‘HOFFMAN’ CON LA
VALIGIA
Giuseppe Pennisi
Si
possono trarre varie lezioni dalla
produzione de“Les contes de Hoffmann”
di Jacques Offenbach che , dopo avere debuttato a Pisa, è a Livorno e Lucca
sino al 23 febbraio e riprende a viaggiare da Novara il 29 novembre. In primo
luogo, a 83.000 euro a recita tutto compreso (solisti, coro, orchestra, scene e
costumi) è un record al ribasso per una delle opere più complicate del repertorio
francese. A titolo di raffronto si mormora – ma nessuno conferma- che il nuovo
allestimento di Manon Lescaut di
Giacomo Puccini in arrivo a Roma (con la direzione musicale di Riccardo Muti e
ala regia di Chiara Muti) abbia un costo di circa 500.000 euro aa recita (se ne
programmano cinque). In secondo luogo, questo Hoffmann da viaggio sfida allestimenti visti a Spoleto, Macerata e
Roma, anche se non gareggia con quelli
di Monaco di Baviera e della Scala. Gli ultimi due, di altissimo livello (ed
alto costo), sono concepiti per essere replicati per anni in più di un teatro
(quello di Monaco è una joint venture con la English National Opera di Londra e
quello della Scala una coproduzione con l’Opéra di Parigi, due teatri che
tengono le produzioni di successo in cartelloni per almeno un lustro)
“Les contes de Hoffmann” è l’ultima composizione del maestro
dell’operetta francese. E’ anche la sua prima ed ultima opera vera e propria mai
completata a ragione della sua prematura morte. Alla metà degli Anni Settanta
ritrovati alcuni manoscritti, venne approntata l’edizione critica. Quest’ultima
risultò di difficile realizzazione scenica a ragione della durata. Quindi, le
produzioni (in teatro ed in disco) sono di norma varie contaminazioni delle varie
versioni. Non è un problema filologico;
variano interi passaggi ed il peso relativo dei personaggi. Mentre nelle versioni rappresentante sino alla fine
degli Anni Settanta, “Les contes” aveva, nonostante il finale amaro, il
tono di un’opera leggera, l’edizione critica è apparsa drammatica, con passi
cupi e temi demoniaci.
L’apologo di Hoffmann (pittore, poeta scrittore e
musicista della Prussia della prima metà dell’Ottocento), delle sue quattro
donne, della musa/ispiratrice di lui innamorata e del mefistofelico
deuteragonista (che lo sconfigge ad ogni occasione) viene letto come quello
dell’incapacità di relazioni vere e di una vita in rapporti interinali
inconcludenti.
La scommessa del direttore artistico Marcello Lippi ha
avuto successo. La drammaturgia è affidata ad un gruppo giovane (Nicola Zorzi,
regia; Mauro Tinti, scene; Elena Cicorella costumi; Michele della Mea, luci)
che hanno portato l’azione ai primi del Novecento (il secondo atto si svolge in
una sala cinematografica dove si proietta un film muto); una scena unica, con
un po’ di tendaggi ed attrezzeria, mostra i vari luoghi. La direzione musicale
è nelle mani di Guy Condette. I cantanti sono giovanissimi , spesso per la
prima volta su un palcoscenico. Il protagonista è un brasiliano di 28 anni (Max Jota), il
deuteragonista un baritono di 23 anni (Federico Cavarzan), le cinque voci
femminili (Madina Serebryakova, Claudia Sasso, Velentina Boi, Marta Leung Kwing
Chung) hanno tra i 24 ed i 30 anni. Un piccolo coro in grado di ‘recitar
cantando’, una cooperativa di giovani
strumentisti. Tutti formati in cinque ‘laboratori’, ciascuno di una settimana,
da giugno a dicembre 2013, prima di iniziare le prove vere e proprie. Lo spettacolo
coglie a pieno il sapore agrodolce del lavoro.
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