Renzi uccida
il socialismo reale di comuni e regioni
23 - 02 -
2014Giuseppe Pennisi
Il 24 febbraio, nel discorso programmatico, il
presidente del Consiglio Matteo Renzi parlerà certamente di revisione
del Titolo V della Costituzione quale riformato frettolosamente nel 2001 dal
governo di centrosinistra nel tentativo, peraltro fallito, di intercettare voti
che sarebbero andati alla Lega Nord.
Come consigliere del titolare di quello che si
chiamava ministero delle Attività Produttive ebbi modo di constatare come il
dicastero con sede a Via Molise, di cui sarà inquilina il ministro Federica
Guidi, era stato letteralmente “spolpato”. Nel contempo, le autonomie locali
erano state aggravate di compiti non in grado di svolgere. Circa dieci anni fa,
feci parte di una commissione, presieduta dal Prof. Cassese, con il compito di
riformare il dicastero; presentammo una proposta che tuttavia ebbe poco seguito
non per le consuete ostilità burocratiche (avrebbe ovviamente scalfito
posizioni di potere interne) ma perché, per mordere (ossia essere efficace)
avrebbe dovuto, con una legge costituzionale, riordinare quanto scassato con il
nuovo Titolo V. Non se ne fece nulla. Il dicastero cambio nome ma resto più o
meno dissestato quanto prima. Non basta neanche come propone IlSole-24Ore del
23 febbraio “cancellare le competenze concorrenti” e riportare al centro
responsabilità in materie “come energia, infrastrutture e trasporti”.
Occorre dare al governo della Nazione gli strumenti
per agire nella selva oscura del “capitalismo regionale e comunale”,
nell’ipotese che quello provinciale chiuda con le Province a cui è collegato.
Nessuno sa quante sono le società, le aziende e gli enti partecipati da Regioni
ed autonomie locali. Secondo le stime più accreditate quelle “primarie”
sarebbero almeno 6000. Ci sono poi le società di secondo grado, “figlie” delle
prime, in merito al cui numero gli istituti di analisi e ricerca hanno
rinunciato ad azzardare stime.
Si pensa male, ma probabilmente ci si azzecca, se si
ritiene che la ragion d’essere di numerose di queste società figlie sia quella
di aggirare (entro certi limiti) la normativa su appalti e commesse. Alcuni
“scandali” e vicende giudiziarie recenti suggeriscono che questa interpretazione
non è tanto lontana dalla realtà. Occorre aggiungere che in molti casi, i
sindacati non sono usciti particolarmente bene da queste storie; anche su
insistenza sindacale, i documenti del CNEL in questa materia auspicano non la
privatizzazione (linea tenuta dall’OCSE) ma la liberalizzazione del
“capitalismo regionale e comunale”.
La situazione non sarebbe preoccupante se come
auspicato da Giovanni Montemartini in età giolittiana le “municipalizzate” o
simile portassero un flusso di cassa positivo netto con il quale Regioni e
Comuni potessero dedicare risorse ai più deboli e poveri. Sembrano, invece,
essere una fucina di debiti. Secondo l’ultimo censimento del Dipartimento della
Funzione pubblica i risultati economici sono crollati del 77% nel solo 2011, ultimo
anno monitorato quando solo il 56% delle società locali ha chiuso in utile, e
meno del 7% degli utili è stato generato da aziende interamente pubbliche.
Secondo la Corte dei Conti ed il servizio studi della Camera dei Deputati,
l’indebitamento netto di questo “capitalismo delle autonomie locali” si
porrebbe sui 35-40 miliardi, un fardello non indifferente.
I vari tentativi di porre rimedio hanno fatto un buco
nell’acqua. Lo scorso autunno i Comuni fino a 30mila abitanti, cioè 96 municipi
su 100, avrebbero dovuto privatizzare le proprie società, ma questa ondata di
cessioni non c’è stata. Troppe resistenze, troppe regole contraddittorie, il
solito valzer delle interpretazioni ha bloccato tutto per l’ennesima volta. Tra
le tante, la storia di questa mancata riforma è esemplare della parabola
vissuta da tante leggi di casa nostra.
La regola che vieta questa forma di “socialismo reale”
a livello locale dei Comuni medio-piccoli è in «Gazzetta Ufficiale» dal
2010, quando la manovra estiva firmata da Giulio Tremonti diede un ordine
draconiano: fino a 30mila abitanti non si possono costituire società
partecipate, e i Comuni che le hanno le devono cedere entro il 31 dicembre.
Come sempre, a una legge così diretta è seguita la pioggia di correttivi, che
hanno preso il testo originario e l’hanno diluito, prorogato, e soprattutto
snaturato. La legge oggi in vigore salva prima di tutto le società con i conti
in ordine, per cui impone di vendere solo quelle che zoppicano, e magari hanno
subito negli ultimi anni perdite tali da portare il capitale sotto i minimi di
legge. Ovviamente, se messe in vendita, quelle nei guai nessuno le compra. Se
ne dovrebbe imporre la liquidazione.
Vicende analoghe hanno avuto i tentativi di porre
ordine nelle società “strumentali”, cioè quelle che lavorano quasi
esclusivamente per l’ente pubblico che le ha create. A prenderle di mira è
stata la spending review: le strumentali non servono a nulla e vanno vendute,
perché è meglio acquistare i servizi dal mercato. In questo caso i termini erano
doppi: la privatizzazione doveva avvenire entro il 30 giugno scorso, mentre a
dicembre dovrebbero chiudere i battenti quelle che non sono state privatizzate.
Poi è arrivata la solita proroga, al 31 dicembre, ma la Corte costituzionale,
chiamata in causa da Friuli Venezia Giulia, Campania, Puglia e Sardegna, a
luglio ha stabilito che, in base all’attuale Titolo V, la regola è
incostituzionale per le tutte le Regioni e per i Comuni nei territori a Statuto
speciale. A fare crescere il numero ed il peso delle società “strumentali”, è
stato anche un insieme di regole che hanno spinto le esternalizzazioni anche in
base al malinteso che «azienda» e «società», anche se emanazione diretta degli
enti pubblici, fossero sinonimo di modernità ed efficienza. Almeno fino al
2006, il Patto di stabilità interno sembrava costruito apposta per ingigantire
il fenomeno, che permetteva di far uscire dal bilancio dell’ente spese e
assunzioni in slalom rispetto ai vincoli di finanza pubblica.
Matteo Renzi è stato presidente di provincia e
sindaco. Ha quindi esperienza di questo comparto. Se non la coniuga con
l’ambizione di modernizzare l’Italia, diventerà poco più che un numero: una
vittima in più del “socialismo reale” a livello locale.
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