Cosa deve leggere Renzi prima di presentare davvero il Jobs Act
Al momento in cui viene scritta questa nota non si sa ancora se
nei prossimi giorni ci sarà un cambio di inquilino a Palazzo Chigi. Qualsiasi
saranno gli esiti della direzione del Partito Democratico (Pd) e delle sue
conseguenza parlamentari, nei prossimi giorni il segretario del Pd dovrà
presentare il tanto atteso “Jobs Act”. Un editoriale del
Corriere della
Sera ha detto che sembra si tratti solo di una “conferenza
stampa”. Altri hanno scritto che rischia di essere un “Sister Act”, nomignolo
ironico che già circola nei vari edifici, sparpagliati per Roma, in cui
alloggia il ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali.
Non conosco personalmente Matteo
Renzi, ma ho una certa simpatia per questo toscano che ha
l’età di mio figlio minore (quando ero giovane si diventava padri piuttosto
presto). Sta prendendo sulle spalle il tentativo di mettere a posto questa
scassata Italia, iniziando da quella “grande riforma” della Costituzione su cui
si ruppe la testa anche il più anziano, e più smaliziato, Bettino Craxi.
Quindi, mi permetto di suggerirgli un lavoro che è stato discusso la mattina
del 13 febbraio in un seminario ad inviti del ministero dell’Economia e delle
Finanze (Mef): “Valutazione di interventi di riforma del mercato del lavoro
attraverso strumenti quantitativi” a cura di Germana Di Domenico (Mef) e Margherita Scarlato
(Università di Roma Tre).
E’ un saggio di un centinaio di
pagine molto denso, e con una buona dose di matematica e di econometria. Non suggerisco
che il segretario del Pd, il quale ha fatto politica sin da quando ha smesso di
bere il latte della mamma, debba leggere algoritmi e analisi economiche del
lavoro. E’ importante però che prima di presentare il “Jobs Act” tenga conto
delle conclusioni di una ricerca (peraltro ancora in corso). In estrema
sintesi, utilizzando un set di dati più ampio ed una metodologia più raffinata,
delle statistiche e della metodica di studi recente presentati dal ministero
del Lavoro e delle Politiche Sociali, le analisi quantitative (le prime
effettuate) mostrano che nel periodo 2005-2012 le riforme effettuate
(essenzialmente le leggi ‘Biagi’
e ‘Fornero’)
non hanno avuto effetti significativi e non hanno modificato le dinamiche
complessive del mercato del lavoro.
Tali dinamiche restano persistenti, il 93% degli individui
inattivi (benché in età da lavoro) restano tali durante tutto il periodo, non è
aumentato il flusso di transizione da un lavoro temporaneo ad uno stabile, non
c’è stato un travaso dalle forme contrattuali meno tutelate, come le
collaborazioni coordinate ed i contratti a progetto, a quelle (come
l’apprendistato ed i contratti a tempo determinato) che dovrebbero aprire la
porta ad un impiego regolare. In aggiunta, è aumentata la permanenza nello
stato di chi cerca lavoro senza trovarlo e la probabilità della permanenza
nello stesso stato per i collaboratori e per i lavoratori a tempo determinato.
La prima conclusione è di tenere alla larga gli Azzeccagarbugli
che si gingillano con il diritto del lavoro. La risposta non è nei codicilli
sulla flessibilità ma sulla crescita. A riguardo il lavoro andrebbe letto con
le proposte per una nuovo politica industriale, condivisa tra le parti sociali,
che si possono leggere come osservazioni e proposte al governo sul sito di quel
Cnel che Matteo
Renzi vorrebbe chiudere.
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