicante Alessandro Senesmaestro concertatore e direttore Alexander VedernikovOrchestra e Coro del Teatro Liricomaestro del coro Fulvio Fogliazzaregia Eimuntas Nekrosiusscene Marius Nekrosiuscostumi Nadežda Gultiajevaluci Audrius Jankauskasnuovo allestimento del Teatro Lirico di Cagliari in coproduzione con il Teatro Bolshoi di Mosca
LA LEGGENDA DELLA CITTÀ INVISIBILE DI KITEŽ E DELLA FANCIULLA FEVRONIJAopera in quattro attilibretto Vladimir Bel’skijmusica Nikolaj Rimskij-Korsakov
Come ogni anno, l’inaugurazione della stagione del Teatro Lirico di Cagliari è un evento che richiama la stampa internazionale in Sardegna poiché viene messa in scena un’opera rara, spesso in prima assoluta per l’Italia. L’inaugurazione della stagione 2008 è il 24 aprile (in coincidenza con la Festa di Sant’Efisio, santo molto venerato nella città ed il relativo festival che si estende sino al 22 maggio con molta cameristica e concerti, tra l’altro, della Filarmonica della Scala e della Dresden Staatskappelle) con “La leggenda della città invisibile di Kitež e della fanciulla Fevronija”, opera in quattro atti su libretto di Vladimir Bel’skij e musica di Nikolaj Rimskij-Korsakov, realizzata in coproduzione con il Teatro Bolshoi di Mosca per la regia del lituano Eimuntas Nekrosius.
Rimskij-Korsakov è conosciuto in Italia principalmente per le sue opere a carattere storico (quali “La sposa dello Zar” e “Ivan il Terribile”) o fantastico (quali “La fanciulla di neve” e “Sadko”) , per il suo gusto pittorico nel mettere in musica la natura, per la ricchezza e delicatezza della sua orchestrazione (e per l’amore con cui orchestrò i lavori lasciati prematuramente incompleti dalla morte del suo fraterno amico Mussorsgkij. “La leggenda della città invisibile di Kitež e della fanciulla Fevronija” (di cui si può trovare in commercio una rara registrazione integrale effettuata per un’esecuzione alla radio russa nel 1956, mentre due incisioni più recenti, rispettivamente del Mariinskij , 1994, e del Festival di Bregenz, del 1995, sono di difficile reperimento) non si distingue dal resto della sua produzione per la durata (circa tre ore e mezzo di musica), la trasparenza orchestrale, il sinfonismo da grande organico wagneriano e la complessità vocale (richiede 18 solisti) ma anche perché è un’opera d’ispirazione mistico-religiosa. Un musicologo sovietico, Petrovski, la ha chiamata “opera liturgica”. Il programma allegato all’esecuzione del 1956 si chiedeva “E’ un Parsifal russo?”. Nel suo saggio del 1977 sull’opera slava, uno specialista come Carlo Marinelli ha sottolineato come, accanto all’afflato religioso, il minuzioso e pluriennale lavoro compiuto dal librettista e dal compositore per giungere ad un “testo” che riproducesse i “detti” popolari, ossia leggende molto radicate nella tradizione. Nella saggistica più recente, Franco Pulcini e Gianluigi Mattieti hanno de-enfatizzato il wagnerismo del lavoro, sottolineando, correttamente, come nonostante la forte struttura tematica (specialmente nel terzo e nel quarto atto), non ci sono cenni di cromatismo; la scrittura, specialmente quella orchestrale, è marcatamente diatonica mentre in quella vocale non mancano “numeri chiusi” pur se in gran parte articolata in declamato che scivola in ariosi (altro elemento tratto da Wagner).
L’opera è stata composta nel 1903-1905. In quegli anni, Rimskij-Korsakov (pur restando rigorosamente in ambito musicale) stava assumendo posizioni sempre più critiche nei confronti del regime zarista, come avrebbe documentato il suo ultimo lavoro “Il gallo d’oro”, mordente satira laica dell’autoritarismo. Si avvicinava sempre più alla religione, dopo avere avuto, per gran parte della vita, una posizione essenzialmente panteista. Nel periodo del leninismo e dello stalinismo, la Commissione per l’Ateismo discusse a lungo se si potesse autorizzare la rappresentazione del lavoro. Venne in parte modificato (eliminando i cori di ringraziamento a Dio) per poter andare in scena al Bolshoi nel 1926; da allora alla morte di Stalin in Russia la stessa versione modificata venne ripresa soltanto otto volte, mentre arrivò (quesi integrale) a Parigi, in Spagna, in Belgio ed alla Scala (nel 1933 e nel corso di una tournée di una compagnia dell’Est alla metà degli Anni 50). In Italia è riapparsa (molto tagliata) al Maggio Musicale Fiorentino del 1990, con la regia di Pier Luigi Pizzi. Ora è di frequente sulle scene russe ed anche tedesche.
La vicenda, tratta da ballate del decimo secolo, è molto complessa ; ruota attorno ai tentativi dei tartari di conquistare e di occupare uno dei principati in cui allora si divideva quella che sarebbe diventata la Russia. Un tentativo evitato proprio grazie al miracolo che rende invisibile la capitale. Un miracolo reso possibile dalla Fede della protagonista e dall’amore per la libertà dei russi (e per un sistema di governo comunitario e non autoritario, quindi marcatamente differente da quello caratteristico dell’invasore tartaro, altro elemento di polemica contro lo zarismo che tuttavia non piacque al regime leninista e stalinista dei decenni successivi alla Rivoluzione d’Ottobre).
Sotto il profilo della scrittura musicale e orchestrale vale il giudizio di Marinelli: il tessuto connettivo è un’orchestra luminosa e lucente con il canto che si dipana con continuità di linea e caratterizzando fortemente i personaggi (ieratico per l’azione principe, appassionato per suo figlio, fervido per la fanciulla Fevronija, agitato per l’ubriacone che vende il percorso verso la città ai tartari). Rossella Bertolazzi in uno scritto degli Anni 90 ha messo in rilievo come in questa opera più che in altre si fondono mirabilmente le musiche sia ritmiche sia melodiche che riprendono il canto popolare russo. Elvio Giudici ne loda il singolare fascino di una scrittura musicale molto complessa anche se basata sull’intreccio di un numero limitato di motivi integrati da tre micro-poemi sinfonici (il preludio, la battaglia, l’entrata dei due giovani innamorati nella città diventata miracolosamente invisibile) e da colossali scene mistiche nel finale.
E’ una delle ragioni della rarità della messa in scena sono, oltre alla durata, le difficoltà di effettuare trasformazioni a sipario aperto e la drammaturgia (caratterizzata da grandi quadri ma da un’azione scenica limitata). A Cagliari ci si è affidati Eimuntas Nekrosius ed alla sua squadra per risolvere questi due nodi. Lo hanno brillantemente: “La città invisibile” è, a mio avviso, la regia lirica più innovativa del regista lituano. La vicenda si svolge in un Medio-Evo visionario dove un numero limitato di elementi scenici riescono, con pochi tratti, a ricreare la foresta, la città piccola, la città grande, il lago, il campo tartaro, le steppe ed anche il Paradiso. Inoltre a differenza dell’approccio ieratico (e statico) della regia di Pizzi al Maggio Musicale del 1990, ogni azione per movimento scenico viene colta; ne risulta un ritmo incalzante (nei limiti che ciò è possibile in un’opera fiabesco-religiosa) , nonché una vera e propria messe di invenzioni. Il lavoro è co-prodotto dal Bolshoi d Mosca dove entra in repertorio il 10 ottobre ma è stato anche concepito per essere agevolmente portato in tournée. Quindi, la scenografia è scarna; ispirata alla pittura nordica (piuttosto che all’iconografia russa), con un omaggio a Piero della Francesca (i cappelli dei notabili), in modo che possa essere trasportata da un palcoscenico ad un altro.
Nelle registrazioni disponibili ci sono due modi di concertare l’opera: trattarla come un mosaico (come fa Valeri Geergev in quella del 1994) oppure come una serie di tableaux (come fa Vassilli Nebolsin nel 1956)- tralascio quella di Vladimir Feosseyev del 1995 a ragione della non buona qualità complessiva. Alexander Vedernikov , direttore musicale del Bolshoi, opta per i “tableaux”. E’ un’interpretazione del tutto legittima (ed in sintonia con lo stile russo) anche si perde un po’ della unitarietà del lavoro. Inoltre, lo presenta quasi integrale, con qualche taglio nel secondo quadro del terzo atto e nel quarto atto. A Bolshoi le prime cinque repliche saranno quasi integrali, come a Cagliari, ma verranno effettuati tagli più consistenti per la edizione di repertorio e di tournée. L’orchestra ed il coro (guidato da Fulvio Fogliazza ) hanno risposto egregiamente.
Tre le voci spicca la protagonista Tatiana Mogarova , un soprano lirico purissimo dalla linea melodica trasparente, a cui è affidato un ruolo terrificante: quasi sempre in scena, lunghe arie aperte o chiuse da declamati ed intercalati da duetti e concertati. Ha anche grandi capacità scenica ed è avvenente come richieste la parte. Tra i due tenori Mikhail Gusby, nelle vesti del ubriacone traditore, vince hai punti, Vitaly Panfilov, il principe buono. Il primo è tenore spinto il cui squillo ricorda quello che aveva Galouzine tre lustri fa; un vero prodigio vocale per tessitura, ampiezza di registro, volume ed agilità. Il secondo è un bari-tenore con difficoltà nei do e nei si e, la sera della prima rappresentazione, un volume contenuto (rispetto all’impetuosità dell’orchestra e dei cori). Tra gli altri, troppo numerosi per ricordarli tutti, spicca il giovane Mikhail Kazarov nei panni del principe anziano: un basso profondo in grado di scendere verso tonalità abissali e di farlo con agilità.
Doveroso notare che la sera dell’inaugurazione il pubblico cagliaritano ha applaudito con relativa freddezza, probabilmente a ragione della durata della serata (quattro ore in teatro) ed alla relativa novità del linguaggio musicale..
Cagliari , 24 aprile 2008
Giuseppe Pennisi
LA LOCANDINA LA LEGGENDA DELLA CITTÀ INVISIBILE DI KITEŽ E DELLA FANCIULLA FEVRONIJAopera in quattro attilibretto Vladimir Bel’skijmusica Nikolaj Rimskij-Korsakovin lingua originale con sopratitoli in italianopersonaggi e interpretiPrincipe Jurij Vsevolodovič Michail Kazakov/Principe Vsevolodov Vitaly Panfilov/Fevronija Tatiana MonogarovaGriška Kuter’ma Mikhail Gubskij/Feodor Pojarok Albert Schagidullin/Un giovinetto Marika GulordavaBardo Riccardo FerrariDomatore di orsi Stefano ConsoliniBediaj Valerij GilmanovBurundaj Alexander NaumenkoSirin Rosanna SavoiaAlkonost Elena ManistinaPrimo Ricco Borghese Gianluca FlorisSecondo Ricco Borghese Marek KalbusUn mendicante Alessandro Senesmaestro concertatore e direttore Alexander VedernikovOrchestra e Coro del Teatro Liricomaestro del coro Fulvio Fogliazzaregia Eimuntas Nekrosiusscene Marius Nekrosiuscostumi Nadežda Gultiajevaluci Audrius Jankauskasnuovo allestimento del Teatro Lirico di Cagliari in coproduzione con il Teatro Bolshoi di Mosca
COMUNQUE VADA IL PERDENTE E' VELTRONI, Il Tempo 18 aprile
Daniele Capezzone ha lanciato su “Il Velino” una provocazione interessante e che merita di essere approfondita: il vero sconfitto delle elezioni per il Sindaco della capitale sarà Walter Veltroni (e con lui chi lo ha posto sulla strada della costituzione del PD, in primo luogo Goffredo Bettini). Il ragionamento di Capezzone si basa su un’intuizione politica: se vince Alemanno, anche la roccaforte del PD, quel Comune Roma dove la sinistra fa il bello ed il cattivo tempo da tre lustri, sarà travolta dallo tsumani che ha dato una forte maggioranza parlamentare al PdL, alla Lega ed ai loro “apparentati”; se vince Rutelli, il neo-Sindaco della capitale si porrà come competitore diretto di Veltroni alla guida del PD in quanto unico leader del centro-sinistra che non esce come un pugile battuto da questa stagione elettorale.
L’intuizione trova robuste basi analitiche alla luce della “teoria economica della democrazia”, elaborata da Anthony Downs nel 1957 in libro la cui traduzione italiana è stata pubblicata nel 1988. Nel lavoro (e nei numerosi di questo filone, specialmente interessanti quelli recenti di Dani Rodrik) i fenomeni politici vengono analizzati utilizzando la strumentazione economica, in particolare i rendimenti dell’informazione in condizioni di incertezza e le partite economiche giocate su più tavoli. Lo abbiamo visto in parte su Il Tempo del 21 aprile commentando le mosse di Rutelli ed Alemanno in vista del secondo turno in termini di come giocano (sul tavolo dell’”incidenza”, nei confronti del risultato finale, per stringere alleanze o impedirlo all’avversario, e sul tavolo della “popolarità” nei confronti del proprio bacino elettorale).
Si giunge, però, a conclusioni leggermente differenti di quelle di Capezzone. Veltroni è, in ogni il perdente nella sfida romana, non perché è in palio la leadership del PD ma perché ambedue i contendenti (Alemanno e Rutelli) giocano direttamente contro la sua creatura, il PD, sul tavolo della “popolarità” e della “incidenza”. La posizione di Alemanno è chiarissima: il PD è l’avversario del PdL a livello nazionale e, quindi, anche a livello locale. Meno evidente la guerra implicita di Rutelli contro il PD: si è presentato al primo turno alleato con le forze politiche concorrenti del PD a sinistra (quelle criticate da Veltroni come causa di tutti i mali della XIV Legislatura nel tour per le province italiane); al secondo turno, da un lato, tenta di mantenere l’alleanza contro gli anti-veltroniani di sinistra e, da un altro, cerca di stringerla (senza successo) con il centro ma fa un patto con ex-esponenti della destra di un arco politico che arriva sino ad AN. La coalizione al tavolo rutelliano della “popolarità” è l’opposto del PD. E’ in ballo, quindi, non una sfida per la leadership ma la deflagrazione del soggetto politico. A causa del “fuoco amico” (o apparentemente tale).
L’intuizione trova robuste basi analitiche alla luce della “teoria economica della democrazia”, elaborata da Anthony Downs nel 1957 in libro la cui traduzione italiana è stata pubblicata nel 1988. Nel lavoro (e nei numerosi di questo filone, specialmente interessanti quelli recenti di Dani Rodrik) i fenomeni politici vengono analizzati utilizzando la strumentazione economica, in particolare i rendimenti dell’informazione in condizioni di incertezza e le partite economiche giocate su più tavoli. Lo abbiamo visto in parte su Il Tempo del 21 aprile commentando le mosse di Rutelli ed Alemanno in vista del secondo turno in termini di come giocano (sul tavolo dell’”incidenza”, nei confronti del risultato finale, per stringere alleanze o impedirlo all’avversario, e sul tavolo della “popolarità” nei confronti del proprio bacino elettorale).
Si giunge, però, a conclusioni leggermente differenti di quelle di Capezzone. Veltroni è, in ogni il perdente nella sfida romana, non perché è in palio la leadership del PD ma perché ambedue i contendenti (Alemanno e Rutelli) giocano direttamente contro la sua creatura, il PD, sul tavolo della “popolarità” e della “incidenza”. La posizione di Alemanno è chiarissima: il PD è l’avversario del PdL a livello nazionale e, quindi, anche a livello locale. Meno evidente la guerra implicita di Rutelli contro il PD: si è presentato al primo turno alleato con le forze politiche concorrenti del PD a sinistra (quelle criticate da Veltroni come causa di tutti i mali della XIV Legislatura nel tour per le province italiane); al secondo turno, da un lato, tenta di mantenere l’alleanza contro gli anti-veltroniani di sinistra e, da un altro, cerca di stringerla (senza successo) con il centro ma fa un patto con ex-esponenti della destra di un arco politico che arriva sino ad AN. La coalizione al tavolo rutelliano della “popolarità” è l’opposto del PD. E’ in ballo, quindi, non una sfida per la leadership ma la deflagrazione del soggetto politico. A causa del “fuoco amico” (o apparentemente tale).
1984 STRAPAZZATO DALLA MUSICA DI MAAZEL, Il Velino 29 aprile
Devo fare una premessa; ho vissuto 15 anni negli Stati Uniti ed amo l’opera lirica americana. Attribuisco specialmente a quelle tratte da romanzi, drammi in prosa e film di successo il merito di avere riportato in teatro pubblico che se ne era andato o di avervi condotto spettatori nuovi, specialmente i giovani. Considero un vero capolavoro di “Seven attempted escapes from silence” (“Sette tentativi di fuga dal silenzio”), un libretto di Jonathan Safran Foer messo in musica da sette giovani compositori di Paesi e scuole musicali differenti che ho avuto modo di ascoltare e vedere alla Staatsoper under den Linden di Berlino nel 2005. Altro capolavoro, della fine degli Anni 90 ma messo in scena alcuni anni fa al Regio di Torino, è “A Streetcar Named Desire” di André Previn. Molto buono “Doctor Atomic” di John Adams, una ricostruzione, a 60 anni di Hiroshima e Nagasaki del Manhattan Project che portò alla bomba atomica. Altri lavori che meritano segnalazione ( e che si possono vedere in DvD e sul canale digitale “Classica”): “The bitter tears of Petra von Kant” (“Le lacrime amare di Petra von Kant”) del compositore irlandese Gerald Barry, “Thyeste” di Jan van Vljimen, “Pan” di Marc Monnet e soprattutto “Sophie’s Choice” (“La scelta di Sofia”) di Nicholas Maw e “The Tempest” di Thomas Adès. Non si tratta solamente d’opere americane, ma di lavori per il teatro in musica “sullo stile” dell’opera americana contemporanea, rivolti quindi al grande pubblico. A casa nostra, l’unica simile è “Saul” di Flavio Testi che si è vista a Macerata ed a Roma ma il cui grande successo è stato ed è in Francia.
Di “1984” di Lorin Maazel conosco solamente il DvD appena edito sulla base della “prima esecuzione” avvenuta al Covent Garden di Londra, esattamente tre anni fa. Un debutto che ha sollevato varie polemiche anche perché la produzione è stata finanziata in parte da Maazel in persona (è stato enfant prodige ed è uno dei musicisti più ricchi al mondo grazie al successo come direttore d’orchestra ed ad essere stato associato a film che hanno avuto esiti eccezionali di cassetta). Maazel voleva tanto che il lavoro fosse messo in scena nel migliore dei modi ed in uno dei teatri di maggior prestigio al mondo che ha creato una compagnia (significativamente chiamata “Big Brothers Production”), ha versato circa 800.000 dollari ed ha chiesto alla Royal Opera House (dove la direzione artistica non era convinta del valore dell’opera) di metterla in scena. E’ sempre la “Big Brothers” che la porta in giro per il mondo. A 78 anni, Maazel se lo può permettere: ha cominciato a lavorare, come pianista solista, ed a macinar quattrini a 6 anni.
Le critiche sono state piuttosto guardinghe. Non tanto nei confronti del libretto ( di J. D. McClatchy e Thomas Meehan), una riduzione efficace del romanzo, quanto della partitura , che fonde stili differenti ed è densa di citazioni della musica del Novecento (da Varèse a Digesti, a Berio). La scrittura vocale richiede vere e proprie acrobazie per i protagonisti. Anthony Tomasini ha scritto sul “New York Times” di “compelling elements” (“momenti molto belli”) che non è proprio un complimento per il valore complessivo del lavoro. Molto più severo Anthony su “The Guardian”: definisce l’opera una noiosa e lunghissima fiera delle vanità “che non riesce ad interessare lo spettatore”, Durissima la stampa specializzata come Patricia Mitchell di Oboeinsight.
A mio avviso, l’errore principale di Maazel è quello di avere voluto strafare: mentre il teatro in musica americano segue una linea diatonica piuttosto semplice ed accattivante, Maazel costruisce per “1984” un vero e proprio caleidoscopio del Novecento musicale. Scontentando sia gli innovatori sia i tradizionalisti.
