martedì 25 febbraio 2014

Cala il SIPARIO sull’opera d’Italia? in Avvenire 26 febbraio



Cala il SIPARIO

sull’opera d’Italia?


GIUSEPPE PENNISI
A
lla vigilia della prima più impor­tante ( Manon Lescaut diretta da Riccardo Muti, con il debutto di Anna Netrebko nella capitale, il Teatro dell’Opera di Roma va ver­so la chiusura e forse la “liquida­zione coatta”. Hanno subito di re­cente un fato analogo due importanti teatri a­mericani: la New York City Opera e il Lyric di Bal­timora (che ha poi riaperto con produzioni a basso costo itineranti in tutta la costa orienta­le Usa). In Italia, hanno calato il sipario il Mas­simo Bellini di Catania e il Vittorio Emanuele di Messina. A fine Ottocento, il San Carlo di Na­poli è stato chiuso per tre anni. Alla fine degli anni Sessanta, Rudolf Bing, direttore del Me­tropolitan, chiuse per due stagioni il sipario in quanto riteneva che le ri­chieste di parte del sin­dacato avrebbero messo a repentaglio la sosteni­bilità dell’ente. Quindi, nulla di nuovo sotto il so­le.

Il 25 febbraio alcune si­gle sindacali – dicono di rappresentare la maggio­ranza degli artisti e il quaranta per cento del personale tecnico-am­ministrativo (ma altre si­gle confutano questa as­serzione) – hanno con­vocato una lunga conferenza stampa per so­stenere che teatro e Campidoglio non hanno aperto un tavolo permanente di trattative (se­condo management e Comune il tavolo c’è, for­se con altre sigle; c’è anche stata un’assemblea con tutto il personale) e che i dati su debito e disavanzo (presentati alla stampa del sovrin­tendente Carlo Fuortes il 9 gennaio e allora a­nalizzati da “Avvenire”) non sarebbero veritie­ri (ma non ne sono stati contrapposti altri). Le sigle organizzatrici della conferenza stampa hanno annunciato di avere un piano alternati­vo (a quanto previsto dalla legge Bray) per au­mentare produttività e ridurre i costi, lo con­segneranno soltanto al sindaco (il quale non li riceve) per non mancare di garbo nei suoi con­fronti. Nella confusa presentazione polifonica (erano tanti a parlare) è volata l’idea di affida­re a tempo pieno la direzione del teatro a Ric­cardo Muti. In mezzo a tanto bailamme è ve­rosimile che Muti, se Manon Lescaut non verrà messa in scena, faccia le valigie e non si veda più a piazza Beniamino Gigli (sede del teatro). Se i dati presentati il 9 gennaio rispecchiano la situazione, non è la legge Bray a imporre la li­quidazione ma il codice: il debito supererebbe il patrimonio. Da un lato sembra di vedere il re­make di un triste film: il modo in cui alla fine degli anni Novanta venne allontanato Giusep­pe Sinopoli, che ne soffrì tanto da morire pre­maturamente. Allora Goffredo Petrassi, ultra­novantenne, e Franco Mannino, quasi ottan­tenne, ambedue grandi compositori, assecon­darono la proposta, lanciata in contempora­nea dal più diffuso quotidiano della capitale e dal “Foglio”, di chiudere il teatro per tre anni, affidarne la gestione a un manager internazio­nale che invitasse compagnie anche straniere e varare concorsi pubblici europei per tutti i ruoli. Con circa tre lustri di ritardo il progetto pare prender corpo. Purtroppo, come spesso avviene in questi casi, perderebbero il lavoro anche tecnici, artisti e amministrativi che con­siderano essenziale una profonda ristrutturazio­ne.

In effetti, il Teatro dell’O­pera di Roma soffre del male antico di scarsa coesione interna, pullu­lare di sigle sindacali in competizione sfrenata tra di loro, privilegi par­ticolaristici, manager che, a volte, per avere la pace sindacale (e il silen­zio su operazioni poco chiare) hanno eroso il patrimonio. I sindacali­sti presenti alla conferenza stampa hanno fat­to riferimento a episodi di malcostume che, se veri e documentati, dovrebbero essere de­nunciati alle autorità, non ai giornalisti.

La situazione dell’ente con sede a piazza Gigli è emblematica dei problemi del set­tore: ben otto fondazioni liriche sono cor­se al capezzale della legge Bray per aiuti di emergenza (un’iniezione di liquidità a credito agevolato, unitamente ad am­mortizzatori) che permettano loro di ri­durre gli organici e attuare piani di ri­strutturazione. Le richieste di aiuto (e di vigilanza da parte di un commissario straordinario) sono state formalizzate ed alcuni piani di riassetto (ad esempio, nei teatri di Bologna, Napoli e Palermo) stan­no entrando in fase operativa. A quello di Roma pare manchi il concerto sindacale. I mali del settore, comunque, non si cureranno sino a quando le produzioni non circoleranno secondo un cartellone nazionale e la produtti­vità non raggiungerà livelli europei

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Il caso

Non solo Roma, dove è a rischio «Manon»: da Bologna a Napoli a Palermo, anche altri teatri sono alle prese con crisi strutturali



http://avvenire.ita.newsmemory.com/newsmemvol1/italy/avvenire/20140226/p232602spe1.pdf.0/img/Image_0.jpg
L’interno del Teatro dell’Opera di Roma
L’ALTERNATIVA

L’«HOFFMANN» LOW COST DEI GIOVANI REINVENTA LA TRADIZIONE


Soffrono anche loro ma meno delle fondazioni i ventotto teatri di tradizione che, con pochi sussidi e organizzati in circuiti spesso regionali, hanno risposto alle difficoltà economiche con spettacoli innovativi a basso costo, con interpreti giovani e tali da attirare anche le nuove generazioni. Un esempio recente è Les contes de Hoffmann di Jacques Offenbach, in scena nei teatri della Toscana sino a fine febbraio e a Novara in novembre. La produzione realizzata da un gruppo di teatri di tradizione (che già l’anno scorso ottennero il premio Abbiati, l’Oscar della Lirica) per la loro carica innovativa, ha un costo di ottantacinquemila euro a recita. Tutto compreso: compensi ai solisti, orchestra, coro, scene e costumi. La drammaturgia è affidata a un gruppo giovane (Nicola Zorzi, regia; Mauro Tinti, scene; Elena Cicorella costumi; Michele della Mea, luci) che ha portato l’azione ai primi del Novecento. La direzione musicale è nelle mani di Guy Condette, sulla cinquantina, specializzato in questo tipo di repertorio.

Soprattutto, i cantanti sono giovanissimi, spesso per la prima volta su un palcoscenico. Il protagonista è un ventottenne brasiliano (Max Jota), il deuteragonista maschile è un baritono di ventitré anni (Federico Cavarzan), le cinque voci femminili (Madina Serebryakova, Claudia Sasso, Velentina Boi, Marta Leung Kwing Chung) hanno tra i ventiquattro e i trent’anni. Un piccolo coro davvero in grado di recitar cantando, un’orchestra di una cooperativa di giovani strumentisti. Fa tutto esaurito ogni sera.

Nessun commento: