SPILLO/ La lezione di Colbert
per Electrolux, Alitalia e Fiat
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lunedì 3 febbraio 2014
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Jean-Baptiste
Colbert, chi era costui? Ad alcuni secoli di distanza dalla sua vita e dalle
sue opere, il ministro delle Finanze (dell’Economia, si direbbe oggi) di Luigi
XVI dovrebbe acquistare notorietà nell’Italia di oggi. Specialmente al termine
di una settimana in cui l’avvitarsi della crisi dell’Electrolux e la nascita
della FCA, in parte sulle ceneri delle Fabbrica italiana automobili Torino
(Fiat), avrebbero dovuto dare una scossa per chiedersi se esiste e dove va la
politica italiana dell’industria manifatturiera. Il nome di Colbert ha
circolato per qualche anno quando, circa un decennio fa, in un discorso
pronunciato a Pesaro l’allora ministro dell’Economia e delle Finanze (Giulio
Tremonti) lo evocò a proposito dell’adesione della Cina all’Organizzazione
mondiale del commercio (Omc) e delle implicazioni che ciò comporta in materia
di applicazione dei principi di reciprocità e di non discriminazione (i due
pilastri dell’Omc).
Colbert fu
un uomo di Stato di multiformi attività. Da Segretario alla Marina potenziò la
flotta, modernizzò i cantieri navali e aprì rotte sull’Atlantico per creare
“Nouvelle France”, la prima colonia francese in quello che è oggi è il Canada.
Accademico di Francia, fu anche uomo di lettere e urbanista; guidò il riassetto
di molte città francesi e fondò l’Académie de France a Villa Medici a Roma. È
ricordato, però, principalmente per il suo ruolo nell’economia: fautore
dell’intervento pubblico, riorganizzò le autonomie locali e il sistema
tributario (abrogando esenzioni e deduzioni); adottò una politica per attirare
in Francia lavoratori stranieri con professionalità che mancavano nel Regno
(per le banche, la finanza, l’industria nascente); mise, soprattutto, in atto
una strategia mercantilista diretta a potenziare l’export e proteggere, con
dazi e contingenti, le manifatture nazionali.
Un
pianificatore o un liberista? Nel contesto del Seicento francese, deve,
paradossalmente, essere considerato un liberizzatore a fronte della
frammentazione di mercati locali regolati da interessi particolaristici, del
pensiero “bullionista” ancora imperversante (favorevole alla più ampia
circolazione di moneta nei confini del territorio nazionale e alla “cattura” di
metalli preziosi) e del protezionismo pure più spinto (si pensi all’Atto di
navigazione che vietava l’import di merci non trasportate su navi di Sua Maestà
britannica) vigente sull’altra sponda della Manica. In breve, sempre nel
contesto dell’epoca, un liberale nazionale favorevole a uno Stato decisamente
regolatore e, quindi, anche ispettore. Il management di Invitalia Spa, e del
nuovo poltronificio che dovrebbe nascere dalle sue costole per attirare
capitali e tecnologia straniera nel nostro Paese, avrebbe molto da imparare da
Colbert.
Come Faust, il Colbert economico aveva, però, due anime. Dato che era (si
direbbe oggi) “un uomo del fare”, piuttosto che del teorizzare, non lasciò
nessuno scritto organico; quindi, le sue anime vanno ricavate dai suoi
“decreti” - ne firmava tanti! L’anima liberale-regolatoria (nel quadro della
Francia del Seicento) traspare dal rigore delle misure contro la contraffazione
e la corruzione (della Pubblica amministrazione e dei concessionari di esazione
delle imposte). Quella nazionale-mercantilista dalla tariffa doganale e dagli
incentivi (su base non discriminatoria, grande segno di modernità a
quell’epoca) per l’industria francese.Le due anime hanno dato origine a due filoni. In materia di politica industriale e commercio internazionale la divisione è netta. Un filone ha dato vita a una scuola di pensiero e azione nettamente protezionista e a favore di industrie decotte e carrozzoni per tenerle in vita (pur se solo vegetativa); in Italia iniziò a prendere piede già nel 1878 con la tariffa doganale Luzzatti, proseguì negli anni Trenta e riapparve negli anni Settanta con gemme quali la “legge Prodi” e la netta chiusura di gran parte dell’attuale opposizione alle liberalizzazioni conseguenti il sistema di cambio europeo. La seconda, invece, ha rappresentato il filone che ha scelto l’apertura dell’economia italiana al mercato internazionale e ha tenuto duro anche nella buia notte di quell’esperimento di “solidarietà nazionale” che ha portato a dilatazione dell’intervento e della spesa pubblica e progressive svalutazioni.