Di “1984” di Lorin Maazel conosco solamente il DvD appena edito sulla base della “prima esecuzione” avvenuta al Covent Garden di Londra, esattamente tre anni fa. Un debutto che ha sollevato varie polemiche anche perché la produzione è stata finanziata in parte da Maazel in persona (è stato enfant prodige ed è uno dei musicisti più ricchi al mondo grazie al successo come direttore d’orchestra ed ad essere stato associato a film che hanno avuto esiti eccezionali di cassetta). Maazel voleva tanto che il lavoro fosse messo in scena nel migliore dei modi ed in uno dei teatri di maggior prestigio al mondo che ha creato una compagnia (significativamente chiamata “Big Brothers Production”), ha versato circa 800.000 dollari ed ha chiesto alla Royal Opera House (dove la direzione artistica non era convinta del valore dell’opera) di metterla in scena. E’ sempre la “Big Brothers” che la porta in giro per il mondo. A 78 anni, Maazel se lo può permettere: ha cominciato a lavorare, come pianista solista, ed a macinar quattrini a 6 anni.
Le critiche sono state piuttosto guardinghe. Non tanto nei confronti del libretto ( di J. D. McClatchy e Thomas Meehan), una riduzione efficace del romanzo, quanto della partitura , che fonde stili differenti ed è densa di citazioni della musica del Novecento (da Varèse a Digesti, a Berio). La scrittura vocale richiede vere e proprie acrobazie per i protagonisti. Anthony Tomasini ha scritto sul “New York Times” di “compelling elements” (“momenti molto belli”) che non è proprio un complimento per il valore complessivo del lavoro. Molto più severo Anthony su “The Guardian”: definisce l’opera una noiosa e lunghissima fiera delle vanità “che non riesce ad interessare lo spettatore”, Durissima la stampa specializzata come Patricia Mitchell di Oboeinsight.
A mio avviso, l’errore principale di Maazel è quello di avere voluto strafare: mentre il teatro in musica americano segue una linea diatonica piuttosto semplice ed accattivante, Maazel costruisce per “1984” un vero e proprio caleidoscopio del Novecento musicale. Scontentando sia gli innovatori sia i tradizionalisti.
domenica 27 aprile 2008
PER RISOLVERE IL PROBLEMA SICUREZZA SERVONO GLI ECONOMISTI AL VIMINALE, Libero 26 aprile
Le misure per la sicurezza saranno il primo tema all’ordine del giorno del nuovo Governo. E’ giusto che sia così: i dati, appena pubblicati dal Viminale, sull’andamento della criminalità nel 2007 nelle 14 città che hanno patti per la sicurezza con il Ministero dell’Interno evidenziano una vera e propria escalation di furti nelle case, aumenti dei furti con strappo, incremento degli stupri e crescita della microcriminalità non soltanto nei grandi centri urbani ma anche nelle province. Il documento mostra anche che le autorità riescono a cogliere più frequentemente i delitti in flagranza, come diminuiscono, in certi casi, i tempi dei processi e soprattutto come nel secondo semestre del 2007 i reati siano in calo (rispetto ai primi sei mesi dell’anno scorso). Tuttavia, l’effettiva applicazione delle sanzioni è ancora incerta e spesso aleatorie (anche a ragione dell’interpretazione generosa dei benefici di legge), i poliziotti di quartiere (su cui si è puntato nella XIV legislatura) sono stati accantonati dal Governo Prodi che ha accantonato fermato i voli di rimpatrio di clandestini colpevoli di reato, i campi rom sono diventati (specialmente negli ultimi due anni) una caratteristica di molte città, i neocomunitari rumeni superano gli albanesi tra i colpevoli di infrazioni, piccole e grandi, della legge.
Contribuire a risolvere questi nodi è materia solamente per giuristi, magistrati ed esperti di polizia? Non credo.
La teoria economica dello Stato implica un patto economico tra il Castello ed il Borgo: il secondo paga le tasse perché il primo produca e fornisca due beni pubblici essenziali (non divisibili e non oggetto di transazione di mercato): l’ordine interno e la giustizia. Se il Castello non li fornisce, il Borgo si rivolta, lo caccia e si prende altri castellani. E’ un po’ ciò che è successo al Governo Prodi. Altrimenti, il Borgo si organizza per proprio conto. Nei quattro lustri che ho lavorato in Banca Mondiale ed alla FAO ho sempre considerato i mercati africani tra i luoghi più sicuri perché i mercati si organizzavano per tenere alta la reputazione del proprio lavoro – la reputazione è un bene immateriale di cui si ha contezza anche nelle società più primitive. Un esempio controfattuale: al mercato di Triechville nei pressi di Abidjan (uno dei maggiori dell’Africa Occidentale) dovetti chiamare la polizia perché i mercati stavano quasi per linciare un ladruncolo che aveva sfilato il portafoglio dalle tasche di un mio collega. La polizia intervenne per salvare la vita al ladruncolo. Arrestandolo.
La strumentazione economica, soprattutto, è di grande utilità nell’individuare non soltanto le determinanti della criminalità (ed i costi che comporta per la società) ma anche i metodi per contenerla. In Italia, la Società Italiana degli Economisti alla fine degli Anni 80 organizzò un Congresso scientifico su questi temi (i saggi vennero raccolti in un libro edito da Il Mulino e curato da Stefano Zamagni ora alla guida dell’Authority sul non-profit); nel 2005, un congresso scientifico internazionale venne organizzato a Torino dalla Società Italiana di Diritto ed Economia che pubblica una ricca serie di Working Papers su queste tematiche. In numerose Università italiane si tengono corsi sugli aspetti economici della criminalità e sulle strategie di prevenzione. Non sappiamo quanto i risultati di questi lavori sono utilizzati dal Ministero dell’Interno per plasmare, sotto il profilo tecnico-professionale, le proposte di strategia da presentare agli organi politici. E’, senza dubbio, un segno d’attenzione il fatto che il prossimo numero di “Amministrazione Civile”, l’elegante periodico del dicastero, pubblichi, nel prossimo numero, una rassegna su una tematica affine: come la strumentazione economica può contribuire alla lotta al terrorismo.
In Francia, Gran Bretagna e soprattutto Stati Uniti i dicasteri responsabili per la sicurezza interna hanno, da lustri, economisti, a volte in ruoli tecnici, nei loro organici. Negli Usa, in particolare, alla saggistica si accompagna una diffusa saggistica divulgativa sugli strumenti economici per combattere la criminalità, ad uso sia dei cittadini e delle imprese sia soprattutto degli enti locali (Contee, Comuni). Uno dei testi di maggior successo è il volume di David Friedman “Law & Order: What Economics Has to do with Law and Why it Matters”. 344 pagine in stile divulgativo pubblicato dalla Princeton University Press nel 2001 e aggiornato più volte in edizioni economiche in brossura e papeback . Il libro è un baedeker che dopo avere illustrato i principi di base dell’economia del diritto affronta, in termini di teoria dei giochi ed opzioni reali, quali sono le misure più efficaci, sotto il profilo dei costi alla società, per combattere la criminalità. Le Università di Chicago e della California (specialmente Stanford e Santa Clara) sono i “pensatoi” di maggior rilievo; oltre a riviste scientifiche, vengono pubblicati periodi di alta divulgazione.
Di grande rilievo la letteratura sui nessi tra sicurezza e sviluppo (di interesse specialmente per le aree meno utilizzate). Il 13 marzo scorso il settimanale “The Economist” ha pubblicato una rassegna dei saggi più significativi apparsi negli ultimi anni e delle loro implicazioni operative: ci sono anche lavori di autori italiani (come Francesco Trebbi e Massimo Mastruzzi), i quali , però, lavorano all’estero, mentre Dio solo sa, quale contributo potrebbero apportare al Viminale.
Se il Ministro-che-verrà vuole incidere sul fenomeno, si cerchi una pattuglia di economisti per dargli una mano.
Contribuire a risolvere questi nodi è materia solamente per giuristi, magistrati ed esperti di polizia? Non credo.
La teoria economica dello Stato implica un patto economico tra il Castello ed il Borgo: il secondo paga le tasse perché il primo produca e fornisca due beni pubblici essenziali (non divisibili e non oggetto di transazione di mercato): l’ordine interno e la giustizia. Se il Castello non li fornisce, il Borgo si rivolta, lo caccia e si prende altri castellani. E’ un po’ ciò che è successo al Governo Prodi. Altrimenti, il Borgo si organizza per proprio conto. Nei quattro lustri che ho lavorato in Banca Mondiale ed alla FAO ho sempre considerato i mercati africani tra i luoghi più sicuri perché i mercati si organizzavano per tenere alta la reputazione del proprio lavoro – la reputazione è un bene immateriale di cui si ha contezza anche nelle società più primitive. Un esempio controfattuale: al mercato di Triechville nei pressi di Abidjan (uno dei maggiori dell’Africa Occidentale) dovetti chiamare la polizia perché i mercati stavano quasi per linciare un ladruncolo che aveva sfilato il portafoglio dalle tasche di un mio collega. La polizia intervenne per salvare la vita al ladruncolo. Arrestandolo.
La strumentazione economica, soprattutto, è di grande utilità nell’individuare non soltanto le determinanti della criminalità (ed i costi che comporta per la società) ma anche i metodi per contenerla. In Italia, la Società Italiana degli Economisti alla fine degli Anni 80 organizzò un Congresso scientifico su questi temi (i saggi vennero raccolti in un libro edito da Il Mulino e curato da Stefano Zamagni ora alla guida dell’Authority sul non-profit); nel 2005, un congresso scientifico internazionale venne organizzato a Torino dalla Società Italiana di Diritto ed Economia che pubblica una ricca serie di Working Papers su queste tematiche. In numerose Università italiane si tengono corsi sugli aspetti economici della criminalità e sulle strategie di prevenzione. Non sappiamo quanto i risultati di questi lavori sono utilizzati dal Ministero dell’Interno per plasmare, sotto il profilo tecnico-professionale, le proposte di strategia da presentare agli organi politici. E’, senza dubbio, un segno d’attenzione il fatto che il prossimo numero di “Amministrazione Civile”, l’elegante periodico del dicastero, pubblichi, nel prossimo numero, una rassegna su una tematica affine: come la strumentazione economica può contribuire alla lotta al terrorismo.
In Francia, Gran Bretagna e soprattutto Stati Uniti i dicasteri responsabili per la sicurezza interna hanno, da lustri, economisti, a volte in ruoli tecnici, nei loro organici. Negli Usa, in particolare, alla saggistica si accompagna una diffusa saggistica divulgativa sugli strumenti economici per combattere la criminalità, ad uso sia dei cittadini e delle imprese sia soprattutto degli enti locali (Contee, Comuni). Uno dei testi di maggior successo è il volume di David Friedman “Law & Order: What Economics Has to do with Law and Why it Matters”. 344 pagine in stile divulgativo pubblicato dalla Princeton University Press nel 2001 e aggiornato più volte in edizioni economiche in brossura e papeback . Il libro è un baedeker che dopo avere illustrato i principi di base dell’economia del diritto affronta, in termini di teoria dei giochi ed opzioni reali, quali sono le misure più efficaci, sotto il profilo dei costi alla società, per combattere la criminalità. Le Università di Chicago e della California (specialmente Stanford e Santa Clara) sono i “pensatoi” di maggior rilievo; oltre a riviste scientifiche, vengono pubblicati periodi di alta divulgazione.
Di grande rilievo la letteratura sui nessi tra sicurezza e sviluppo (di interesse specialmente per le aree meno utilizzate). Il 13 marzo scorso il settimanale “The Economist” ha pubblicato una rassegna dei saggi più significativi apparsi negli ultimi anni e delle loro implicazioni operative: ci sono anche lavori di autori italiani (come Francesco Trebbi e Massimo Mastruzzi), i quali , però, lavorano all’estero, mentre Dio solo sa, quale contributo potrebbero apportare al Viminale.
Se il Ministro-che-verrà vuole incidere sul fenomeno, si cerchi una pattuglia di economisti per dargli una mano.
LA LIBERTAì NEL DOMANI DELL'EUROPA, ASIA PERMETTENDO Il Domenicale 26 aprile
LA LIBERTA’ NEL DOMANI DELL’EUROPA, ASIA PERMETTENDO
La pubblicazione, quasi in parallelo, del libro di Raimondo Cubeddu “Le Istituzioni e la Libertà” ad opera di LiberiLibri (la meritoria casa editrice di Macerata dedicata alla saggistica liberale) e del saggio di Giulio Tremonti “La Paura e la Speranza- Europa: la crisi globale che si avvicina e la via per superarla” potrebbe il punto di avvio per un dibattito sul futuro del liberalismo e politico e economico nel Vecchio Continente. I due libri sono arrivati nelle librerie poche settimane prima delle elezioni. Il primo puramente per caso. Il secondo per disegno: traccia infatti le grandi linee per una strategia europea in tema di integrazione economica internazionale. Ambedue sono usciti dopo la pubblicazione del saggio del Premio Nobel W. Robert Fogel su “capitalismo e democrazia nel 2040”; Cubeddu e Tremonti non lo citano e probabilmente non lo hanno letto.
Eppure è proprio dal lavoro di Fogel che vale la pena partire per porre i due lavori in un contesto appropriato. Fogel è, al tempo stesso, un econometrico ed uno storico dell’economia e dei sistemi politici: ha avuto il Nobel proprio perché coniugando i due strumenti è giunto alla dimostrazione inoppugnabili di alcuni paradossi (quale la situazione comparata di “benessere” degli schiavi di colore nelle piantagioni del Sud e degli operai nel manifatturiero nel Nord negli anni che precedettero la guerra di secessione americana).ù
Nel lavoro citato, Fogel non guarda al passato (con la cassetta degli attrezzi degli storici ma al futuro con quella del previsore uso all’impiego di modellistica avanzata). I 15 Stati che nel 2000 facevano parte dell’Ue non riusciranno – documenta- a tenere il passo dell’Asia. Nel 2040, a prezzi e cambi del 2000, la sola Cina avrà un pil di 123.000 miliardi di dollari (il triplo della produzione mondiale del 2000) ; l’India crescerà a tassi più contenuti a ragione di vincoli sia economici sia politici. “Il declino dell’Ue nella pil mondiale vuol dire la fiaccola di promuovere la democrazia liberale del mondo dovrà passare da un continente ormai vecchio e piccolo alle Nazioni liberali dell’Asia”. Fogel non ha certezze; ma mostra un buon grado di convincimento che il progresso economico porterà ad una sua migliore distribuzione e quindi all’affermazione di un pensiero politico e di un’economia liberale in Asia.
Cubeddu e Tremonti presentano visioni molto differenti da quella di Fogel e divergenti tra loro. Ambedue non vedono e neanche intravedono la possibilità di un’evoluzione liberale in Asia. Il secondo propone una difesa dell’identità europea che, in certe circostanze, contempli barriere alla frontiera nei confronti di quel “made in Asia” provenienti da Stati che non osservano le convenzioni di base stipulate nell’ambito dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro; in altra sede, ho dimostrato come tele posizione sia compatibili con i principi liberali tanto in filosofia politica quanto in economia. Il primo non solo respinge qualsiasi forma di interventismo economico (specialmente alla frontiera) “alla Tremonti” ma chiede un rafforzamento della politica come strumento per “ridurre l’incertezza”. In effetti, sia per Cubeddu sia per Tremonti “l’incertezza” è all’origine delle “paure” e del senso di sfiducia nei confronti dell’ordine liberale – caratteristiche oggi di molte società europee. Per Cudebbu una politica che non ha tenuto conto della discrepanza tra tempo individuale e tempo delle istituzioni è all’origine dell’attuale situazione di crisi del pensiero e dell’economia liberale in Europa: la risposta politica, quindi, deve venire da dentro di noi (l’Europa) ed essere rivolta principalmente a noi. Per Tremonti, invece, la determinante è l’aggressione non solo alla nostra produzione e consumo di beni e servizi ma alla nostra identità; la risposta politica deve venire – come per Cubeddu – da dentro di noi ma deve essere rivolta soprattutto fuori di noi. La teoria dell’elettore mediano – si guardi al saggio di Schofield – indica che i tempi sono stretti.
Si può tirare una conclusione? Oppure è preferibile avviare una discussione che porti a soluzioni operative nella prima parte della XVI Legislatura? Propenderei per la seconda ipotesi. Con due precisazioni: La prima è che, comunque, una risposta politica deve venire dall’Europa (che ha il compito di dimostrare a sé stessa ed agli altri di non essere un continente vecchio e , dunque, non più in grado di essere propositivo). La seconda viene dalla mia lunga esperienza in Asia: mentre la Cina non ha esperienza di democrazia liberale, l’India è stata in grado di far funzionare un sistema democratico-liberale anche nei lunghi periodi di programmazione centralizzata. Quindi, la previsione di Fogel merita di essere tenuta presente.
Riferimenti
Cubeddu R. (2007) “Le Istituzioni e la Libertà” pp.310, Macerata LiberiLibri € 14
Fogel W.R, (2007) "Capitalism and Democracy in 2040: Forecasts and Speculations"
NBER Working Paper No. W13184
Pennisi G. , Scandizzo P.L. (2004) “Valutare l’Incertezza” Torino, pp.422 Giappichelli € 40
Pennisi G. (2008) “Liberisti e Protezionisti” in corso di pubblicazione nel mensile “Formiche”
Schofield N. (2008) "The Mean Voter Theorem: Necessary and Sufficient Conditions for Convergent Equilibrium", Review of Economic Studies, Vol. 74, Issue 3, pp. 965-980, July 2007
Tremonti G. (2008) “La Paura e la Speranza- Europa: la crisi globale che si avvicina e la via per superarla” Milano, Mondadori € 16
La pubblicazione, quasi in parallelo, del libro di Raimondo Cubeddu “Le Istituzioni e la Libertà” ad opera di LiberiLibri (la meritoria casa editrice di Macerata dedicata alla saggistica liberale) e del saggio di Giulio Tremonti “La Paura e la Speranza- Europa: la crisi globale che si avvicina e la via per superarla” potrebbe il punto di avvio per un dibattito sul futuro del liberalismo e politico e economico nel Vecchio Continente. I due libri sono arrivati nelle librerie poche settimane prima delle elezioni. Il primo puramente per caso. Il secondo per disegno: traccia infatti le grandi linee per una strategia europea in tema di integrazione economica internazionale. Ambedue sono usciti dopo la pubblicazione del saggio del Premio Nobel W. Robert Fogel su “capitalismo e democrazia nel 2040”; Cubeddu e Tremonti non lo citano e probabilmente non lo hanno letto.
Eppure è proprio dal lavoro di Fogel che vale la pena partire per porre i due lavori in un contesto appropriato. Fogel è, al tempo stesso, un econometrico ed uno storico dell’economia e dei sistemi politici: ha avuto il Nobel proprio perché coniugando i due strumenti è giunto alla dimostrazione inoppugnabili di alcuni paradossi (quale la situazione comparata di “benessere” degli schiavi di colore nelle piantagioni del Sud e degli operai nel manifatturiero nel Nord negli anni che precedettero la guerra di secessione americana).ù
Nel lavoro citato, Fogel non guarda al passato (con la cassetta degli attrezzi degli storici ma al futuro con quella del previsore uso all’impiego di modellistica avanzata). I 15 Stati che nel 2000 facevano parte dell’Ue non riusciranno – documenta- a tenere il passo dell’Asia. Nel 2040, a prezzi e cambi del 2000, la sola Cina avrà un pil di 123.000 miliardi di dollari (il triplo della produzione mondiale del 2000) ; l’India crescerà a tassi più contenuti a ragione di vincoli sia economici sia politici. “Il declino dell’Ue nella pil mondiale vuol dire la fiaccola di promuovere la democrazia liberale del mondo dovrà passare da un continente ormai vecchio e piccolo alle Nazioni liberali dell’Asia”. Fogel non ha certezze; ma mostra un buon grado di convincimento che il progresso economico porterà ad una sua migliore distribuzione e quindi all’affermazione di un pensiero politico e di un’economia liberale in Asia.
Cubeddu e Tremonti presentano visioni molto differenti da quella di Fogel e divergenti tra loro. Ambedue non vedono e neanche intravedono la possibilità di un’evoluzione liberale in Asia. Il secondo propone una difesa dell’identità europea che, in certe circostanze, contempli barriere alla frontiera nei confronti di quel “made in Asia” provenienti da Stati che non osservano le convenzioni di base stipulate nell’ambito dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro; in altra sede, ho dimostrato come tele posizione sia compatibili con i principi liberali tanto in filosofia politica quanto in economia. Il primo non solo respinge qualsiasi forma di interventismo economico (specialmente alla frontiera) “alla Tremonti” ma chiede un rafforzamento della politica come strumento per “ridurre l’incertezza”. In effetti, sia per Cubeddu sia per Tremonti “l’incertezza” è all’origine delle “paure” e del senso di sfiducia nei confronti dell’ordine liberale – caratteristiche oggi di molte società europee. Per Cudebbu una politica che non ha tenuto conto della discrepanza tra tempo individuale e tempo delle istituzioni è all’origine dell’attuale situazione di crisi del pensiero e dell’economia liberale in Europa: la risposta politica, quindi, deve venire da dentro di noi (l’Europa) ed essere rivolta principalmente a noi. Per Tremonti, invece, la determinante è l’aggressione non solo alla nostra produzione e consumo di beni e servizi ma alla nostra identità; la risposta politica deve venire – come per Cubeddu – da dentro di noi ma deve essere rivolta soprattutto fuori di noi. La teoria dell’elettore mediano – si guardi al saggio di Schofield – indica che i tempi sono stretti.
Si può tirare una conclusione? Oppure è preferibile avviare una discussione che porti a soluzioni operative nella prima parte della XVI Legislatura? Propenderei per la seconda ipotesi. Con due precisazioni: La prima è che, comunque, una risposta politica deve venire dall’Europa (che ha il compito di dimostrare a sé stessa ed agli altri di non essere un continente vecchio e , dunque, non più in grado di essere propositivo). La seconda viene dalla mia lunga esperienza in Asia: mentre la Cina non ha esperienza di democrazia liberale, l’India è stata in grado di far funzionare un sistema democratico-liberale anche nei lunghi periodi di programmazione centralizzata. Quindi, la previsione di Fogel merita di essere tenuta presente.
Riferimenti
Cubeddu R. (2007) “Le Istituzioni e la Libertà” pp.310, Macerata LiberiLibri € 14
Fogel W.R, (2007) "Capitalism and Democracy in 2040: Forecasts and Speculations"
NBER Working Paper No. W13184
Pennisi G. , Scandizzo P.L. (2004) “Valutare l’Incertezza” Torino, pp.422 Giappichelli € 40
Pennisi G. (2008) “Liberisti e Protezionisti” in corso di pubblicazione nel mensile “Formiche”
Schofield N. (2008) "The Mean Voter Theorem: Necessary and Sufficient Conditions for Convergent Equilibrium", Review of Economic Studies, Vol. 74, Issue 3, pp. 965-980, July 2007
Tremonti G. (2008) “La Paura e la Speranza- Europa: la crisi globale che si avvicina e la via per superarla” Milano, Mondadori € 16
QUANDO PERDE LA SINISTRA NON RICOSCE PIU' IL VALORE DELL'ARTE, L'Occidentale 27 aprile
Poco dopo la mezzanotte tra il 24 ed il 25 aprile, nell’elegante buffet organizzato (per la stampa e per un certo numero di ospiti) dal Teatro Lirico di Cagliari in occasione dell’inaugurazione della stagione, si udiva il brontolio della sinistra-che-perde. Gran parte della critica musicale dei quotidiani e periodici schierati a sinistra esprimeva disappunto nei confronti del lavoro messo in scena - “La leggenda della città invisibile di Kitež e della fanciulla Fevronija”, dramma mistisco in quattro atti su libretto di Vladimir Bel’skij e musica di Nikolaj Rimskij-Korsakov, realizzata in coproduzione con il Teatro Bolshoi di Mosca- e della regia del lituano Eimuntas Nekrosius. Poche le eccezioni: evidentemente, Paolo Isotta del “Corriere della Sera”, Lorenzo Tozzi de “Il Tempo”, il vostro chroniqueur e qualche altro.
Cosa si rimproverava? La lunghezza del lavoro, pur sfoltito dal maestro concertatore Alecander Vedernikov , direttore musicale del Bolshoi: dura circa 3 ore e mezzo, una di meno dei “Maestri cantori” wagneriani e poco più di numerose opere verdine. La staticità della drammaturgia? Suvvia, l’azione si dipana in una foresta (primo atto), una piazza di mercato ed una cattedrale (secondo atto), il Cremlino di un principato russo, una battaglia, il campo degli invasori tartari (terzo atto), una steppa ed il Paradiso (quarto atto). La regia di Nekrosius? Astratta, surreale, visionaria con poche reazioni al verismo.
Tutte critiche prive di vere basi. Quel che dà fastidio ad una certa sinistra che perde è, in primo luogo, che il Lirico di Cagliari è, con l’Opera di Roma ed il Massimo di Palermo, una delle tre fondazioni affidate a Sovrintendenti non legati ai loro gruppetti e gruppuscoli ma che dopo avere ereditato enti sull’orlo della bancarotta sono riusciti a risanarli, nell’arco di tre-quattro anni, senza ridurre la produzione e senza scendere a compromessi in materia di qualità. In secondo luogo – e questo è forse quello che a loro duole di più – è che l’opera di Rimskij-Korsakov , letta da Nekrosius, ha un nesso con quanto detto sul futuro dell’Europa dal Presidente della Lituania Vytautas Landsbergis , musicista a musicologo di fama internazionale, il 19 aprile in occasione della lettura annuale della Fondazione Magna-Carta: le radici cristiane come strumento per la crescita e per la libertà.
“La leggenda della città invisibile di Kitež e della fanciulla Fevronija” si distingue dal resto della sua produzione di Nikolaj Rimskij-Korsakov per la durata, la trasparenza orchestrale, il sinfonismo da grande organico wagneriano e la complessità vocale (richiede 18 solisti) ma anche perché è un’opera religiosa. Un musicologo sovietico, Petrovski, la ha chiamata “opera liturgica”. Il programma allegato ad un’esecuzione del 1956 a Mosca si chiedeva “E’ un Parsifal russo?”. Negli anni del leninismo e dello stalinismo, la Commissione per l’Ateismo discusse a lungo se il lavoro potesse essere rappresentato. Venne in parte modificato (eliminando i cori di ringraziamento a Dio) per poter andare in scena al Bolshoi nel 1926; da allora alla morte di Stalin in Russia la stessa versione modificata venne ripresa soltanto otto volte, mentre arrivò (in integrale) a Parigi, in Spagna, in Belgio ed alla Scala (nel 1933 e nel 1954 oltre che al Maggio Musicale Fiorentino del 1990).
Con un numero limitato di elementi Nekrosius e la sua quadra riescono a ricreare la foresta, la città piccola, la città grande, il lago, il campo tartaro, le steppe ed anche il Paradiso. Inoltre a differenza dell’approccio ieratico (e statico) della regia di Pizzi al Maggio Musicale del 1990, ogni azione per movimento scenico viene colta; ne risulta un ritmo incalzante (nei limiti che ciò è possibile in un’opera fiabesco-religiosa) , nonché una vera e propria messe di invenzioni. Il lavoro è co-prodotto dal Bolshoi d Mosca dove entra in repertorio il 10 ottobre ma è stato anche concepito per essere agevolmente portato in tournée. Quindi, la scenografia è scarna; ispirata alla pittura nordica (piuttosto che all’iconografia russa), con un omaggio a Piero della Francesca (i cappelli dei notabili), in modo che possa essere trasportata da un teatro all’altro. Ed a diffondere un messaggio non gradito alla sinistra-che-perde.
Cosa si rimproverava? La lunghezza del lavoro, pur sfoltito dal maestro concertatore Alecander Vedernikov , direttore musicale del Bolshoi: dura circa 3 ore e mezzo, una di meno dei “Maestri cantori” wagneriani e poco più di numerose opere verdine. La staticità della drammaturgia? Suvvia, l’azione si dipana in una foresta (primo atto), una piazza di mercato ed una cattedrale (secondo atto), il Cremlino di un principato russo, una battaglia, il campo degli invasori tartari (terzo atto), una steppa ed il Paradiso (quarto atto). La regia di Nekrosius? Astratta, surreale, visionaria con poche reazioni al verismo.
Tutte critiche prive di vere basi. Quel che dà fastidio ad una certa sinistra che perde è, in primo luogo, che il Lirico di Cagliari è, con l’Opera di Roma ed il Massimo di Palermo, una delle tre fondazioni affidate a Sovrintendenti non legati ai loro gruppetti e gruppuscoli ma che dopo avere ereditato enti sull’orlo della bancarotta sono riusciti a risanarli, nell’arco di tre-quattro anni, senza ridurre la produzione e senza scendere a compromessi in materia di qualità. In secondo luogo – e questo è forse quello che a loro duole di più – è che l’opera di Rimskij-Korsakov , letta da Nekrosius, ha un nesso con quanto detto sul futuro dell’Europa dal Presidente della Lituania Vytautas Landsbergis , musicista a musicologo di fama internazionale, il 19 aprile in occasione della lettura annuale della Fondazione Magna-Carta: le radici cristiane come strumento per la crescita e per la libertà.
“La leggenda della città invisibile di Kitež e della fanciulla Fevronija” si distingue dal resto della sua produzione di Nikolaj Rimskij-Korsakov per la durata, la trasparenza orchestrale, il sinfonismo da grande organico wagneriano e la complessità vocale (richiede 18 solisti) ma anche perché è un’opera religiosa. Un musicologo sovietico, Petrovski, la ha chiamata “opera liturgica”. Il programma allegato ad un’esecuzione del 1956 a Mosca si chiedeva “E’ un Parsifal russo?”. Negli anni del leninismo e dello stalinismo, la Commissione per l’Ateismo discusse a lungo se il lavoro potesse essere rappresentato. Venne in parte modificato (eliminando i cori di ringraziamento a Dio) per poter andare in scena al Bolshoi nel 1926; da allora alla morte di Stalin in Russia la stessa versione modificata venne ripresa soltanto otto volte, mentre arrivò (in integrale) a Parigi, in Spagna, in Belgio ed alla Scala (nel 1933 e nel 1954 oltre che al Maggio Musicale Fiorentino del 1990).
Con un numero limitato di elementi Nekrosius e la sua quadra riescono a ricreare la foresta, la città piccola, la città grande, il lago, il campo tartaro, le steppe ed anche il Paradiso. Inoltre a differenza dell’approccio ieratico (e statico) della regia di Pizzi al Maggio Musicale del 1990, ogni azione per movimento scenico viene colta; ne risulta un ritmo incalzante (nei limiti che ciò è possibile in un’opera fiabesco-religiosa) , nonché una vera e propria messe di invenzioni. Il lavoro è co-prodotto dal Bolshoi d Mosca dove entra in repertorio il 10 ottobre ma è stato anche concepito per essere agevolmente portato in tournée. Quindi, la scenografia è scarna; ispirata alla pittura nordica (piuttosto che all’iconografia russa), con un omaggio a Piero della Francesca (i cappelli dei notabili), in modo che possa essere trasportata da un teatro all’altro. Ed a diffondere un messaggio non gradito alla sinistra-che-perde.
mercoledì 23 aprile 2008
NEKROSIUS , REGIA DI UN GENIO, E-Polis 23 aprile
Per l’apertura del Festival di Sant’Efisio e della stagione lirica del Teatro Lirico di Cagliari, il mondo degli appassionati d’opera vola nell’isola da tutta Europa (e non solo) per un evento straordinario: il nuovo allestimento (co-prodotto con il Bolshoi di Mosca) de “La leggenda della città invisibile di Kitež e della fanciulla Fevronija”, di Nikolaj Rimskij-Korsakov, con regia del lituano Eimuntas Nekrosius. . L’occasione è doppiamente importante. In Italia ci sono state solo due rappresentazioni sceniche del lavoro- una alla Scala nel 1933 ed una al Maggio Musicale Fiorentino nel 1990. Inoltre, mentre i teatri d’opera della Penisola sono in bolletta ed alcuni rischiano d’essere commissariati, a Cagliari si è verificato un piccolo miracolo finanziario: il Lirico è stato portato da una fase di disavanzi sempre più acuti a quattro anni consecutivi di pareggio ed ad un recupero della situazione patrimoniale. Una svolta ottenuta senza tagli né al personale né alla programmazione (circa 300 spettacoli l’anno tra lirica, balletto e concerti) ma con un aumento degli abbonamenti (circa 12.000) e delle co-produzioni con grandi istituzioni.
Rimskij-Korsakov è conosciuto in Italia principalmente per le sue opere a carattere storico (quali “La sposa dello Zar” e “Ivan il Terribile”) o fantastico (quali “La fanciulla di neve” e “Sadko”) , per il suo gusto pittorico, per la ricchezza della sua orchestrazione. “La leggenda della città invisibile di Kitež e della fanciulla Fevronija” (di cui esiste una rara registrazione integrale effettuata per un’esecuzione alla radio russa nel 1956) non si distingue dal resto della sua produzione solo per la durata, il sinfonismo da grande organico wagneriano e la complessità vocale (richiede 18 solisti) ma anche perché è un’opera religiosa. Un musicologo sovietico, Petrovski, la ha chiamata “liturgica”. Negli anni del leninismo e dello stalinismo, la Commissione per l’Ateismo discusse a lungo se il lavoro potesse venir rappresentato. Venne in parte modificato (eliminando i cori di ringraziamento a Dio) per poter andare in scena al Bolshoi nel 1926; da allora alla morte di Stalin in Russia la stessa versione modificata è stata ripresa soltanto otto volte.
L’opera ruota attorno ai tentativi dei tartari di conquistare uno dei principati in cui allora si divideva quella che sarebbe diventata la Russia. Un tentativo evitato proprio grazie al miracolo che rende invisibile la capitale. L’opera è stata composta nel 1903-1905. In quegli anni, Rimskij-Korsakov aveva assunto posizioni sempre più critiche nei confronti del regime zarista, come avrebbe documentato il suo ultimo lavoro “Il gallo d’oro”, mordente satira laica dell’autoritarismo. Vennero accampate scuse e pretesti sulle difficoltà di messa in scena. “La leggenda della città invisibile di Kitež e della vergine Fevronij”per ritardare la prima esecuzione di un lavoro considerato tra i capolavori della musica slava.
BOX
Eimuntas Nekrošius è considerato uno tra i più famosi registi teatrali contemporanei a livello internazionale. Prima di diventare regista studiò come attore presso l'Istituto dell'Arte Teatrale Lunačarskij di Mosca, dove si diplomò nel 1978. Tornato in patria, lavorò e successivamente diresse il Teatro Giovanile di Stato di Vilnius, dove mise in scena alcuni suoi lavori. Pluripremiato in Lituania, ha avuto riconoscimenti internazionali come il Premio UBU -a lui aggiudicato per ben quattro volte-, il Premio Europa Nuove Realtà Teatrali, il Premio K.S. Stanislavskij. Beckmesser ne ha di recente gustato regie operistiche a Firenze (“Macbeth”), Venezia (“Boris Godunov”) e a Ravenna (“La Valchiria”). Sono caratterizzate da un tratto visionario e pittorico, particolarmente adatto la cui azione si dipana dalla foresta, alla piazza del mercato ed alla cattedrale della capitale di un principato medioevale e richiede effetti speciali per rendere “invisibile” all’assediante la città ed i suoi abitanti.
Rimskij-Korsakov è conosciuto in Italia principalmente per le sue opere a carattere storico (quali “La sposa dello Zar” e “Ivan il Terribile”) o fantastico (quali “La fanciulla di neve” e “Sadko”) , per il suo gusto pittorico, per la ricchezza della sua orchestrazione. “La leggenda della città invisibile di Kitež e della fanciulla Fevronija” (di cui esiste una rara registrazione integrale effettuata per un’esecuzione alla radio russa nel 1956) non si distingue dal resto della sua produzione solo per la durata, il sinfonismo da grande organico wagneriano e la complessità vocale (richiede 18 solisti) ma anche perché è un’opera religiosa. Un musicologo sovietico, Petrovski, la ha chiamata “liturgica”. Negli anni del leninismo e dello stalinismo, la Commissione per l’Ateismo discusse a lungo se il lavoro potesse venir rappresentato. Venne in parte modificato (eliminando i cori di ringraziamento a Dio) per poter andare in scena al Bolshoi nel 1926; da allora alla morte di Stalin in Russia la stessa versione modificata è stata ripresa soltanto otto volte.
L’opera ruota attorno ai tentativi dei tartari di conquistare uno dei principati in cui allora si divideva quella che sarebbe diventata la Russia. Un tentativo evitato proprio grazie al miracolo che rende invisibile la capitale. L’opera è stata composta nel 1903-1905. In quegli anni, Rimskij-Korsakov aveva assunto posizioni sempre più critiche nei confronti del regime zarista, come avrebbe documentato il suo ultimo lavoro “Il gallo d’oro”, mordente satira laica dell’autoritarismo. Vennero accampate scuse e pretesti sulle difficoltà di messa in scena. “La leggenda della città invisibile di Kitež e della vergine Fevronij”per ritardare la prima esecuzione di un lavoro considerato tra i capolavori della musica slava.
BOX
Eimuntas Nekrošius è considerato uno tra i più famosi registi teatrali contemporanei a livello internazionale. Prima di diventare regista studiò come attore presso l'Istituto dell'Arte Teatrale Lunačarskij di Mosca, dove si diplomò nel 1978. Tornato in patria, lavorò e successivamente diresse il Teatro Giovanile di Stato di Vilnius, dove mise in scena alcuni suoi lavori. Pluripremiato in Lituania, ha avuto riconoscimenti internazionali come il Premio UBU -a lui aggiudicato per ben quattro volte-, il Premio Europa Nuove Realtà Teatrali, il Premio K.S. Stanislavskij. Beckmesser ne ha di recente gustato regie operistiche a Firenze (“Macbeth”), Venezia (“Boris Godunov”) e a Ravenna (“La Valchiria”). Sono caratterizzate da un tratto visionario e pittorico, particolarmente adatto la cui azione si dipana dalla foresta, alla piazza del mercato ed alla cattedrale della capitale di un principato medioevale e richiede effetti speciali per rendere “invisibile” all’assediante la città ed i suoi abitanti.
DA EMINGRANTE A FINANZIARE. UN FILANTROPO PER VOCAZIONE, Il Tempo 23 aprile
Per capire chi è George Soros e perché è interessato anche al potenziale acquisto d’una squadra di calcio occorre non tanto leggere le sue biografie su come da povero emigrante diventò uno degli uomini più ricchi al mondo oppure sul ruolo da lui avuto nella tempesta monetaria dell’estate 1992, ma i suoi tre maggiori libri: “The Alchemy of Finance”, “Soros on Soros”, “The Bubble of American Supremacy” e soprattutto “The Crisis of Global Capitalism”. Nel primo, un godibile testo di alta divulgazione, Soros illustra i misteri della finanza con una prosa brillante ed un lessico accessibile a tutti. Il secondo appartiene al genere delle autobiografie con una punta di compiacimento, mirate, però, pure a difendersi dalle accuse di insider trading, rivolte contro di lui alla fine degli Anni 80, e di avere, nel 1992, fatto saltare gli accordi europei sui cambi (in gergo lo Sme, sistema monetario europeo) e portare la sterlina britannica e la lira italiana alla svalutazione. Il terzo (del 2004) è una filippica contro la politica estera (ma anche interna) di Bush.
Il quarto, anche se pubblicato ormai dieci anni fa, è ai nostri fini il più importante. Il libro anticipa sotto numerosi aspetti i temi, i problemi ed anche le soluzioni delineate di recente nella recente saggistica del Ministro dell’Economia e delle Finanze “in pectore”, Giulio Tremonti – specialmente il recente successo editoriale “La paura e la speranza”. Nel volume, che esce quasi in parallelo con l’intensificarsi delle attività filantropiche del finanziere (in campi molto diversificati – dall’incoraggiamento a studenti di colore alla sponsorizzazione di centri di ricerca in varie discipline, al supporto di studi filosofici), l’economia di mercato ed il processo di integrazione internazionale vengono sottoposti ad una serrata critica: se non “governati” comporterebbero continue instabilità finanziarie – come quella del 1992 (che pur coronò il vertice della sua ricchezza e del suo potere) e come quella attuale.