L’Italia, Paese definito di “tarda industrializzazione” nelle storie economiche dell’Europa, non ha parlato di “politica industriale”, ma ne ha fatta a partire dall’età giolittiana, intensificandola (e, in gran misura, razionalizzandola) durante il fascismo. Lo abbiamo ricordato su queste pagine il 23 settembre 2013. “Politica industriale” è stato uno dei temi principali di dibattito a partire dall’inizio degli anni Sessanta e, quindi, dall’inizio del centro-sinistra. In una prima lunga fase si è seguita quella che veniva chiamata “la politica dei settori”, ossia l’identificazione di settori che, tramite poli di sviluppo e interdipendenze, fossero in grado di trainare il resto dell’economia. Si è favorita l’industria di base (metallurgia, siderurgia, chimica), unitamente, sin troppo ovviamente, con la metalmeccanica. I risultati sono stati inferiori alle aspettative, in gran misura perché puntavamo su comparti i cui costi di produzione erano notevolmente inferiori ai nostri in paesi del vicino Mediterraneo.
Negli ultimi due decenni del XX secolo, l’accento è passato a una “politica dei fattori”, sgravi tributari e deroghe alla normativa generale sul lavoro, sia generalizzati che diretti a comparti o ad aree territoriali da promuovere o di cui alleviare il declino. La “politica dei fattori” è stata accompagnata da strumenti etichettati “incentivi” che celavano sussidi più o meno espliciti a questo o quel comparto da incoraggiare o di cui attenuare le difficoltà. La “politica dei fattori” è stata rivalutata recentemente in analisi retrospettive degli anni Ottanta, ma è stata gradualmente abbandonata in quanto molti dei suoi aspetti, e delle sue misure specifiche, non in linea con le regole europee in materia di concorrenza. Anche ove una lettura forzata della normativa europea ne rendesse possibile un rilancio, le difficoltà di bilancio pubblico non rendono pratica una “politica dei fattori”, e ancor meno una “politica dei settori”, analoghe a quelle del passato.
Come
affrontare allora i nodi delle vertenze per industrie in difficoltà (non solo
Electrolux, Alitalia, ma tante altre) e la probabile delocalizzazione di
imprese della stazza della Fiat (amo ancora chiamarla così)? E, soprattutto,
come rilanciare il manifatturiero in modo che l’Italia sia in grado di
agganciarsi ai segni di ripresa mondiale?
Alcuni
esponenti del Pd hanno parlato, proprio in questi giorni, di fiscal
devaluation. Ciò vorrebbe dire compressione dei salari e dei consumi -
dunque nuovi ostacoli sulla via della ripresa. Nell’assordante silenzio di
altre istituzioni, il 23 gennaio l’assemblea del Cnel ha approvato
all’unanimità il documento Per una Nuova Politica Industriale -
il testo integrale è sul sito dell’organo - elaborato dopo discussioni e
audizioni con le parti sociali e con proposte incisive in materia di
governance, strumenti, azioni di sistema a livello nazionale, azioni di
supporto in materia di infrastrutture, logistica, investimenti immateriali,
capitale sociale e agenzie di sostegno.
Il fantasma
di Colbert non vagava per Villa Lubin (sede del Cnel), ma c’erano tra i suoi
nipoti quelli della scuola che ha scelto competitività e apertura al resto del
mondo.
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