Cosa c’entra il calcio con tutto questo? A pp. 235-239 del libro di dieci anni, Soros traccia la “domestic agenda”, ossia il programma a cui vuole dedicare le sua attività all’interno degli Usa: sono in gran parte dirette ai giovani, e specialmente a quelli di famiglie a basso reddito, a creare per loro opportunità “dopo la scuola” indicando come tali occasioni possano estendersi anche al campo dello sport. L’indicazione non è esplicita ma si evince dal contesto del capitolo.
Resta un dubbio. Soros ha avuto grande successo come finanziare, imprenditore e filantropo, ed in ciascuna di queste attività non è stato un azionista silenzioso; è anzi intervenuto in singole operazioni. Come se la caverà con le tematiche specifiche di una squadra di calcio? Sempre che a 78 anni non decida di finanziarla ma guardarla solo con il cannocchiale.
Il quarto, anche se pubblicato ormai dieci anni fa, è ai nostri fini il più importante. Il libro anticipa sotto numerosi aspetti i temi, i problemi ed anche le soluzioni delineate di recente nella recente saggistica del Ministro dell’Economia e delle Finanze “in pectore”, Giulio Tremonti – specialmente il recente successo editoriale “La paura e la speranza”. Nel volume, che esce quasi in parallelo con l’intensificarsi delle attività filantropiche del finanziere (in campi molto diversificati – dall’incoraggiamento a studenti di colore alla sponsorizzazione di centri di ricerca in varie discipline, al supporto di studi filosofici), l’economia di mercato ed il processo di integrazione internazionale vengono sottoposti ad una serrata critica: se non “governati” comporterebbero continue instabilità finanziarie – come quella del 1992 (che pur coronò il vertice della sua ricchezza e del suo potere) e come quella attuale.
Cosa c’entra il calcio con tutto questo? A pp. 235-239 del libro di dieci anni, Soros traccia la “domestic agenda”, ossia il programma a cui vuole dedicare le sua attività all’interno degli Usa: sono in gran parte dirette ai giovani, e specialmente a quelli di famiglie a basso reddito, a creare per loro opportunità “dopo la scuola” indicando come tali occasioni possano estendersi anche al campo dello sport. L’indicazione non è esplicita ma si evince dal contesto del capitolo.
Resta un dubbio. Soros ha avuto grande successo come finanziare, imprenditore e filantropo, ed in ciascuna di queste attività non è stato un azionista silenzioso; è anzi intervenuto in singole operazioni. Come se la caverà con le tematiche specifiche di una squadra di calcio? Sempre che a 78 anni non decida di finanziarla ma guardarla solo con il cannocchiale.
ALITALIA, CON IL PRESTITO PRODI PASSA LA PALLA A BERLUSCONI , L'Occidentale 23 aprile
La vicenda Alitalia è giunta al capitolo, piuttosto insolito per una compagnia aerea, “ordine pubblico”. E per motivazioni di “ordine pubblico” e di “continuità territoriale” che il Consiglio dei Ministri ha approvato la concessione di un prestito a condizioni di mercato e da rimborsare entro la fine del 2008. Il prestito avrà l’effetto di tirare la patata bollente via dalle dita del Governo Prodi e passarla al Governo Berlusconi. Se tra due-tre settimane, non si troverà una soluzione tale da permettere di assicurare liquidità per 12 mesi si andrà a “licenza limitata” con taglio di numerose rotte ed aerei a terra. La “boccata d’ossigeno” è stata letta come il possibile avvio di una gamma di nuove soluzioni (ivi compreso l’eventuale ritorno in gioco di AirFrance-Klm)
Per valutarle occorre chiedersi se è’ un bene od un male il (non troppo lungo) “adieu” di AirFrance-Klm alle nozze con Alitalia. Per rispondere a questa domanda, si deve esaminare cosa ha mandato in fumo i fiori d’arancio e cosa abbia reso “rato ma non consumato” alcuni anni fa il matrimonio tra Alitalia e Klm e perché il partner olandese è stato pronto a versare una somma ingente pur di scappare dal letto, prima di rendere troppo stretto il rapporto. Dalle risposte a queste domande si può tentare di tratteggiare le possibili ipotesi per il futuro. Tenendo sempre presente che in 15 anni Alitalia ha cumulato disavanzi per 15 miliardi d’euro e che la sua percentuale del trasporto passeggeri interno (il mercato “protetto” o, in ogni caso, preferenziale) è passata dal 77% a meno del 40%. Una percentuale così bassa vuol dire – per chi si intende di economia dei trasporti- che manca il prodotto- ossia la rete, l’equilibrio tra corto, medio e lungo raggio, una flotta compatibile con la rete e con l’equilibrio tra le tratte, e via discorrendo – prima ancora della finanza, della capacità manageriali, delle relazioni industriali serene e via discorrendo. Così come una salumeria con gli scaffali senza affettati non resta aperta a lunga, una compagnia aerea priva di un prodotto di trasporto aereo non riesce ad operare.
Cerchiamo di spiegarlo senza entrare in tecnicismi economico-finanziari. Alla metà degli Anni 90, quando nuove tecnologie e l’ingresso delle “low cost” modificavano drasticamente il traffico aereo internazionale, l’Alitalia era troppo piccola per gareggiare con le grandi compagnie e troppo grande per diventare un’aerolinea europeo-regionale a basso costo. Sotto molti aspetti era complementare a Klm , che aveva un bacino d’utenza interno modesto tanto in atto quanto in potenza ed una buona rete internazionale, mentre AZ aveva un vasto ed appetibile bacino d’utenza ed una rete internazionale scarsa (dato che si era abituata ai cuscini delle tutele interne). La complementarità era alla base di un progetto di matrimonio con pari dignità tra i due partner. L’hub di Malpensa sarebbe stato l’asse portante del contratto nuziale perché meglio localizzata di Amsterdam (e con maggiore potenziale di sviluppo) per il lungo raggio. Perché Malpensa diventasse una vera “hub”, però, era necessaria non soltanto efficienza interna dell’aerostazione (rapidi di trasferimenti, ottimo servizio bagagli, ristorazione, ecc.) ma anche un sistema d’infrastrutture per assicurarne i collegamenti, la razionalizzazione degli aeroporti del Nord, ed una regia delle “onde” (questo è il termine tecnico) per l’afflusso ed il deflusso (anche con aerei relativamente piccoli) da aeroporti minori. Nonché , ovviamente, relazioni industriali tali da facilitare la transizione.
Tutti questi elementi sono venuti a mancare. L’efficienza interna di Malpensa ha sempre lasciato molto a desiderare. Le infrastrutture (autostrada, ferrovia) hanno subito ritardi enormi poiché si è scatenata la sindrome del Nimby (Not in my backyard). I comuni dell’area hanno protestato per il rumore tanto da ottenere sovvenzioni ad hoc. La stessa città di Milano ha insistito per anni perché Linate diventasse il Milan City Airport, analogo al National Airport di Washington, situato, per la comodità di senatori e deputati, a due passi dal Congresso. La razionalizzazione degli altri aeroporti del Nord non si è mai realizzata; al contrario, piccoli e medi aeroporti sono diventati scali sempre più importanti. Nella XIII Legislatura i Governi Prodi-D’Alema-Amato hanno emesso ben cinque decreti ministeriali ed uno del Presidente del Consiglio dei Ministri in materia di “onde”, dando a Klm (e non solo) non un senso di disorientamento ma la chiara idea che in Italia la politica dei trasporti si faceva burlando e che il progetto industriale non aveva i puntelli di base; era meglio scappare (e convolare a nozze con Air France) che restare a letto con Alitalia. Il matrimonio sarebbe stato non solo infruttuoso ma anche dannoso. La mano politica (a livello locale ma con riflessi nazionali) era impicciona e pasticciona; non prometteva di migliorare. Le suocere impiccione e pasticcione – lo sappiamo – sono tra le cause di divorzio più frequenti. La continua conflittualità sindacale ingrandiva gli effetti della mano politica impicciona e pasticciona ed a volte era proprio da quest’ultima aizzata a favore dei vari particolarismi di tipo Nimby.
Fallite le nozze con Klm, Alitalia ha tentato di volare da sola, ma la situazione peggiorava di giorno in giorno. Al di là delle alchimie finanziarie, il dilemma era: o diventare una low cost interna con qualche diramazione europea-regionale (chiudendo molti aeroporti tenuti in vita unicamente per localismi di piccolo cabotaggio) o cercare un nuovo partner. Non più – era chiaro a tutti – su base paritetica ma nella veste di socio minore. Salvaguardando le apparenze. Un po’ che la duchessa decaduta di “A’ la recherce du temps perdu” di Marcel Proust. Salvaguardare le apparenza voleva dire il marchio e l’uniforme, non “la strategia Malpensa” affossata in primo luogo dai concorrenti del Nord e dai milanesi, i quali preferiscono partire da Linate piuttosto che avventurarsi in un viaggio nel varesotto.
Quelle con AirFrance-Klm (dopo lo sconclusionato beauty contest e la scombinata “gara-non-gara”) erano, quindi, nozze riparatrici che, pur se in abito bianco (le apparenze), non avrebbero restituito la verginità perduta. A rendere il quadro ancora più complicato, il socialista cattolico Jean-Cyril Spinetta non mancava di rammentare all’Alitalia che la merce era ormai ridotta male; quasi come Alfredo tratta Violetta alla festa in casa di Flora nel secondo quadro del secondo atto della verdiana “Traviata”. Spinetta sottolineava che se voleva, Alitalia poteva andare all’altare con altri, ma che i pretendenti potenziali o, vista la situazione, se erano data a gambe o erano in condizioni analoghe a quelle di Alitalia e non certo in grado di offrire il prodotto che non c’è. Lufthansa è un esempio di chi è scappato. La cordata incentrata su AirOne non si formerà mai se sono vere le cifre dei bilanci consuntivi. La stessa Aeroflot si prenderebbe AZ soltanto se pressata da poteri politici della Federazione Russa.
A questo punto, perché il prestito non assomigli al ponte sul fiume Kwai e venga fatto saltare proprio da chi lo ha costruito, chiediamoci quali solo le possibilità realistiche. Lufthansa potrebbe essere interessata, anche per non restare sola in un momento di grandi fusioni (quali quella Delta-Northwestern) ma chi è nel mestiere da anni ed ha contatti con i tedeschi sa che la compagnia non vuole avere soci italiani non considerati. in Germania, all’altezza. Aeroflot – come spiegato più volte da L’Occidentale sin dalla primavera 2007– potrebbe avere obiettivi chiave di politica industriale, ma farebbe probabilmente condizioni pure peggiori di quelle AirFrance-Klm in termini di riduzione delle attività e degli organici. Un eventuale rientro in gioco di AirFranceKlm non sarebbe a termini più favorevoli di quelli presentati nelle ultime settimane.
Le mie impressioni sono meno ottimistiche di quelle presentate su “L’Occidentale” ieri. I problemi vengono da lontano e sono stati incancreniti nella XIII Legislatura. La XIV ha tentato di parare qualche falla con la ricapitalizzazione e gli esodi superincentivati nella speranza di attirare qualche corteggiatore. In poco tempo, la XIV Legislatura ha dato il colpo finale in cui, tra beauty contest e “gara-non-gara”, la politica impicciona e pasticciona è giunta al proprio apice.
La prospettiva più verosimile è il commissariamento, la riduzione delle rotte, la chiusura d’aeroporti ed i tagli agli organici. Il trasporto aereo è un settore delicato: Anche se in futuro non immediato Alitalia potrebbe avere la potenzialità di tornare ad essere tra le compagnie aree medio-grandi, la perdita degli slots minaccia di ridimensionarla per sempre. Già ora Malpensa, dove gli slots Alitalia sono stati venduti a compagnie low cost e di piccolo cabotaggio non è il più il sognato “hub” e neanche il “point-to-point” di livello ma uno scalo europeo-regionale.
Per valutarle occorre chiedersi se è’ un bene od un male il (non troppo lungo) “adieu” di AirFrance-Klm alle nozze con Alitalia. Per rispondere a questa domanda, si deve esaminare cosa ha mandato in fumo i fiori d’arancio e cosa abbia reso “rato ma non consumato” alcuni anni fa il matrimonio tra Alitalia e Klm e perché il partner olandese è stato pronto a versare una somma ingente pur di scappare dal letto, prima di rendere troppo stretto il rapporto. Dalle risposte a queste domande si può tentare di tratteggiare le possibili ipotesi per il futuro. Tenendo sempre presente che in 15 anni Alitalia ha cumulato disavanzi per 15 miliardi d’euro e che la sua percentuale del trasporto passeggeri interno (il mercato “protetto” o, in ogni caso, preferenziale) è passata dal 77% a meno del 40%. Una percentuale così bassa vuol dire – per chi si intende di economia dei trasporti- che manca il prodotto- ossia la rete, l’equilibrio tra corto, medio e lungo raggio, una flotta compatibile con la rete e con l’equilibrio tra le tratte, e via discorrendo – prima ancora della finanza, della capacità manageriali, delle relazioni industriali serene e via discorrendo. Così come una salumeria con gli scaffali senza affettati non resta aperta a lunga, una compagnia aerea priva di un prodotto di trasporto aereo non riesce ad operare.
Cerchiamo di spiegarlo senza entrare in tecnicismi economico-finanziari. Alla metà degli Anni 90, quando nuove tecnologie e l’ingresso delle “low cost” modificavano drasticamente il traffico aereo internazionale, l’Alitalia era troppo piccola per gareggiare con le grandi compagnie e troppo grande per diventare un’aerolinea europeo-regionale a basso costo. Sotto molti aspetti era complementare a Klm , che aveva un bacino d’utenza interno modesto tanto in atto quanto in potenza ed una buona rete internazionale, mentre AZ aveva un vasto ed appetibile bacino d’utenza ed una rete internazionale scarsa (dato che si era abituata ai cuscini delle tutele interne). La complementarità era alla base di un progetto di matrimonio con pari dignità tra i due partner. L’hub di Malpensa sarebbe stato l’asse portante del contratto nuziale perché meglio localizzata di Amsterdam (e con maggiore potenziale di sviluppo) per il lungo raggio. Perché Malpensa diventasse una vera “hub”, però, era necessaria non soltanto efficienza interna dell’aerostazione (rapidi di trasferimenti, ottimo servizio bagagli, ristorazione, ecc.) ma anche un sistema d’infrastrutture per assicurarne i collegamenti, la razionalizzazione degli aeroporti del Nord, ed una regia delle “onde” (questo è il termine tecnico) per l’afflusso ed il deflusso (anche con aerei relativamente piccoli) da aeroporti minori. Nonché , ovviamente, relazioni industriali tali da facilitare la transizione.
Tutti questi elementi sono venuti a mancare. L’efficienza interna di Malpensa ha sempre lasciato molto a desiderare. Le infrastrutture (autostrada, ferrovia) hanno subito ritardi enormi poiché si è scatenata la sindrome del Nimby (Not in my backyard). I comuni dell’area hanno protestato per il rumore tanto da ottenere sovvenzioni ad hoc. La stessa città di Milano ha insistito per anni perché Linate diventasse il Milan City Airport, analogo al National Airport di Washington, situato, per la comodità di senatori e deputati, a due passi dal Congresso. La razionalizzazione degli altri aeroporti del Nord non si è mai realizzata; al contrario, piccoli e medi aeroporti sono diventati scali sempre più importanti. Nella XIII Legislatura i Governi Prodi-D’Alema-Amato hanno emesso ben cinque decreti ministeriali ed uno del Presidente del Consiglio dei Ministri in materia di “onde”, dando a Klm (e non solo) non un senso di disorientamento ma la chiara idea che in Italia la politica dei trasporti si faceva burlando e che il progetto industriale non aveva i puntelli di base; era meglio scappare (e convolare a nozze con Air France) che restare a letto con Alitalia. Il matrimonio sarebbe stato non solo infruttuoso ma anche dannoso. La mano politica (a livello locale ma con riflessi nazionali) era impicciona e pasticciona; non prometteva di migliorare. Le suocere impiccione e pasticcione – lo sappiamo – sono tra le cause di divorzio più frequenti. La continua conflittualità sindacale ingrandiva gli effetti della mano politica impicciona e pasticciona ed a volte era proprio da quest’ultima aizzata a favore dei vari particolarismi di tipo Nimby.
Fallite le nozze con Klm, Alitalia ha tentato di volare da sola, ma la situazione peggiorava di giorno in giorno. Al di là delle alchimie finanziarie, il dilemma era: o diventare una low cost interna con qualche diramazione europea-regionale (chiudendo molti aeroporti tenuti in vita unicamente per localismi di piccolo cabotaggio) o cercare un nuovo partner. Non più – era chiaro a tutti – su base paritetica ma nella veste di socio minore. Salvaguardando le apparenze. Un po’ che la duchessa decaduta di “A’ la recherce du temps perdu” di Marcel Proust. Salvaguardare le apparenza voleva dire il marchio e l’uniforme, non “la strategia Malpensa” affossata in primo luogo dai concorrenti del Nord e dai milanesi, i quali preferiscono partire da Linate piuttosto che avventurarsi in un viaggio nel varesotto.
Quelle con AirFrance-Klm (dopo lo sconclusionato beauty contest e la scombinata “gara-non-gara”) erano, quindi, nozze riparatrici che, pur se in abito bianco (le apparenze), non avrebbero restituito la verginità perduta. A rendere il quadro ancora più complicato, il socialista cattolico Jean-Cyril Spinetta non mancava di rammentare all’Alitalia che la merce era ormai ridotta male; quasi come Alfredo tratta Violetta alla festa in casa di Flora nel secondo quadro del secondo atto della verdiana “Traviata”. Spinetta sottolineava che se voleva, Alitalia poteva andare all’altare con altri, ma che i pretendenti potenziali o, vista la situazione, se erano data a gambe o erano in condizioni analoghe a quelle di Alitalia e non certo in grado di offrire il prodotto che non c’è. Lufthansa è un esempio di chi è scappato. La cordata incentrata su AirOne non si formerà mai se sono vere le cifre dei bilanci consuntivi. La stessa Aeroflot si prenderebbe AZ soltanto se pressata da poteri politici della Federazione Russa.
A questo punto, perché il prestito non assomigli al ponte sul fiume Kwai e venga fatto saltare proprio da chi lo ha costruito, chiediamoci quali solo le possibilità realistiche. Lufthansa potrebbe essere interessata, anche per non restare sola in un momento di grandi fusioni (quali quella Delta-Northwestern) ma chi è nel mestiere da anni ed ha contatti con i tedeschi sa che la compagnia non vuole avere soci italiani non considerati. in Germania, all’altezza. Aeroflot – come spiegato più volte da L’Occidentale sin dalla primavera 2007– potrebbe avere obiettivi chiave di politica industriale, ma farebbe probabilmente condizioni pure peggiori di quelle AirFrance-Klm in termini di riduzione delle attività e degli organici. Un eventuale rientro in gioco di AirFranceKlm non sarebbe a termini più favorevoli di quelli presentati nelle ultime settimane.
Le mie impressioni sono meno ottimistiche di quelle presentate su “L’Occidentale” ieri. I problemi vengono da lontano e sono stati incancreniti nella XIII Legislatura. La XIV ha tentato di parare qualche falla con la ricapitalizzazione e gli esodi superincentivati nella speranza di attirare qualche corteggiatore. In poco tempo, la XIV Legislatura ha dato il colpo finale in cui, tra beauty contest e “gara-non-gara”, la politica impicciona e pasticciona è giunta al proprio apice.
La prospettiva più verosimile è il commissariamento, la riduzione delle rotte, la chiusura d’aeroporti ed i tagli agli organici. Il trasporto aereo è un settore delicato: Anche se in futuro non immediato Alitalia potrebbe avere la potenzialità di tornare ad essere tra le compagnie aree medio-grandi, la perdita degli slots minaccia di ridimensionarla per sempre. Già ora Malpensa, dove gli slots Alitalia sono stati venduti a compagnie low cost e di piccolo cabotaggio non è il più il sognato “hub” e neanche il “point-to-point” di livello ma uno scalo europeo-regionale.
martedì 22 aprile 2008
ALITALIA LA SCIALUPPA DI SALVATAGGIO SI ALLARGA, E-Polis 22 aprile
L’arrivo di Aeroflot al tavolo della trattativa tra Alitalia ed AirFrance-Klm (annunciato da Silvio Berlusconi e Vladimir Putin al termine del soggiorno del secondo a Villa Certosa in Sardegna) può essere interpretato in vari modi, differenti ma convergenti. Da un lato, il negoziato per il salvataggio di AZ si allarga : il tavolo resta uno solo ma con un partecipante in più. Da un altro, Aeroflot può contribuire a risolvere cosa fare con parte della flotta AZ (gli MD80) costosa e poco adatta per rotte brevi e da destinare a tratte europee, allargate all’enorme federazione russa- diminuirebbero gli esuberi dei piloti italiani da inviare sulle nuove rotte ed ad addestrare i colleghi russi. Da un altro ancora, quel-che- resta-di-AZ non solo il volano di un maxi-gruppo AirFranceKlm-Aeroflot-Alitalia nel Mediterraneo e per le tratte intercontinentali dall’Italia (e dal resto del Mare Nostrum) ma anche il ramo di lusso di una multinazionale con alcuni voli solo di prima e business class, cucina di grandi cuochi italiani, arredi super-comodi, uniformi designate dalle case d’ alta moda, tutti-i-gadget-che-l’ospite/passeggero-può-desiderare. E’ il lusso di cui ha bisogno una parte ingente della clientela Aeroflot (i magnati della Russia-che -può) ed anche una fetta di quella AirFranceKlm . Clienti, un tempo abituali di Alitalia, da anni cercato il lusso in altre compagnie (dati i servizi tanto a bordo quanto a terra offerti da AZ) ma potrebbero tornare. Lo dice Tyron Brülé, direttore di “The Monocle” il mensile internazionale del lusso.
Pura fantasia? In mondo in cui le compagnie aree – si guardi a Delta-Northwstern – si fondono per reggere la concorrenza, le complementarità potrebbero dare buoni risultati. Il nodo è la cabina di regia: come gestire un conglomerato d’aziende con culture così profondamente differenti?
Ma Aeroflot (che ha subito una drastica riorganizzazione) aveva una cultura così profondamente diversa da AZ? Negli Anni 70, vi ho volato frequentemente in tratte africane e da Washington a Parigi. Nelle tratte africane, aerei un po’ vecchiotti ma con le poltrone ed i finestrini della prima classe immerlettati. La Washington-Parigi (e ritorno) aveva il vantaggio per una famiglia con bambini: le hostess-matrioske se ne prendevano cura in volo, anche facendoli giocare. La cultura dei dipendenti (prima della riorganizzazione) era quella di considerare la compagnia il loro ammortizzatore sociale. Un po’ come quella dei dipendenti AZ.
Pura fantasia? In mondo in cui le compagnie aree – si guardi a Delta-Northwstern – si fondono per reggere la concorrenza, le complementarità potrebbero dare buoni risultati. Il nodo è la cabina di regia: come gestire un conglomerato d’aziende con culture così profondamente differenti?
Ma Aeroflot (che ha subito una drastica riorganizzazione) aveva una cultura così profondamente diversa da AZ? Negli Anni 70, vi ho volato frequentemente in tratte africane e da Washington a Parigi. Nelle tratte africane, aerei un po’ vecchiotti ma con le poltrone ed i finestrini della prima classe immerlettati. La Washington-Parigi (e ritorno) aveva il vantaggio per una famiglia con bambini: le hostess-matrioske se ne prendevano cura in volo, anche facendoli giocare. La cultura dei dipendenti (prima della riorganizzazione) era quella di considerare la compagnia il loro ammortizzatore sociale. Un po’ come quella dei dipendenti AZ.
COSI' LA OLD LADY TORNA INDIETRO NEL TEMPO, Libero 22 aprile
COSI’ LA OLD LADY TORNA INDIETRO NEL TEMPO
Vi ricordate “La vielle dame indigne”, il film del 1965 che, tratto da una novella di Bertold Brecht, riportò sugli schermo a 70 anni di età una delle attrici più affascinanti degli Anni 40 (Sylvie), fu un successo enorme di critica e di cassetta e diede una (breve) fama al suo autore (René Allio)? Raccontava di un’anziana signora che diventava vedova dopo una vita di ristrettezze (ed abbandonata a se stessa dai figli presi dai loro problemi di carriera e di famiglia) compra, con l’eredità del defunto, l’utilitaria per eccellenza dell’epoca (la deux cheveux) ed in compagnia con la giovane badante vive due anni di follie in giro per la Francia, prima di passare a miglior vita.
Auguriamoci che non ci sia un nesso tra “la vielle dame” e la “Old Lady”, il nomignolo affettuoso con il quale i sudditi di Sua Maestà Britannica chiamano la Bank of England, ossia la Banca centrale del Regno Unito. Di birichinate, la “Old Lady” ne sta facendo tante da quando è iniziata quella colloquialmente chiamata “la crisi subprime”: tiene alti i tassi d’interesse nonostante la flessione della crescita reale (pur se in Gran Bretagna viaggia all’1,8% rispetto al nostro misero 0,3%), inietta liquidità nel sistema bancario mirando principalmente ad arbitraggisti ed ad istituti spericolati, ha orchestrato il salvataggio di una Northern Rock, che, per seguire uno dei passi del Vangelo letto con frequenza alle funzioni Anglicane, è stata edificata sulla sabbia, invece che sulla roccia. Sono birichinate che molti hanno accettato sia perché , come alla “vielle dame indigne”, ad una “Old Lady” si guarda con simpatia specialmente quando fa la scavezzacollo in una fase di complicazioni (sui mercati) come l’attuale.
Tuttavia, oggi 21 aprile la “Old Lady” ha annunciato un intervento di vasta portata (50-100 miliardi di sterline) che rappresenterebbe un cambiamento profondo nella politica di una Banca centrale: un programma (pluriennale) di scambio tra obbligazioni garantite dal Tesoro di Sua Maestà e titoli di banche del Regno Uniti la cui garanzia reale sarebbero “pacchetti” di contratti di mutui (un può prime, un po’ di media qualità, un po’ subprime). Chi ha la prassi di pensare male (ed azzeccarci, di tanto in tanto) ha notato un corsivo su “The Economist” di venerdì aprile sulla bassa valorizzazione delle azioni bancarie; come dire che la garanzia sarebbe doppia – i “pacchetti” di mutui e, se del caso, partecipazioni bancarie a buon mercato. Abbastanza da fare pensare a qualcosa che supera la birichinata o la marachella e che riporta il “central banking” indietro di decenni – quando i banchieri centrali avevano la tendenza di impicciarsi troppo nei temi e problemi dei singoli istituti di credito – una tendenza che nell’area dell’euro è vietata dai trattati sulla moneta unica.
Maggiori dettagli verranno senza dubbio forniti nel Financial Stability Report che la “Old Lady” pubblica ogni semestre. Il sito della Banca non indica quando sarà diramato il prossimo rapporto: un rispetto rigoroso della puntualità indicherebbe giovedì 24 aprile (giorno il cui, per mera coincidenza, a Francoforte si riunisce il Consiglio della Bce). La scadenza non è fissa; il documento potrebbe essere diffuso anche con un paio di giorni di ritardo, specialmente se all’interno dell’istituzione si discute ancora sul programma.
Se la “Old Lady” tentenna (quanto meno sulle specifiche tecniche), sarebbe utile che la Bce la aiutasse a traversare la strada. Non solo misure del genere di quelle trapelate in indiscrezioni verosimilmente fatte uscire ad arte (per testare i mercati) sono vietate nell’unione monetarie, la l’Ing. Jean-Claude Trichet (che è alla guida della Banca centrale europea) ha tenuto, in più occasioni, ad affermare la sua netta opposizione a programmi di questa natura. Un’indicazione dal Consiglio Bce potrebbe essere redatta senza sembrare un’invasione di campo ma un’applicazione degli auspici del “rapporto Draghi” presentato dieci giorni fa al G7 ed al Fondo monetario internazionale. Il silenzio, al contrario, vorrebbe dire che il “rapporto Draghi” viene già ignorato, o che è già finito nel cestino.
Senza dubbio c’è il problema d’istituti invischiatesi in dosi eccessive di “subprime”; però, i salvataggi effettuati da banche centrali, ed istituzionalizzati in un “programma”, non solo riportano l’orologio indietro ma innescano un “azzardo morale” tale da inquinare il funzionamento dei mercati. La vicenda Nortern Rock – ci auguriamo – deve essere considerata l’eccezione che conferma la regola. Non lo sgabello (traballante) su cui costruire nuove regole (per di più pasticciate).
Per saperne di più
Crow Chr,, Meade E.E. “The Evolution of Central Bank Governance around the World”, “The Journal of Economic Perspectives” Fall 2007
Magnifico G. “L’Euro: ragioni e lezioni di un successo sofferto” Luiss University Press 2005
Vi ricordate “La vielle dame indigne”, il film del 1965 che, tratto da una novella di Bertold Brecht, riportò sugli schermo a 70 anni di età una delle attrici più affascinanti degli Anni 40 (Sylvie), fu un successo enorme di critica e di cassetta e diede una (breve) fama al suo autore (René Allio)? Raccontava di un’anziana signora che diventava vedova dopo una vita di ristrettezze (ed abbandonata a se stessa dai figli presi dai loro problemi di carriera e di famiglia) compra, con l’eredità del defunto, l’utilitaria per eccellenza dell’epoca (la deux cheveux) ed in compagnia con la giovane badante vive due anni di follie in giro per la Francia, prima di passare a miglior vita.
Auguriamoci che non ci sia un nesso tra “la vielle dame” e la “Old Lady”, il nomignolo affettuoso con il quale i sudditi di Sua Maestà Britannica chiamano la Bank of England, ossia la Banca centrale del Regno Unito. Di birichinate, la “Old Lady” ne sta facendo tante da quando è iniziata quella colloquialmente chiamata “la crisi subprime”: tiene alti i tassi d’interesse nonostante la flessione della crescita reale (pur se in Gran Bretagna viaggia all’1,8% rispetto al nostro misero 0,3%), inietta liquidità nel sistema bancario mirando principalmente ad arbitraggisti ed ad istituti spericolati, ha orchestrato il salvataggio di una Northern Rock, che, per seguire uno dei passi del Vangelo letto con frequenza alle funzioni Anglicane, è stata edificata sulla sabbia, invece che sulla roccia. Sono birichinate che molti hanno accettato sia perché , come alla “vielle dame indigne”, ad una “Old Lady” si guarda con simpatia specialmente quando fa la scavezzacollo in una fase di complicazioni (sui mercati) come l’attuale.
Tuttavia, oggi 21 aprile la “Old Lady” ha annunciato un intervento di vasta portata (50-100 miliardi di sterline) che rappresenterebbe un cambiamento profondo nella politica di una Banca centrale: un programma (pluriennale) di scambio tra obbligazioni garantite dal Tesoro di Sua Maestà e titoli di banche del Regno Uniti la cui garanzia reale sarebbero “pacchetti” di contratti di mutui (un può prime, un po’ di media qualità, un po’ subprime). Chi ha la prassi di pensare male (ed azzeccarci, di tanto in tanto) ha notato un corsivo su “The Economist” di venerdì aprile sulla bassa valorizzazione delle azioni bancarie; come dire che la garanzia sarebbe doppia – i “pacchetti” di mutui e, se del caso, partecipazioni bancarie a buon mercato. Abbastanza da fare pensare a qualcosa che supera la birichinata o la marachella e che riporta il “central banking” indietro di decenni – quando i banchieri centrali avevano la tendenza di impicciarsi troppo nei temi e problemi dei singoli istituti di credito – una tendenza che nell’area dell’euro è vietata dai trattati sulla moneta unica.
Maggiori dettagli verranno senza dubbio forniti nel Financial Stability Report che la “Old Lady” pubblica ogni semestre. Il sito della Banca non indica quando sarà diramato il prossimo rapporto: un rispetto rigoroso della puntualità indicherebbe giovedì 24 aprile (giorno il cui, per mera coincidenza, a Francoforte si riunisce il Consiglio della Bce). La scadenza non è fissa; il documento potrebbe essere diffuso anche con un paio di giorni di ritardo, specialmente se all’interno dell’istituzione si discute ancora sul programma.
Se la “Old Lady” tentenna (quanto meno sulle specifiche tecniche), sarebbe utile che la Bce la aiutasse a traversare la strada. Non solo misure del genere di quelle trapelate in indiscrezioni verosimilmente fatte uscire ad arte (per testare i mercati) sono vietate nell’unione monetarie, la l’Ing. Jean-Claude Trichet (che è alla guida della Banca centrale europea) ha tenuto, in più occasioni, ad affermare la sua netta opposizione a programmi di questa natura. Un’indicazione dal Consiglio Bce potrebbe essere redatta senza sembrare un’invasione di campo ma un’applicazione degli auspici del “rapporto Draghi” presentato dieci giorni fa al G7 ed al Fondo monetario internazionale. Il silenzio, al contrario, vorrebbe dire che il “rapporto Draghi” viene già ignorato, o che è già finito nel cestino.
Senza dubbio c’è il problema d’istituti invischiatesi in dosi eccessive di “subprime”; però, i salvataggi effettuati da banche centrali, ed istituzionalizzati in un “programma”, non solo riportano l’orologio indietro ma innescano un “azzardo morale” tale da inquinare il funzionamento dei mercati. La vicenda Nortern Rock – ci auguriamo – deve essere considerata l’eccezione che conferma la regola. Non lo sgabello (traballante) su cui costruire nuove regole (per di più pasticciate).
Per saperne di più
Crow Chr,, Meade E.E. “The Evolution of Central Bank Governance around the World”, “The Journal of Economic Perspectives” Fall 2007
Magnifico G. “L’Euro: ragioni e lezioni di un successo sofferto” Luiss University Press 2005
lunedì 21 aprile 2008
ALEMANNO HA UNA SCALA, RUTELLI UNA SOLA CARTA Il Tempo 21 aprile
Ad una settimana dal ballottaggio, la contesa tra Rutelli ed Alemanno si presenta in modo differente della mattina del 15 aprile. Non ho la sfera di cristallo degli astrologi. Neanche l’acume e le risorse di chi fa, di professione, sondaggi su questo o su quello, per conto di Tizio o Caio. Da economista, utilizzo strumenti del mestiere quali la teoria dei giochi, materie che sembrano arcane ma che fa sono state rese accessibili a tutti dal film di successo “A Beautiful Mind” sul Premio Nobel John Nash.
La disfida è una partita di poker su più tavoli e senza che i giocatori conoscano il pensiero degli avversari. Su un tavolo la posta è come e quanto “incidere” sull’esito elettorale (stringendo alleanze od impedendolo all’avversario). Sull’altro, la posta è la “popolarità” nei confronti del proprio bacino elettorale. La maestria sta nel trovare un equilibrio dinamico tra “incidenza” e “popolarità”.– per entrare vincitore nell’aula di Giulio Cesare e restarvi quattro anni.
Al tavolo dell’”incidenza”, Rutelli ha detto “vedo”, ostentando il suo tris di fiori (il 46% del voto al primo turno) ad un Casini, che ha risposto “picche”, dando libertà di scelta al proprio bacino elettorale. Ciò ha avuto un costo opportunità (nel lessico degli economisti) elevato al tavolo della “popolarità” dove, guidati da “Tarzan” (nome di battaglia di un leader del sinedrio dell’Arcobaleno), parte di coloro che , il 13-14 aprile, gli hanno dato un buon 5,6% del voto si sono ribellati. L’esito potrebbe essere una perdita secca, al tavolo della “popolarità”, senza guadagnare neanche un mozzico (per dirla alla romana) del 4% che ha votato Udc. Ha sbagliato anche la seconda mossa: il “vedo”, con “apparentamento; con la “lista Baldi”, il cui leader è stato per lustri personaggio di spicco di An e di recente capogruppo di Forza Italia in Campidoglio. Il risultato estremo sarebbe una perdita durissima al tavolo dell’”incidenza”, spostando il 4% dell’Udc e parte dei 13.000 voti ottenuti da Baldi (da un bacino di destra) al Pdl.
Alla prima mano, al tavolo dell’”incidenza”, Alemanno ha non ha mostrato le carte; lo ha fatto la controparte annunciando il proprio appoggio. Alemanno non ha perso nulla al tavolo della “popolarità” e potrebbe contare su una “scala”. Magari una “scala reale”, se trascina, oltre a parte de “La Destra” e dei “baldiani”, altri in ordine sparso, e se convince elettori dell’Udc ad entrare nella carovana per il Campidoglio.
La partita di ancora aperta. Oggi non è più in vantaggio che brindava la notte del 14 aprile. La carta vincente di Rutelli potrebbe essere quella d’Enrico di Navarra (quello di “Parigi val bene una Messa”). Alleato di Baldi, con un Arcobaleno scontento, con una Roma sempre più preoccupata per la sicurezza di persone e cose, dovrebbe fare abiura nei confronti dell’Amministrazione Veltroni e lasciare il PD per presentarsi come Sindaco senza bandiere e di tutti i romani. Tanto dice la teoria dei giochi. Seguirà il consiglio?
La disfida è una partita di poker su più tavoli e senza che i giocatori conoscano il pensiero degli avversari. Su un tavolo la posta è come e quanto “incidere” sull’esito elettorale (stringendo alleanze od impedendolo all’avversario). Sull’altro, la posta è la “popolarità” nei confronti del proprio bacino elettorale. La maestria sta nel trovare un equilibrio dinamico tra “incidenza” e “popolarità”.– per entrare vincitore nell’aula di Giulio Cesare e restarvi quattro anni.
Al tavolo dell’”incidenza”, Rutelli ha detto “vedo”, ostentando il suo tris di fiori (il 46% del voto al primo turno) ad un Casini, che ha risposto “picche”, dando libertà di scelta al proprio bacino elettorale. Ciò ha avuto un costo opportunità (nel lessico degli economisti) elevato al tavolo della “popolarità” dove, guidati da “Tarzan” (nome di battaglia di un leader del sinedrio dell’Arcobaleno), parte di coloro che , il 13-14 aprile, gli hanno dato un buon 5,6% del voto si sono ribellati. L’esito potrebbe essere una perdita secca, al tavolo della “popolarità”, senza guadagnare neanche un mozzico (per dirla alla romana) del 4% che ha votato Udc. Ha sbagliato anche la seconda mossa: il “vedo”, con “apparentamento; con la “lista Baldi”, il cui leader è stato per lustri personaggio di spicco di An e di recente capogruppo di Forza Italia in Campidoglio. Il risultato estremo sarebbe una perdita durissima al tavolo dell’”incidenza”, spostando il 4% dell’Udc e parte dei 13.000 voti ottenuti da Baldi (da un bacino di destra) al Pdl.
Alla prima mano, al tavolo dell’”incidenza”, Alemanno ha non ha mostrato le carte; lo ha fatto la controparte annunciando il proprio appoggio. Alemanno non ha perso nulla al tavolo della “popolarità” e potrebbe contare su una “scala”. Magari una “scala reale”, se trascina, oltre a parte de “La Destra” e dei “baldiani”, altri in ordine sparso, e se convince elettori dell’Udc ad entrare nella carovana per il Campidoglio.
La partita di ancora aperta. Oggi non è più in vantaggio che brindava la notte del 14 aprile. La carta vincente di Rutelli potrebbe essere quella d’Enrico di Navarra (quello di “Parigi val bene una Messa”). Alleato di Baldi, con un Arcobaleno scontento, con una Roma sempre più preoccupata per la sicurezza di persone e cose, dovrebbe fare abiura nei confronti dell’Amministrazione Veltroni e lasciare il PD per presentarsi come Sindaco senza bandiere e di tutti i romani. Tanto dice la teoria dei giochi. Seguirà il consiglio?
domenica 20 aprile 2008
CHIEDETE A PUCCINI SE LA FANCIULLA E’ DEL SESSO DEBOLE, L'Occidentale 20 aprile
"La ragazza con la pistola” di Mario Monicelli prodotto nell’anno di grazia (e poca giustizia) 1968 con una splendida Monica Vitti torna, di tanto in tanto, sui teleschermi, specialmente dei canali digitali. E’ una commedia che prende in giro “Divorzio all’italiana” di Pietro Germi (annata 1961). La ragazza, sedotta ed abbandonata nella Sicilia Anni Sessanta, non si dà per vinta. Con una pistola nella borsetta, va a Londra (dove il seduttore fa il portabarelle in un ospedale) e riesce, con le brutte più che con le belle, a mettere a posto la questione.
La direste una “fanciulla fragile”? Assolutamente no! Tuttavia, alle protagoniste delle opere di Giacomo Puccini (di cui ricorrono i 150 anni dalla nascita) viene sempre appioppato l’aggettivo “fragile”. “Manon Lescaut” – lo sappiamo – ne fa di cotte e di crude (rubando gioielli e argenteria tra un amante e l’altro) prima di finire nel deserto della Luisiana. “Tosca” ammazza a coltellate il capo della polizia in quel di Palazzo Farnese, mentre la Regina di Napoli dà un banchetto e Napoleone vince la battaglia di Marengo. Giorgetta (de “Il tabarro”) fa l’amore quasi di fronte al proprio marito. “Suor Angelica” non ha paura di andare all’inferno suicidandosi. “Madama Butterfly” fa, stoicamente, hara-hiri. “Turandot”, invece, se la spassa a far decapitare i propri innamorati.
E Minnie de “La fanciulla del West” in scena a Roma (dopo venti anni d’assenza dalla capitale? bara a poker: la posta è il suo uomo Dick (ed evitare di andare a letto con lo sceriffo Jack). Quando tutti si accorgono che a ragione della cattiveria del Fato e della malignità umana, Dick fa l’onorata professione del ladro di cavalli e dell’oro scavato a dura fatica dai minitori, decidono, perciò, di impiccarlo sulla pubblica piazza del villaggio, la “fragile” “fanciulla” salta sul proprio destriero e con la carabina spianato si riprende il giovanotto (specificando che appartiene a lei, ed a Dio) impegnandosi di andare a giuste nozze (i DICO non erano di moda ai tempi della febbre dell’oro) e di lasciare, per sempre, la California. Nel primo atto era entrata in scena (la “cavatina” in lessico operistico) con la carabina puntata per sedera una rissa tra minatori. Proprio tanto fragile da fare tenerezza.
Sulla fragilità della rappresentazione del “genere debole” nelle convenzioni operistiche, Catherine Clément, allieva dell’Ecole Normale Superieure, prediletta da Lévi-Strauss, scrisse un saggio di 360 pagine (“L’Opéra ou la défaite des femmes”, “L’opera o la disfatta delle donne”). Lo pubblicò Gallimard nel 1979, epoca di femminismo imperante ed imperversante. Fu prontamente tradotto in italiano per i tipi di Marsilio. Ne sono al centro non soltanto le delicate fanciulle pucciniane ma anche le donne wagneriane, considerate “forti per finta”. Negli Anni Ottanta, i registi facevano a gara a mostrare ancora più debole quello che Simone de Beauvoir chiamava “il secondo sesso”.
Il Teatro dell’Opera di Roma ha in scena in questi giorni proprio “La fanciulla del West” in un allestimento co.prodotto con la Los Angeles Opera – lì nella California del Sud di donne fragili non so quanto se ne intendano. Senza in questo allestimento (regista Giancarlo Del Monaco), la protagonista Daniela Dessì non dà alcuna idea di fragilità : canta cavalcando un destriero bianco- il suo innamorato Fabio Armiliano (se fosse biondo e si pettinasse assomiglierebbe a Alan Ladd ne “Il cavaliere della valle solitaria”) ne cavalca uno nero; ha ispessito la voce sino a giungere a vette wagneriane (Emmy Destinn, per cui Puccini pensò il ruolo, era cantante wagneriana); ha un volume con cui riempie la vasta sala del Costanzi senza mai un cedimento. E’ chiaramente “in comando” del suo uomo, dello sceriffo, dei minatori, degli indiani e del servizio postale-bancario Wells Fargo. L’applausometro ha premiato Armiliato perché il tenore ha la sola aria (bissata a grande richiesta) dell’opera. Ma è chiaro che appena calato il sipario, la gentil fanciulla dirà a lui cosa preparare per cena.
La direste una “fanciulla fragile”? Assolutamente no! Tuttavia, alle protagoniste delle opere di Giacomo Puccini (di cui ricorrono i 150 anni dalla nascita) viene sempre appioppato l’aggettivo “fragile”. “Manon Lescaut” – lo sappiamo – ne fa di cotte e di crude (rubando gioielli e argenteria tra un amante e l’altro) prima di finire nel deserto della Luisiana. “Tosca” ammazza a coltellate il capo della polizia in quel di Palazzo Farnese, mentre la Regina di Napoli dà un banchetto e Napoleone vince la battaglia di Marengo. Giorgetta (de “Il tabarro”) fa l’amore quasi di fronte al proprio marito. “Suor Angelica” non ha paura di andare all’inferno suicidandosi. “Madama Butterfly” fa, stoicamente, hara-hiri. “Turandot”, invece, se la spassa a far decapitare i propri innamorati.
E Minnie de “La fanciulla del West” in scena a Roma (dopo venti anni d’assenza dalla capitale? bara a poker: la posta è il suo uomo Dick (ed evitare di andare a letto con lo sceriffo Jack). Quando tutti si accorgono che a ragione della cattiveria del Fato e della malignità umana, Dick fa l’onorata professione del ladro di cavalli e dell’oro scavato a dura fatica dai minitori, decidono, perciò, di impiccarlo sulla pubblica piazza del villaggio, la “fragile” “fanciulla” salta sul proprio destriero e con la carabina spianato si riprende il giovanotto (specificando che appartiene a lei, ed a Dio) impegnandosi di andare a giuste nozze (i DICO non erano di moda ai tempi della febbre dell’oro) e di lasciare, per sempre, la California. Nel primo atto era entrata in scena (la “cavatina” in lessico operistico) con la carabina puntata per sedera una rissa tra minatori. Proprio tanto fragile da fare tenerezza.
Sulla fragilità della rappresentazione del “genere debole” nelle convenzioni operistiche, Catherine Clément, allieva dell’Ecole Normale Superieure, prediletta da Lévi-Strauss, scrisse un saggio di 360 pagine (“L’Opéra ou la défaite des femmes”, “L’opera o la disfatta delle donne”). Lo pubblicò Gallimard nel 1979, epoca di femminismo imperante ed imperversante. Fu prontamente tradotto in italiano per i tipi di Marsilio. Ne sono al centro non soltanto le delicate fanciulle pucciniane ma anche le donne wagneriane, considerate “forti per finta”. Negli Anni Ottanta, i registi facevano a gara a mostrare ancora più debole quello che Simone de Beauvoir chiamava “il secondo sesso”.
Il Teatro dell’Opera di Roma ha in scena in questi giorni proprio “La fanciulla del West” in un allestimento co.prodotto con la Los Angeles Opera – lì nella California del Sud di donne fragili non so quanto se ne intendano. Senza in questo allestimento (regista Giancarlo Del Monaco), la protagonista Daniela Dessì non dà alcuna idea di fragilità : canta cavalcando un destriero bianco- il suo innamorato Fabio Armiliano (se fosse biondo e si pettinasse assomiglierebbe a Alan Ladd ne “Il cavaliere della valle solitaria”) ne cavalca uno nero; ha ispessito la voce sino a giungere a vette wagneriane (Emmy Destinn, per cui Puccini pensò il ruolo, era cantante wagneriana); ha un volume con cui riempie la vasta sala del Costanzi senza mai un cedimento. E’ chiaramente “in comando” del suo uomo, dello sceriffo, dei minatori, degli indiani e del servizio postale-bancario Wells Fargo. L’applausometro ha premiato Armiliato perché il tenore ha la sola aria (bissata a grande richiesta) dell’opera. Ma è chiaro che appena calato il sipario, la gentil fanciulla dirà a lui cosa preparare per cena.
sabato 19 aprile 2008
A CAGLIARI L'OPERA RELIGIOSA SGRADITA A STALIN
Giovedì 24 aprile si inaugura la stagione 2008 del Teatro Lirico di Cagliari con “La leggenda della città invisibile di Kitež e della fanciulla Fevronija”, opera in quattro atti su libretto di Vladimir Bel’skij e musica di Nikolaj Rimskij-Korsakov, realizzata in coproduzione con il Teatro Bolshoi di Mosca per la regia del lituano Eimuntas Nekrosius. Una coproduzione, che è di per sé stessa un evento, di un’opera che in Italia è stata messa in scena solamente due volte , nel 1933 alla Scala e nel 1990 al Maggio Musicale Fiorentino. Negli anni bui del comunismo, nell’Urss venne rappresentata di rado (e con modifiche apportate dalla burocrazia) perché è un lavoro profondamente religioso di un Rimskij-Korsakov, anziano ed in polemica con l’assolutismo zarista (di cui quello di Lenin, Stalin e Breznev era l’erede).
E’ quindi un’operazione culturale importante che , si prevede, porterà a Cagliari circa 70 critici musicali di tutto il mondo. Corona anche quattro anni da quando Maurizio Pietrantonio, un musicista di rilievo (e componente del Comitato Promotore della Fondazione Fare Futuro) è stato nominato Sovrintendente del Teatro Lirico del capoluogo della Sardegna. In questo periodo, la fondazione lirica è giunta al pareggio del bilancio e di forte recupero del pregresso debito patrimoniale, nonostante avesse ereditato una situazione economica sull’orlo del commissariamento. La nuova gestione non ha comportato tagli al personale, non ha intaccato il numero e la qualità delle produzioni, non ha privato il teatro della presenza nelle sue programmazioni di grandi personalità artistiche. Il cartellone 2008 prevede circa trecento gli spettacoli inseriti in stagione tra opera, concerti, attività di decentramento e scolastiche.Il numero degli abbonati è in aumento costante: oltre 12.000 alla vigilia dell’inizio della stagione. Pietrantonio non ha rinunciato alla qualità o abbassato il profilo dell’offerta artistica, ma ha sfruttare le risorse interne al Teatro e si è affidato con intelligenza al sistema delle coproduzioni per restare accreditati a livello internazionale e continuare a portare in scena spettacoli di interesse primario.
All’indomani del risultato elettorale, la storia virtuosa del Lirico di Cagliari (ignorata da alcuni settori della stampa) mostra che la cultura non siede a sinistra.
E’ quindi un’operazione culturale importante che , si prevede, porterà a Cagliari circa 70 critici musicali di tutto il mondo. Corona anche quattro anni da quando Maurizio Pietrantonio, un musicista di rilievo (e componente del Comitato Promotore della Fondazione Fare Futuro) è stato nominato Sovrintendente del Teatro Lirico del capoluogo della Sardegna. In questo periodo, la fondazione lirica è giunta al pareggio del bilancio e di forte recupero del pregresso debito patrimoniale, nonostante avesse ereditato una situazione economica sull’orlo del commissariamento. La nuova gestione non ha comportato tagli al personale, non ha intaccato il numero e la qualità delle produzioni, non ha privato il teatro della presenza nelle sue programmazioni di grandi personalità artistiche. Il cartellone 2008 prevede circa trecento gli spettacoli inseriti in stagione tra opera, concerti, attività di decentramento e scolastiche.Il numero degli abbonati è in aumento costante: oltre 12.000 alla vigilia dell’inizio della stagione. Pietrantonio non ha rinunciato alla qualità o abbassato il profilo dell’offerta artistica, ma ha sfruttare le risorse interne al Teatro e si è affidato con intelligenza al sistema delle coproduzioni per restare accreditati a livello internazionale e continuare a portare in scena spettacoli di interesse primario.
All’indomani del risultato elettorale, la storia virtuosa del Lirico di Cagliari (ignorata da alcuni settori della stampa) mostra che la cultura non siede a sinistra.
ROMA CAMBIA IN FRETTA. CI VUOLE L’OCCHIO LUNGO, Il Tempo 19 aprile
Tra una settimana circa, Roma avrà un nuovo Sindaco. Chi sarà eletto si troverà in una situazione analoga a quella in cui verserà, più o meno contemporaneamente, il Presidente del Consiglio: un lungo elenco di problemi e la necessità di definire le priorità con cui dare avvio all’azione di governo della città nel corso del suo mandato. La capitale soffre di gran parte dei problemi che travagliano l’Italia, oltre che di quelli specifici di una metropoli in cui è in atto una trasformazione più profonda di quanto indicato dagli indicatori statistici.
In primo luogo, i conti economici territoriali tanto dell’Istat quanto del Ministero dell’Economia e delle Finanze suggeriscono che l’area metropolitana ha da alcuni anni un tasso di crescita leggermente superiore a quello (peraltro rasoterra) della media del Paese. In secondo luogo, nell’ultima classifica della qualità della vita è ottava (su 103 aree in cui viene divisa l’Italia), grazie principalmente ad un reddito pro-capite molto superiore alla media nazionale (il quinto più alto); nell’indice aggregato ciò compensa altri aspetti -97sima (ossia da fanalino di coda) in termini di sicurezza – 54sima in termini di produzione e lavoro, 16sima in termini di servizi sanitari. In terzo luogo, ci sono segnali di potenzialità inespresse: ad esempio, una delle maggiori multinazionali della comunicazione e del marketing (la Ketchum- eliminate il nome se non vogliamo dare idea di fare pubblicità- Giuseppe) ha appena aperto una sede a Roma proprio in base ad un’analisi di tali potenzialità.
Quali i nodi prioritari (oltre al risanamento delle malmesse finanze del Comune)? Emergono in buona misura dagli indicatori. Innanzitutto, occorre restituire a chi vive Roma la sicurezza che per decenni la ha distinta da molte grandi città europee. Il “patto” firmato nel maggio 2007 con il Ministro dell’Interno ha leggermente aumentato le risorse a disposizione ma c’è tanta strada da fare che in alcune aree i cittadini si sono organizzati per dare vita a “ronde pacifiche” (non armate) allo scopo di monitorare il territorio. Priorità ugualmente importante (anche se non ancora chiaramente espressa dalle statistiche) è l’imminente emergenza-rifiuti che – come documentato su Il Tempo l’11 febbraio scorso- potrebbe assumere dimensioni analoghe a quelle della Campania, Inoltre, le capacità dell’area sono frustrate dalla sempre più grave situazione della mobilità: non si tratta soltanto di accelerare la realizzazione delle grandi infrastrutture (dalle linee di metropolitana alla rete di treni urbani) ma anche di attuare misure semplici e poco appariscenti (automobili elettriche, biciclette a pedalata assistita, car sharing e bike sharing, maggiore diffusione delle colonnine per la ricarica) ma che, come evidenziato nel marzo 2007 al convegno su “mobilità sostenibile” nella capitale, potrebbero dare un utile contributo. Su queste priorità, occorre tenere la barra ridda. Perché la nave vada.
In primo luogo, i conti economici territoriali tanto dell’Istat quanto del Ministero dell’Economia e delle Finanze suggeriscono che l’area metropolitana ha da alcuni anni un tasso di crescita leggermente superiore a quello (peraltro rasoterra) della media del Paese. In secondo luogo, nell’ultima classifica della qualità della vita è ottava (su 103 aree in cui viene divisa l’Italia), grazie principalmente ad un reddito pro-capite molto superiore alla media nazionale (il quinto più alto); nell’indice aggregato ciò compensa altri aspetti -97sima (ossia da fanalino di coda) in termini di sicurezza – 54sima in termini di produzione e lavoro, 16sima in termini di servizi sanitari. In terzo luogo, ci sono segnali di potenzialità inespresse: ad esempio, una delle maggiori multinazionali della comunicazione e del marketing (la Ketchum- eliminate il nome se non vogliamo dare idea di fare pubblicità- Giuseppe) ha appena aperto una sede a Roma proprio in base ad un’analisi di tali potenzialità.
Quali i nodi prioritari (oltre al risanamento delle malmesse finanze del Comune)? Emergono in buona misura dagli indicatori. Innanzitutto, occorre restituire a chi vive Roma la sicurezza che per decenni la ha distinta da molte grandi città europee. Il “patto” firmato nel maggio 2007 con il Ministro dell’Interno ha leggermente aumentato le risorse a disposizione ma c’è tanta strada da fare che in alcune aree i cittadini si sono organizzati per dare vita a “ronde pacifiche” (non armate) allo scopo di monitorare il territorio. Priorità ugualmente importante (anche se non ancora chiaramente espressa dalle statistiche) è l’imminente emergenza-rifiuti che – come documentato su Il Tempo l’11 febbraio scorso- potrebbe assumere dimensioni analoghe a quelle della Campania, Inoltre, le capacità dell’area sono frustrate dalla sempre più grave situazione della mobilità: non si tratta soltanto di accelerare la realizzazione delle grandi infrastrutture (dalle linee di metropolitana alla rete di treni urbani) ma anche di attuare misure semplici e poco appariscenti (automobili elettriche, biciclette a pedalata assistita, car sharing e bike sharing, maggiore diffusione delle colonnine per la ricarica) ma che, come evidenziato nel marzo 2007 al convegno su “mobilità sostenibile” nella capitale, potrebbero dare un utile contributo. Su queste priorità, occorre tenere la barra ridda. Perché la nave vada.
IN FRANCIA CASTA CON LA MUSERUOLA DA TRENT'ANNI, Libero 19 Aprile
IN FRANCIA CASTA CON LA MUSERUOLA DA TRENT’ANNI
Il Presidente del Consiglio in pectore (eletto ma non ancora incaricato, dal Capo dello Stato, di formare un Governo) ha già annunciato l’ordine del giorno del primo Consiglio dei Ministri ed il luogo (Napoli) dove si terrà. In materia economica, l’annuncio ha naturalmente riguardato i temi più vicini alla vita dei cittadini: riduzione (ed in certi casi abrogazione) di tasse ed imposte, il problema dello smaltimento dei rifiuti in Campania, il nodo Alitalia. Tuttavia, le Fondazioni che hanno collaborato con la coalizione vincente nella messa a punto del programma sottoposto agli elettori sono state anche chiamate a fornire un supporto analitico a provvedimenti di breve, medio e lungo termine per rimettere in marcia l’Italia. Non è questa la sede per anticipare documenti ancora in fase di redazione e destinati, in ogni caso, a chi avrà responsabilità di governo, prima che all’opinione pubblica in generale.
Tuttavia, un tema trasversale a tutti i documenti riguarda come ridurre sprechi grandi e piccoli negli anfratti delle pubbliche amministrazioni: la sprecopoli della casta (per utilizzare il lessico ormai corrente) deve diventare obiettivo principale di governo (individuarla, contenerla e ove possibile eliminarla) , dopo essere stato uno degli argomenti di punta della campagna elettorale.
Proprio nel fine settimana delle elezioni è stato diramato, in formato elettronico, uno studio condotto dalla London School of Economics (Lse), in collaborazione con l’Imperial College ed il CEIs dell’Università di Roma, Tor Vergata. Lo studio merita di essere analizzato sia da chi avrà il compito di condurre una “due diligence” dei conti pubblici sia, più in generale, dalla Corte dei Conti e dalla Ragioneria Generale dello Stato (Rgs). In Italia è disponibile come CEIS Working Paper N. 115; per ottenerne il testo integrale su supporto magnetico, si suggerisce di farne richiesta a o.bandiera@lse.ac.uk o a a.prat@lse.ac.uk oppure t.valletti@imperial.ac.uk .
E’ un’analisi empirica che dopo una premessa teorica ed una rassegna della letteratura, passa al setaccio la spesa delle pubbliche amministrazioni per acquisti di beni e servizi nel periodo 2000-2006 , differenziando tra “sprechi attivi” (ossia per il tornaconto individuale – dalla corruzione alla clientela in tutte le sue forme e guise) e “sprechi passivi” (dovuti al lassismo ed alla lentocrazia burocratica). Si tratta – si può argomentare di un comparto che riguarda meno dell’8% della spesa pubblica; è, però, quello caratterizzato da maggiore discrezionalità (rispetto, ad esempio, alla spesa per il personale, per le pensioni, per la sanità e per altri trasferimenti a famiglie ed imprese). Andiamo ai risultati:
· gli “sprechi passivi” sono l’83% del totale (ciò smentisce le chiacchiere giornalistiche su sprecopoli) e devono essere affrontati cambiando regole (semplificazione, abrogazione automatica di norme e circolari dopo un certo numero d’anni dalla loro applicazione);
· gli sprechi (“attivi” e “passivi”) sono di peso principalmente nell’apparato centrale dello Stato – in breve i Ministeri pagano, mediamente, il 22% in più degli enti locali per beni e servizi analoghi;
· il controllo sociale è l’arma principale per contenerli (e tale controllo è più forte a livello locale che centrale).
Interessante notare che a conclusioni simili si è giunti, non guardando specificatamente l’Italia ma esaminando gli Usa, nella lontana Yale in uno studio pubblicato nell’ultimo fascicolo della “Yale Law and Policy Review”: il succo del lavoro che coniuga due discipline (economia e diritto) consiste nel proporre di utilizzare, in modo sistematico, l’analisi costi benefici a fini deliberativi delle poste di spesa (ossia decisionali) non meramente informativi. Una legge della nostra Repubblica (la legge 144/99) lo prevede per l’investimento pubblico – unitamente alla creazione d’unità, nuclei, gruppi di valutazione in tutte le amministrazioni. Occorre applicarla con rigore ed estenderla a tutte le maggiori partite di spese (come fu tentato nel 1984 del Governo Craxi con articolo del ddl di legge finanziaria, eliminato durante l’iter parlamentare).
Abbiamo un esempio interessante di “policy” in Francia: gli interessati possono coglierne i dettagli nel fascicolo speciale della Revue Française dedicato all’argomento (il n.117, 2006). Oltralpe un programma per la razionalizzazione delle scelte di bilancio (e l’eliminazione degli sprechi negli anfratti della spesa pubblica) è stato condotto, in via sperimentale, dalla metà degli Anni 70 al 1984; nonostante sia stato accantonato per un certo numero d’ anni (come in Italia i metodi di analisi per i progetti Fio nel 1882-86), è riuscito a plasmare parte delle amministrazioni (specialmente a livello locale) ed alcuni punti di fondo sono riemersi negli ultimi anni nella riforma della legge di bilancio (l’equivalente della nostra legge finanziaria).
Per saperne di più
Bandiera O, Prat. A., Valletti T.M"Active and Passive Waste in Government “Regulating the Rulemakers: A Proposal for Deliberative Cost-Benefit Analysis” CEIS Working Paper No. 115
Nou J. “Regulating the Rulemakers: A Proposal for Deliberative Cost-Benefit Analysis” Yale Law & Policy Review, Vol. 26, No. 2, 2008
Perret B. "De l’échec de la rationalisation des choix budgétaires (RCB) à la loi organique relative aux lois de finances (LOLF) " Revue Française 117, 2006
Il Presidente del Consiglio in pectore (eletto ma non ancora incaricato, dal Capo dello Stato, di formare un Governo) ha già annunciato l’ordine del giorno del primo Consiglio dei Ministri ed il luogo (Napoli) dove si terrà. In materia economica, l’annuncio ha naturalmente riguardato i temi più vicini alla vita dei cittadini: riduzione (ed in certi casi abrogazione) di tasse ed imposte, il problema dello smaltimento dei rifiuti in Campania, il nodo Alitalia. Tuttavia, le Fondazioni che hanno collaborato con la coalizione vincente nella messa a punto del programma sottoposto agli elettori sono state anche chiamate a fornire un supporto analitico a provvedimenti di breve, medio e lungo termine per rimettere in marcia l’Italia. Non è questa la sede per anticipare documenti ancora in fase di redazione e destinati, in ogni caso, a chi avrà responsabilità di governo, prima che all’opinione pubblica in generale.
Tuttavia, un tema trasversale a tutti i documenti riguarda come ridurre sprechi grandi e piccoli negli anfratti delle pubbliche amministrazioni: la sprecopoli della casta (per utilizzare il lessico ormai corrente) deve diventare obiettivo principale di governo (individuarla, contenerla e ove possibile eliminarla) , dopo essere stato uno degli argomenti di punta della campagna elettorale.
Proprio nel fine settimana delle elezioni è stato diramato, in formato elettronico, uno studio condotto dalla London School of Economics (Lse), in collaborazione con l’Imperial College ed il CEIs dell’Università di Roma, Tor Vergata. Lo studio merita di essere analizzato sia da chi avrà il compito di condurre una “due diligence” dei conti pubblici sia, più in generale, dalla Corte dei Conti e dalla Ragioneria Generale dello Stato (Rgs). In Italia è disponibile come CEIS Working Paper N. 115; per ottenerne il testo integrale su supporto magnetico, si suggerisce di farne richiesta a o.bandiera@lse.ac.uk o a a.prat@lse.ac.uk oppure t.valletti@imperial.ac.uk .
E’ un’analisi empirica che dopo una premessa teorica ed una rassegna della letteratura, passa al setaccio la spesa delle pubbliche amministrazioni per acquisti di beni e servizi nel periodo 2000-2006 , differenziando tra “sprechi attivi” (ossia per il tornaconto individuale – dalla corruzione alla clientela in tutte le sue forme e guise) e “sprechi passivi” (dovuti al lassismo ed alla lentocrazia burocratica). Si tratta – si può argomentare di un comparto che riguarda meno dell’8% della spesa pubblica; è, però, quello caratterizzato da maggiore discrezionalità (rispetto, ad esempio, alla spesa per il personale, per le pensioni, per la sanità e per altri trasferimenti a famiglie ed imprese). Andiamo ai risultati:
· gli “sprechi passivi” sono l’83% del totale (ciò smentisce le chiacchiere giornalistiche su sprecopoli) e devono essere affrontati cambiando regole (semplificazione, abrogazione automatica di norme e circolari dopo un certo numero d’anni dalla loro applicazione);
· gli sprechi (“attivi” e “passivi”) sono di peso principalmente nell’apparato centrale dello Stato – in breve i Ministeri pagano, mediamente, il 22% in più degli enti locali per beni e servizi analoghi;
· il controllo sociale è l’arma principale per contenerli (e tale controllo è più forte a livello locale che centrale).
Interessante notare che a conclusioni simili si è giunti, non guardando specificatamente l’Italia ma esaminando gli Usa, nella lontana Yale in uno studio pubblicato nell’ultimo fascicolo della “Yale Law and Policy Review”: il succo del lavoro che coniuga due discipline (economia e diritto) consiste nel proporre di utilizzare, in modo sistematico, l’analisi costi benefici a fini deliberativi delle poste di spesa (ossia decisionali) non meramente informativi. Una legge della nostra Repubblica (la legge 144/99) lo prevede per l’investimento pubblico – unitamente alla creazione d’unità, nuclei, gruppi di valutazione in tutte le amministrazioni. Occorre applicarla con rigore ed estenderla a tutte le maggiori partite di spese (come fu tentato nel 1984 del Governo Craxi con articolo del ddl di legge finanziaria, eliminato durante l’iter parlamentare).
Abbiamo un esempio interessante di “policy” in Francia: gli interessati possono coglierne i dettagli nel fascicolo speciale della Revue Française dedicato all’argomento (il n.117, 2006). Oltralpe un programma per la razionalizzazione delle scelte di bilancio (e l’eliminazione degli sprechi negli anfratti della spesa pubblica) è stato condotto, in via sperimentale, dalla metà degli Anni 70 al 1984; nonostante sia stato accantonato per un certo numero d’ anni (come in Italia i metodi di analisi per i progetti Fio nel 1882-86), è riuscito a plasmare parte delle amministrazioni (specialmente a livello locale) ed alcuni punti di fondo sono riemersi negli ultimi anni nella riforma della legge di bilancio (l’equivalente della nostra legge finanziaria).
Per saperne di più
Bandiera O, Prat. A., Valletti T.M"Active and Passive Waste in Government “Regulating the Rulemakers: A Proposal for Deliberative Cost-Benefit Analysis” CEIS Working Paper No. 115
Nou J. “Regulating the Rulemakers: A Proposal for Deliberative Cost-Benefit Analysis” Yale Law & Policy Review, Vol. 26, No. 2, 2008
Perret B. "De l’échec de la rationalisation des choix budgétaires (RCB) à la loi organique relative aux lois de finances (LOLF) " Revue Française 117, 2006
ADDIO “GRANDI INTESE”, PER FORTUNA, Il Domenicale 19 aprile
L’esito delle elezioni è chiarissimo: gli italiani hanno scelto con forte determinazione e responsabilità. Hanno respinto ogni ipotesi di “grande coalizione” o di “grandi intese”, pur profilata non solamente da chi è oggi all’opposizione (nell’aspettativa di un eventuale “pareggio”) ed anche da molti commentatori televisivi stranieri alla lettura dei primi risultati degli exit polls. Un autorevole columnist americano ha ricordato che il 13 aprile si era formata una “grande coalizione” in Kenya quasi auspicando un esito analogo in Italia: a Nairobi. Però, vi si è giunti dopo elezioni contestate, città a ferro e fuoco, tentativi di mediazione dall’Unione Africana e dalle Nazioni Unite – insomma quando il Paese era sull’orlo di una vera e propria guerra civile. Situazione ben lungi da quella nostrana.
Un godibile saggio di Maurizio Stefanini in 190 pagine ci racconta, ad appena 14 euro, tutto-quello-che-si-deve-sapere su tali forme di governo formate in tutti gli angoli e gli anfratti dei cinque continenti negli ultimi 150 anni (ma non mancano cenni all’antichità). Il lavoro mette in luce come le “grandi coalizioni” sono, tranne poche eccezioni, il risultato di condizioni di effettiva emergenza; una volta superata o vengono sciolte o si trasformano in meri accocchi di potere. Stefanini distingue tra “costituzioni consociative” (ossia che postulano l’inciucio sin dalla Carta fondamentale), “governi di guerra” (in cui ci si deve mettere insieme per forza contro il nemico comune), “governi di liberazioni” e “governi costituenti” e “coabitazioni per necessità” (tipiche in sistemi politici presidenziali o semi-presidenziali ma rare in quelli parlamentari). Non è una vera e propria tassonomia sul tipo di quelle paludate dei manuali di Giovanni Sartori. E’ una distinzione, tuttavia, c eloquente e che indica come, tranne rarissime eccezioni, qualche forma d’emergenza comporta, con la “grande coalizione”, la sospensione di quella contrapposizione tra posizioni differenti che è il sale della democrazia. Una di queste eccezioni è la Krosse Koalition ora nella Repubblica Federale: la sua ragione d’essere è rimuovere nodi strutturali ed istituzionali accumulatisi nei decenni. Ancora non è chiaro quali saranno gli esiti.
Il saggio di Stefanini non riguarda gli esiti economici delle “grandi coalizioni”. Anni fa, Alberto Alesina dell’Università di Harvard ne tracciò una rassegna: utili per superare emergenze economiche di brevissimo periodo, le loro implicazioni sull’economia e sulla finanza pubblica nel medio e lungo periodo sono di rado positive. In Italia abbiamo avuto, per necessità, una “grande coalizione” nell’immediato dopoguerra- quando si scriveva la Costituzione e si cercava di mettere il Paese di nuovo in marcia. Ha funzionato perché al momento giusto Alcide De Gaspari ha mostrato la porta ai comunisti. Un’altra esperienza (più prossima però ad una “grande intesa” che ad una “coalizione”) è stata l’ “unità nazionale” alla fine degli Anni 70: ha lasciato in eredità ai nostri figli un sistema sanitario a programmazione “a cascata” (già allora vetusto nel resto del mondo) ed un sistema previdenziale che li indebiterà per decenni. Adesso una “grande coalizione” sarebbe stata la ricetta per la paralisi il Paese. Mentre il resto del mondo corre. In breve, se le conosci, eviti sia le “grandi coalizioni” e sia le “grandi intese”. Chi ha avuto il suffragio degli elettori deve assumersi da solo la responsabilità di governare e di rimettere il Paese al passo.
Ciò non vuol dire non cercare intese specifiche e limitate con un’opposizione che si comporti in modo responsabile su alcuni temi (politica per la famiglia, riduzione della pressioni fiscale, nuovo sistema elettorale, federalismo e auspicabilmente riforma della Costituzione).
Maurizio Stefanini Grandi Coalizioni – Quando Funzionano, Quando No Prefazione di Giulio Andreotti Introduzione di Lodovico Festa Boroli Editore 2008 190 € 14
Un godibile saggio di Maurizio Stefanini in 190 pagine ci racconta, ad appena 14 euro, tutto-quello-che-si-deve-sapere su tali forme di governo formate in tutti gli angoli e gli anfratti dei cinque continenti negli ultimi 150 anni (ma non mancano cenni all’antichità). Il lavoro mette in luce come le “grandi coalizioni” sono, tranne poche eccezioni, il risultato di condizioni di effettiva emergenza; una volta superata o vengono sciolte o si trasformano in meri accocchi di potere. Stefanini distingue tra “costituzioni consociative” (ossia che postulano l’inciucio sin dalla Carta fondamentale), “governi di guerra” (in cui ci si deve mettere insieme per forza contro il nemico comune), “governi di liberazioni” e “governi costituenti” e “coabitazioni per necessità” (tipiche in sistemi politici presidenziali o semi-presidenziali ma rare in quelli parlamentari). Non è una vera e propria tassonomia sul tipo di quelle paludate dei manuali di Giovanni Sartori. E’ una distinzione, tuttavia, c eloquente e che indica come, tranne rarissime eccezioni, qualche forma d’emergenza comporta, con la “grande coalizione”, la sospensione di quella contrapposizione tra posizioni differenti che è il sale della democrazia. Una di queste eccezioni è la Krosse Koalition ora nella Repubblica Federale: la sua ragione d’essere è rimuovere nodi strutturali ed istituzionali accumulatisi nei decenni. Ancora non è chiaro quali saranno gli esiti.
Il saggio di Stefanini non riguarda gli esiti economici delle “grandi coalizioni”. Anni fa, Alberto Alesina dell’Università di Harvard ne tracciò una rassegna: utili per superare emergenze economiche di brevissimo periodo, le loro implicazioni sull’economia e sulla finanza pubblica nel medio e lungo periodo sono di rado positive. In Italia abbiamo avuto, per necessità, una “grande coalizione” nell’immediato dopoguerra- quando si scriveva la Costituzione e si cercava di mettere il Paese di nuovo in marcia. Ha funzionato perché al momento giusto Alcide De Gaspari ha mostrato la porta ai comunisti. Un’altra esperienza (più prossima però ad una “grande intesa” che ad una “coalizione”) è stata l’ “unità nazionale” alla fine degli Anni 70: ha lasciato in eredità ai nostri figli un sistema sanitario a programmazione “a cascata” (già allora vetusto nel resto del mondo) ed un sistema previdenziale che li indebiterà per decenni. Adesso una “grande coalizione” sarebbe stata la ricetta per la paralisi il Paese. Mentre il resto del mondo corre. In breve, se le conosci, eviti sia le “grandi coalizioni” e sia le “grandi intese”. Chi ha avuto il suffragio degli elettori deve assumersi da solo la responsabilità di governare e di rimettere il Paese al passo.
Ciò non vuol dire non cercare intese specifiche e limitate con un’opposizione che si comporti in modo responsabile su alcuni temi (politica per la famiglia, riduzione della pressioni fiscale, nuovo sistema elettorale, federalismo e auspicabilmente riforma della Costituzione).
Maurizio Stefanini Grandi Coalizioni – Quando Funzionano, Quando No Prefazione di Giulio Andreotti Introduzione di Lodovico Festa Boroli Editore 2008 190 € 14
venerdì 18 aprile 2008
ECCO PERCHE' IL CAV PROMETTE LACRIME E SANGUE L'Occidentale 17 aprile
Nelle prime dichiarazioni alla stampa, il Presidente del Consiglio “in pectore” Silvio Berlusconi ha indicato che il nuovo Governo dovrà prendere misure impopolari; per questo motivo è necessario che, oltre ad essere numericamente, la maggioranza parlamentare sia coesa.
Di cosa si tratta? Non certo d’aumenti della pressione fiscale – di cui è stata annunciata, invece, una riduzione. Neanche di tagli alle voci di spesa pubblica inerenti ai trasferimenti alle famiglie (pensioni, sanità, sussidi alle fasce più deboli). Non potranno chiamarsi “impopolari” i provvedimenti (quali la razionalizzazione di appalti e commesse) mirati a spendere meglio le risorse di tutti.
Per afferrare cosa probabilmente intende Berlusconi (stiamo congetturando ipotesi) occorre prendere un documento appena diramato (il “Bollettino” più recente della Banca centrale europea- Bce) ed un bel libro uscito un anno fa negli Stati Uniti ma che verosimilmente pochi italiani hanno letto (Barry Eichengreen “The European Economt since 1945: Coordinate Capitalism and Beyond” Princeton University Press, 2007 pp. xx 495 $ 35).
Prendiamo l’avvio dal lavoro di Eichengreen , risultato di 20 anni di studi della rapida crescita (tra il 1950 ed il 1973) e del successivo debole andamento e stasi delle economie europee, oltre che delle prospettiva “di sopravvivenza” del “modello europeo” nel contesto dell’integrazione economica internazionale. Il punto centrale è che l’Europa occidentale in generale (e l’Italia più di altri Paesi) sono state caratterizzate da un “capitalismo coordinato” (un modo elegante per dire “corporativo”) che hanno permesso lo slancio del 1950-73 (grazie alla concertazione e consociazione tra produttori – il “patto” di cui ha parlato nostalgicamente WV, Walter Veltroni, negli ultimi giorni della campagna elettorale) ma hanno in seguito ingabbiato la crescita in una ragnatela di reti corporative. Il pilastro delle “misure impopolari” è la rottura di questa ragnatela. Berlusconi lo ha sperimentato sulla propria pelle nella XII legislatura (quando tentò una riforma sensata e moderata della previdenza) e nella XIV (quando iniziò il programma di liberalizzazioni). Le “lenzuolate” varate (senza grande esito) dal Ministro alla Sviluppo Economico Pierluigi Bersani nella XV legislatura non hanno certo contribuito alla popolarità del già malmesso Governo Prodi. Il capitalismo coordinato delle corporazioni comporta costi per chi perde rendite di posizione; dato che in Italia (e non solo) le categorie che fruiscono di tali rendite sono numerosissime, le misure dirette verso tali obiettivi (per rilanciare produttività e competitività) sono inevitabilmente impopolari.
Il documento Bce è soltanto l’ultimo (per ora) in ordine di tempo parere di un’organizzazione internazionale sull’urgenza di riforme (specialmente nei mercati dei prodotti e dei servizi oltre che nella spesa pubblica) per rimettere in moto l’economia italiana.
Una ventina di anni fa, un socio-economista americano (ma cresciuto a Trieste), Albert Hirschmann, allora considerato tra i beniamini della sinistra, ha pubblicato un libro su “Come far passare le riforme” (edito in Italia da Il Mulino): uno dei punti essenziali dell’analisi è il messaggio secondo cui i “reform monger” (coloro che vogliono fare le riforme) devono trovare un grimaldello, spesso esterno, per rompere i muri di gomma e le sabbie mobili che ostacolo il rinnovamento e l’innovazione. Nello studio fondamentale di Paul Pierson sulle riforme attuate negli Anni 80 negli Usa ed in Gran Bretagna (“Dismantling the Welfare State? Reagan, Thatcher and the Politics of Retrenchmen”. Cambridge University Press, 1994) si sottolinea come il grimaldello fu in un caso (Usa) l’invio dell’aereonatica per porre fine allo sciopero dei controllori di volo e nell’altro (GB) l’atteggiamento energico del Governo nei confronti del sindacato dei minatori. Né gli Stati Uniti né la Gran Bretagna sono alle prese con un “capitalismo coordinato” radicato come quello italiano.
Non è difficile individuare cosa fare (è appena uscito “Il Manuale delle Riforme” dell’Istituto Bruno Leoni ed il 18 maggio sarà in libreria il “Rapporto sulla liberalizzazione della società italiana” di Società Libera) ma è arduo capire quale può essere il grimaldello per avviare un processo di liberalizzazioni e di riforme, specialmente in una fase (come l’attuale) in cui il debole andamento dell’economia reale e la situazione della finanza pubblica non consentono di offrire “compensi” di breve periodo a chi, a torto od a ragione, crede di doversi sobbarcare costi per le liberalizzazioni e riforme.
Parafrasando il sindacalista francese Marc Blondel, possiamo, però, dire che le “non-riforme” sono molto più care. Non in base all’intuizione che le “non-riforme” sono una delle determinanti del più basso potenziale di crescita di lungo periodo (tra quelli dei Paesi Ocse) computato dalla Bce per l’Italia, un misero 1,3% l’anno. Ma sulla scorta d’analisi puntali. La prima è uno studio dell’Ocse di pochi mesi fa che non avuto quasi alcuna diffusione in Italia. Misura il differenziale di lungo termine di un indicatore composito (livelli e crescita del tenore di vita a parità di potere d’acquisto) rispetto ad un benchmark (metro di confronto) convenzionale, gli Usa: Italia e Giappone sono i Paesi che presentano il divario maggiore. Le non-riforme ci costano un tasso di crescita potenziale di almeno mezzo punto del pil l’anno: una legislatura di non riforme vuol dire una riduzione media dei tenori di vita almeno del 3% rispetto a quanto sarebbe stato possibile. Un’analisi freschissima del maggiore istituto tedesco di ricerca economica (l’Ifo) conferma queste stime e contiene indicazioni specifiche per mettersi al passo. Per l’Italia, esse sono le seguenti: a) intensificare l’utilizzazione del lavoro (riducendo il cuneo fiscale ed incoraggiando la contrattazione collettiva decentrata al posto di quella nazionale) e b) aumentarne la produttività (promuovendo la concorrenza nei servizi cominciando dalla privatizzazione e liberalizzazione di quelli pubblici, migliorare scuola e università, modernizzare corporate governance e diritto fallimentare).
Di cosa si tratta? Non certo d’aumenti della pressione fiscale – di cui è stata annunciata, invece, una riduzione. Neanche di tagli alle voci di spesa pubblica inerenti ai trasferimenti alle famiglie (pensioni, sanità, sussidi alle fasce più deboli). Non potranno chiamarsi “impopolari” i provvedimenti (quali la razionalizzazione di appalti e commesse) mirati a spendere meglio le risorse di tutti.
Per afferrare cosa probabilmente intende Berlusconi (stiamo congetturando ipotesi) occorre prendere un documento appena diramato (il “Bollettino” più recente della Banca centrale europea- Bce) ed un bel libro uscito un anno fa negli Stati Uniti ma che verosimilmente pochi italiani hanno letto (Barry Eichengreen “The European Economt since 1945: Coordinate Capitalism and Beyond” Princeton University Press, 2007 pp. xx 495 $ 35).
Prendiamo l’avvio dal lavoro di Eichengreen , risultato di 20 anni di studi della rapida crescita (tra il 1950 ed il 1973) e del successivo debole andamento e stasi delle economie europee, oltre che delle prospettiva “di sopravvivenza” del “modello europeo” nel contesto dell’integrazione economica internazionale. Il punto centrale è che l’Europa occidentale in generale (e l’Italia più di altri Paesi) sono state caratterizzate da un “capitalismo coordinato” (un modo elegante per dire “corporativo”) che hanno permesso lo slancio del 1950-73 (grazie alla concertazione e consociazione tra produttori – il “patto” di cui ha parlato nostalgicamente WV, Walter Veltroni, negli ultimi giorni della campagna elettorale) ma hanno in seguito ingabbiato la crescita in una ragnatela di reti corporative. Il pilastro delle “misure impopolari” è la rottura di questa ragnatela. Berlusconi lo ha sperimentato sulla propria pelle nella XII legislatura (quando tentò una riforma sensata e moderata della previdenza) e nella XIV (quando iniziò il programma di liberalizzazioni). Le “lenzuolate” varate (senza grande esito) dal Ministro alla Sviluppo Economico Pierluigi Bersani nella XV legislatura non hanno certo contribuito alla popolarità del già malmesso Governo Prodi. Il capitalismo coordinato delle corporazioni comporta costi per chi perde rendite di posizione; dato che in Italia (e non solo) le categorie che fruiscono di tali rendite sono numerosissime, le misure dirette verso tali obiettivi (per rilanciare produttività e competitività) sono inevitabilmente impopolari.
Il documento Bce è soltanto l’ultimo (per ora) in ordine di tempo parere di un’organizzazione internazionale sull’urgenza di riforme (specialmente nei mercati dei prodotti e dei servizi oltre che nella spesa pubblica) per rimettere in moto l’economia italiana.
Una ventina di anni fa, un socio-economista americano (ma cresciuto a Trieste), Albert Hirschmann, allora considerato tra i beniamini della sinistra, ha pubblicato un libro su “Come far passare le riforme” (edito in Italia da Il Mulino): uno dei punti essenziali dell’analisi è il messaggio secondo cui i “reform monger” (coloro che vogliono fare le riforme) devono trovare un grimaldello, spesso esterno, per rompere i muri di gomma e le sabbie mobili che ostacolo il rinnovamento e l’innovazione. Nello studio fondamentale di Paul Pierson sulle riforme attuate negli Anni 80 negli Usa ed in Gran Bretagna (“Dismantling the Welfare State? Reagan, Thatcher and the Politics of Retrenchmen”. Cambridge University Press, 1994) si sottolinea come il grimaldello fu in un caso (Usa) l’invio dell’aereonatica per porre fine allo sciopero dei controllori di volo e nell’altro (GB) l’atteggiamento energico del Governo nei confronti del sindacato dei minatori. Né gli Stati Uniti né la Gran Bretagna sono alle prese con un “capitalismo coordinato” radicato come quello italiano.
Non è difficile individuare cosa fare (è appena uscito “Il Manuale delle Riforme” dell’Istituto Bruno Leoni ed il 18 maggio sarà in libreria il “Rapporto sulla liberalizzazione della società italiana” di Società Libera) ma è arduo capire quale può essere il grimaldello per avviare un processo di liberalizzazioni e di riforme, specialmente in una fase (come l’attuale) in cui il debole andamento dell’economia reale e la situazione della finanza pubblica non consentono di offrire “compensi” di breve periodo a chi, a torto od a ragione, crede di doversi sobbarcare costi per le liberalizzazioni e riforme.
Parafrasando il sindacalista francese Marc Blondel, possiamo, però, dire che le “non-riforme” sono molto più care. Non in base all’intuizione che le “non-riforme” sono una delle determinanti del più basso potenziale di crescita di lungo periodo (tra quelli dei Paesi Ocse) computato dalla Bce per l’Italia, un misero 1,3% l’anno. Ma sulla scorta d’analisi puntali. La prima è uno studio dell’Ocse di pochi mesi fa che non avuto quasi alcuna diffusione in Italia. Misura il differenziale di lungo termine di un indicatore composito (livelli e crescita del tenore di vita a parità di potere d’acquisto) rispetto ad un benchmark (metro di confronto) convenzionale, gli Usa: Italia e Giappone sono i Paesi che presentano il divario maggiore. Le non-riforme ci costano un tasso di crescita potenziale di almeno mezzo punto del pil l’anno: una legislatura di non riforme vuol dire una riduzione media dei tenori di vita almeno del 3% rispetto a quanto sarebbe stato possibile. Un’analisi freschissima del maggiore istituto tedesco di ricerca economica (l’Ifo) conferma queste stime e contiene indicazioni specifiche per mettersi al passo. Per l’Italia, esse sono le seguenti: a) intensificare l’utilizzazione del lavoro (riducendo il cuneo fiscale ed incoraggiando la contrattazione collettiva decentrata al posto di quella nazionale) e b) aumentarne la produttività (promuovendo la concorrenza nei servizi cominciando dalla privatizzazione e liberalizzazione di quelli pubblici, migliorare scuola e università, modernizzare corporate governance e diritto fallimentare).
giovedì 17 aprile 2008
TRE COSE CHE L’INTERNATIONAL STABILITY FORUM DEVE SPIEGARE, Libero 15 aprile
Sarebbe ingeneroso non riconoscere che l’International Stability Forum (Isf), presieduto dal Governatore della Banca d’Italia Mario Draghi, non ha raggiunto i risultati attesi. Chi ha esperienza d’organismi internazionali sa che è un mini-miracolo che un rapporto consensuale sia stato prodotto da un “foro” composto da 26 autorità nazionali (banche centrali, ministeri finanziari, authority di regolazione e vigilanza), 6 istituzioni finanziarie internazionali (Fmi, Banca mondiale e simili), 7 organi internazionali di vigilanza e 2 comitati internazionali di esperti. Tanto più che l’Isf manca di una propria struttura tecnica e amministrativa e lavora (dal 1999) tramite riunioni periodiche nei cinque continenti. Rasenta un ottimismo quasi utopistico, però, pensare che le proposte del documento riescano ad incidere nel pasticciaccio brutto dei mercati finanziari internazionali (in seguito a quella che tutti chiamano la “crisi dei mutui subprime”). Oppure soltanto ritenere che il calendario dei cento giorni per “i sette Grandi”, dell’agenda per il resto del 2008 e via discorrendo sarà rispettato.
Le proposte, grazie al Cielo, sono ispirate al buon senso: inviti ad una maggiore trasparenza, all’impiego di regole contabili uniformi (quelle dell’International Accounting Standard Board), al miglioramento della gestione dei rischi e (naturalmente) alla continuazione delle peripatetiche riunioni dell’Isf medesimo. Si temeva – e lo ha scritto a tutto tondo Libero Mercato – un approccio più dirigistico, specialmente per il peso, nell’Isf, di numerosi Paesi europei ed asiatici (tutti pronti a pensare che con un maggiore intervento pubblico si risolvano i problemi dell’universo mondo). Tuttavia, da un lato, neanche quel poco di buon senso ha grandi probabilità di essere realizzato; da un altro, l’Isf ha dato prova di miopia – assorbito quasi interamente dalla “crisi dei mutui subprime” non ha scavato nei problemi di base del mercato internazionale dei capitali.
Molto più cauta, e meno elogiativa, degli applausi della stampa italiana, l’analisi fatta dalla Reuters: il G7 sta tentando di remare controcorrente ma ha a che fare con flussi fortissimi, risucchi e trabocchetti di ogni genere. Il G7 e le istituzioni finanziarie internazionali sono alle prese con disfunzioni di dimensione e spessore mai vista prima d’ora; le loro radici non sono tanto nei mutui subprime quanto in quella titolarizzazione che è al centro dell’innovazione e dell’integrazione finanziaria. Nella migliore delle ipotesi, le proposte dell’Isf saranno considerate un elenco di desideri che le stesse autorità nazionali presenti del Forum attueranno con molta cautela (temendo di buttare via il bambino – la titolarizzazione – con l’acqua sporca (il subprime). Inoltre, le proposte non affrontano il nodo centrale della stessa crisi subprime: cosa sono in grado di fare le autorità pubbliche (ministeri, banche centrali, authorities di ogni ordine e grado) per ristabilire la fiducia tra le banche. La fiducia – diciamo noi – è come i figli di “Filomena Maturano”: “nun se compra e nun se vende”. Il lungo e non facile processo di ricostruzione della fiducia tra le banche – ha scritto con acume “The Financial Times” – non è ancora iniziato.
Veniamo ora al secondo punto: cosa manca al rapporto Isf perché possa essere considerato effettivamente credibile e, quindi, incisivo nella comunità internazionale a cui è diretto. Si potrebbero prendere decine di papers recenti scritti negli ultimi sei mesi, ma non sarebbe corretto: ci vuole tempo perché le idee transitino dai pensatoi ai “Forum”. Mi baso, quindi, su un testo fondamentale (e certamente noto a tutti i componenti dell’Isf): il libro di Maurice Obstfeld e Alan Taylor Global Capital Markets in the Long Run pubblicato dalla Cambridge University Press nel 2003 e dalla serrata critica fattene da uno dei maggiori specialisti di finanza internazionale Jeffrey G. Williamson (Università di Harvard) pubblicata nel giugno 2007 sul Journal of Economic Literature , periodico scientifico al tempo stesso molto autorevole e molto diffuso (circa 30.000 abbonati). Dal combinato disposto del lavoro di Obstfeld e Taylor (in cui si analizzano 150 anni di movimenti di capitali) e dalla critica di Williamson si individuano ciò che l’Isf ha accantonato, o preferito accantonare:
· Dato che il mercato dei capitali adesso non è più come in passato “finanza per lo sviluppo” (flussi da Paesi ricchi in capitali a Paesi poveri in capitali) ma “finanza di diversificazione” (da Paesi ricchi a Paesi ricchi alla ricerca di una più vasta gamma d’impieghi), ci si deve chiedere come mai, contrariamente a quanto numerosi membri dell’Isf insegnano in università, il capitale non va dove la sua produttività marginale è più elevata ma si avviluppa in una diversificazione (anche per tipologie di titoli) sempre più complessa nell’area dove è più abbondante (e la sua produttività marginale dovrebbe essere comparativamente più bassa).
· Quali sono i costi relativi all’apertura dei mercati di capitali? E’ una domanda che dobbiamo porci proprio noi liberisti (e se lo devono chiedere a maggior ragione quelli che potremmo chiamare “i liberisti della Domenica”). Il beneficio economico più consistente (insegniamo) è che la libertà dei mercati dei capitali impone disciplina. Sosteniamo che è una disciplina necessaria per indurre i Governi (ed i Parlamenti) a comportamenti virtuosi. Il percorso tracciato da Obstfeld e Taylor cinque anni fa, e la critica di Williamson, mostrano che erano già in atto i prolegomeni della crisi subprime. E che quindi le istituzioni finanziarie (in primo luogo le banche e le loro Siv, società specializzate d’investimento) non tengono la disciplina conseguente la globalizzazione del mercato di capitali.
· Altra conseguenza della libertà di movimento di capitali alla ricerca di una diversificazione (sempre più avviluppata) è quella di andare dove la mano fiscale è più dolce (specialmente se i rendimenti marginali lordi non sono molto elevati). Ciò implica di spostare sul fattore lavoro l’onere di finanziare i servizi sociali (come ha fatto per decenni la sinistra in Italia) o di ridimensionarli.
· Infine, quali sono le implicazioni sull’economia reale delle tensioni sui mercati internazionali di capitali? Obstfeld e Taylor passano in rassegna una letteratura e modellistica molto ampia- Williamson la arricchisce ancora di più. Non c’è alcuna risposta.
L’Isf continuerà a peregrinare (e si lamenterà di non essere stato preso troppo sul serio dal G7 e dagli altri). Tra un viaggio e l’altro e tra una riunione e l’altra, sarebbe auspicabile che risponda a queste domande. Avrebbe una base più solida per le sue proposte. Od anche soltanto per i suoi auspici.
Le proposte, grazie al Cielo, sono ispirate al buon senso: inviti ad una maggiore trasparenza, all’impiego di regole contabili uniformi (quelle dell’International Accounting Standard Board), al miglioramento della gestione dei rischi e (naturalmente) alla continuazione delle peripatetiche riunioni dell’Isf medesimo. Si temeva – e lo ha scritto a tutto tondo Libero Mercato – un approccio più dirigistico, specialmente per il peso, nell’Isf, di numerosi Paesi europei ed asiatici (tutti pronti a pensare che con un maggiore intervento pubblico si risolvano i problemi dell’universo mondo). Tuttavia, da un lato, neanche quel poco di buon senso ha grandi probabilità di essere realizzato; da un altro, l’Isf ha dato prova di miopia – assorbito quasi interamente dalla “crisi dei mutui subprime” non ha scavato nei problemi di base del mercato internazionale dei capitali.
Molto più cauta, e meno elogiativa, degli applausi della stampa italiana, l’analisi fatta dalla Reuters: il G7 sta tentando di remare controcorrente ma ha a che fare con flussi fortissimi, risucchi e trabocchetti di ogni genere. Il G7 e le istituzioni finanziarie internazionali sono alle prese con disfunzioni di dimensione e spessore mai vista prima d’ora; le loro radici non sono tanto nei mutui subprime quanto in quella titolarizzazione che è al centro dell’innovazione e dell’integrazione finanziaria. Nella migliore delle ipotesi, le proposte dell’Isf saranno considerate un elenco di desideri che le stesse autorità nazionali presenti del Forum attueranno con molta cautela (temendo di buttare via il bambino – la titolarizzazione – con l’acqua sporca (il subprime). Inoltre, le proposte non affrontano il nodo centrale della stessa crisi subprime: cosa sono in grado di fare le autorità pubbliche (ministeri, banche centrali, authorities di ogni ordine e grado) per ristabilire la fiducia tra le banche. La fiducia – diciamo noi – è come i figli di “Filomena Maturano”: “nun se compra e nun se vende”. Il lungo e non facile processo di ricostruzione della fiducia tra le banche – ha scritto con acume “The Financial Times” – non è ancora iniziato.
Veniamo ora al secondo punto: cosa manca al rapporto Isf perché possa essere considerato effettivamente credibile e, quindi, incisivo nella comunità internazionale a cui è diretto. Si potrebbero prendere decine di papers recenti scritti negli ultimi sei mesi, ma non sarebbe corretto: ci vuole tempo perché le idee transitino dai pensatoi ai “Forum”. Mi baso, quindi, su un testo fondamentale (e certamente noto a tutti i componenti dell’Isf): il libro di Maurice Obstfeld e Alan Taylor Global Capital Markets in the Long Run pubblicato dalla Cambridge University Press nel 2003 e dalla serrata critica fattene da uno dei maggiori specialisti di finanza internazionale Jeffrey G. Williamson (Università di Harvard) pubblicata nel giugno 2007 sul Journal of Economic Literature , periodico scientifico al tempo stesso molto autorevole e molto diffuso (circa 30.000 abbonati). Dal combinato disposto del lavoro di Obstfeld e Taylor (in cui si analizzano 150 anni di movimenti di capitali) e dalla critica di Williamson si individuano ciò che l’Isf ha accantonato, o preferito accantonare:
· Dato che il mercato dei capitali adesso non è più come in passato “finanza per lo sviluppo” (flussi da Paesi ricchi in capitali a Paesi poveri in capitali) ma “finanza di diversificazione” (da Paesi ricchi a Paesi ricchi alla ricerca di una più vasta gamma d’impieghi), ci si deve chiedere come mai, contrariamente a quanto numerosi membri dell’Isf insegnano in università, il capitale non va dove la sua produttività marginale è più elevata ma si avviluppa in una diversificazione (anche per tipologie di titoli) sempre più complessa nell’area dove è più abbondante (e la sua produttività marginale dovrebbe essere comparativamente più bassa).
· Quali sono i costi relativi all’apertura dei mercati di capitali? E’ una domanda che dobbiamo porci proprio noi liberisti (e se lo devono chiedere a maggior ragione quelli che potremmo chiamare “i liberisti della Domenica”). Il beneficio economico più consistente (insegniamo) è che la libertà dei mercati dei capitali impone disciplina. Sosteniamo che è una disciplina necessaria per indurre i Governi (ed i Parlamenti) a comportamenti virtuosi. Il percorso tracciato da Obstfeld e Taylor cinque anni fa, e la critica di Williamson, mostrano che erano già in atto i prolegomeni della crisi subprime. E che quindi le istituzioni finanziarie (in primo luogo le banche e le loro Siv, società specializzate d’investimento) non tengono la disciplina conseguente la globalizzazione del mercato di capitali.
· Altra conseguenza della libertà di movimento di capitali alla ricerca di una diversificazione (sempre più avviluppata) è quella di andare dove la mano fiscale è più dolce (specialmente se i rendimenti marginali lordi non sono molto elevati). Ciò implica di spostare sul fattore lavoro l’onere di finanziare i servizi sociali (come ha fatto per decenni la sinistra in Italia) o di ridimensionarli.
· Infine, quali sono le implicazioni sull’economia reale delle tensioni sui mercati internazionali di capitali? Obstfeld e Taylor passano in rassegna una letteratura e modellistica molto ampia- Williamson la arricchisce ancora di più. Non c’è alcuna risposta.
L’Isf continuerà a peregrinare (e si lamenterà di non essere stato preso troppo sul serio dal G7 e dagli altri). Tra un viaggio e l’altro e tra una riunione e l’altra, sarebbe auspicabile che risponda a queste domande. Avrebbe una base più solida per le sue proposte. Od anche soltanto per i suoi auspici.
Iscriviti a:
Post (Atom)