OPERA/ "Les Contes de
Hoffmann" a Pisa: si può fare grande lirica anche spendendo poco
Pubblicazione:
mercoledì 12 febbraio 2014
Les contes de Hoffmann
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Il vostro ‘chroniqueur’
, al pari peraltro di quelli di quasi tutte le grandi testate nazionali,
trascura i 27 ‘teatri di tradizione’ e si concentra sulle grandi fondazioni
liriche. I ‘teatri di tradizioni’, così chiamati dalla normativa, sono
localizzati in gran misura in città d’arte oggi però con una popolazione di non
grandi dimensioni e non tali da sostenere ‘stagioni’ con numerose
rappresentazione. Si tratta spesso di veri e propri gioielli di architettura,
con 800-1000 posti, ideali per una buona acustica senza sforzare le voci.
Si collegano sovente in ‘circuiti’ su base regionale – ogni città non può
sostenere più di due-tre repliche dello stesso spettacolo-, sono finanziati in
gran misura da enti e sponsor locali nonché da contributi statali strettamente
collegati al numero delle rappresentazioni – non su base annua come le 13
fondazioni di cui una diecina ha accumulato un debito di oltre 350 milioni di
euro ed è corsa ai provvedimenti della ‘legge Bray’ per prestiti agevolati
basati su drastici piani di ristrutturazione.
Su questa
testata, è stato sottolineato che in questi ultimi anni l’innovazione, nel
teatro in musica, si è vista più in teatri di ‘tradizione’ (ad esempio il
Massimo Bellini di Catania, l’Alighieri di Ravenna, il Pergolesi di Jesi, il
Sociale di Como, il Fraschini di Pavia) che nelle fondazioni liriche. E’ nei
teatri ‘di tradizione’ che si sono viste regie innovative, impiego inteso di
nuove tecnologie per ridurre i costi, registi e cantanti giovani e talentuosi.
Erano anni
che non visitavo il Teatro Verdi di Pisa, parte di un circuito che comprende
anche il Teatro Goldoni di Livorno ed il Teatro del Giglio di Lucca. Sono
stato spinto da due elementi. L’anno scorso, l’Opera Studio, per la formazione
dei giovani ha ottenuto il ‘Premio Abbiati’, ossia l’Oscar della lirica. E’ in
programma
“Les contes
de Hoffmann” di Jacques Offenbach , opera da me amatissima poco nota in
Italia (anche se negli ultimi dieci anni la si è vista a Spoleto, a Roma,
a Macerata ed alla Scala). La produzione andrà a Livorno e Lucca nel resto del
mese di febbraio ed a Novara in novembre.
“Les contes
de Hoffmann” è un lavoro inquietante ancor più che ambiguo che merita
attenzione. E’ l’ultima composizione per la scena del maestro
dell’operetta francese, che era diventato ricco e famoso grazie al successo di
capolavori del teatro leggero (soffuso di satira politica e sociale) quali “Orphée
aux Enfers” e “La belle Helène”. E’ anche la prima ed
ultima opera vera e propria composta da Offenbach, rimasta mai completata a
ragione della sua prematura morte. Più che incompiuta, “Les contes de
Hoffmann” è stata lasciata in un’edizione ridotta, e in parte spuria, per
le esigenze de l’Opéra Comique, dove ebbe un enorme successo in una versione
che, con pochi adattamenti, è stata rappresentata sino alla metà degli Anni
Settanta quando, ritrovati alcuni manoscritti, venne approntata l’edizione
critica. Quest’ultima risultò di difficile, ove non impossibile, realizzazione
scenica a ragione, se non altro, di quella che sarebbe stata la durata. Quindi,
le produzioni (in teatro ed in disco) sono di norma varie contaminazioni delle
versioni pubblicate dalla fine dell’Ottocento al 1934 con l’edizione critica
del 1977. Non si tratta di un problema solo o principalmente filologico in
quanto variano interi passaggi ed il peso relativo dei personaggi tanto che ad
ogni edizione “Les contes” sembra un’opera nuova. Ma le chiavi di
lettura cambiano in misura significativa.
Mentre
nelle versioni rappresentante sino alla fine degli Anni Settanta, “Les
contes” aveva, nonostante il finale amaro, il tono di un’opera leggera, ove
non quasi di un’operetta (almeno sino alla metà del secondo atto), l’edizione
critica è apparsa drammatica, con passi cupi e temi demoniaci. Qualcosa di ben
diverso, quindi, di un “piccolo Faust” da Terza Repubblica. Un lavoro è tanto
più inquietante in quanto può essere presentato e compreso in modi molto
differenti.
L’apologo di
Hoffmann (pittore, poeta scrittore e musicista della Prussia della prima
metà dell’Ottocento), delle sue quattro donne, della musa/ispiratrice di lui innamorata
e del mefistofelico deuteragonista (che lo sconfigge ad ogni occasione) viene
frequentemente letto come quello dell’incapacità di relazioni vere e di una
vita trascorsa in rapporti interinali inconcludenti.. Hoffmann corteggia Stella
, soprano di successo, ma mentre lei è impegnata nel “Don Giovanni” di
Mozart, si ubriaca di birra nella taverna accanto al teatro e si ricorda delle
sue donne precedente: Olimpia- la amò alla follia per accorgersi che era un
automa; Antonia, ammalatissima tanto che l’amore la fa perire; Giulietta,
affascinante ma essenzialmente una prostituta che vive in un mondo di
malaffare. Ciascuna delle tre (pure la bambola) lo tradisce. E al termine del “Don
Giovanni”, Stella da un’occhiataccia all’ubriaco e se ne va con un signore
elegante.
Si è
riportato un vasto sunto dell’opera per indicare quanto complesso sia il
lavoro. Su questa testata è stato recensito il 28 luglio 2012 in una produzione
del Teatro Nazionale di Monaco di Baviera con grandi voci (Rolando Villazon era
il protagonista e in alcune recite Diana Damrau interpretava le quattro
protagoniste femminili. Andando al ‘Verdi’ di Pisa mi tremavano i piedi
al pensare che un gruppo di giovani osasse tanto.
La scommessa
del direttore artistico Marcello Lippi ha avuto pienamente successo. Quali gli
ingredienti? La drammaturgia affidata ad un gruppo giovane (Nicola Zorzi,
regia; Mauro Tinti, scene; Elena Cicorella costumi; Michele della Mea, luci)
che hanno portato l’azione ai primi del Novecento (il secondo atto si svolge in
una sala cinematografica dove si proietta un film muto); una scena unica che
con un po’ di tendaggi ed un minimo di attrezzeria mostra i vari luoghi della
vicenda. La direzione musicale è nelle mani di Guy Condette, maestro
concertatore sulla cinquantina specializzato in questo tipo di
repertorio. Soprattutto, i cantanti sono giovanissimi , spesso per la
prima volta su un palcoscenico. Il protagonista è un ventottenne brasiliano
(Max Jota), il deuteragonista maschile è un baritono di 23 anni (Federico
Cavarzan), le cinque voci femminili (Madina Serebryakova, Claudia Sasso,
Velentina Boi, Marta Leung Kwing Chung) tra i 24 ed i 30 anni. Un piccolo coro
davvero in grado di ‘recitar cantando’, un’orchestra di una cooperativa di
giovani strumentisti. Tutti formati in cinque ‘laboratori’, ciascuno di una
settimana, da giugno a dicembre 2013, prima di iniziare le prove vere e
proprie.
Spettacolo
delizioso, che coglie a pieno il sapore agrodolce de “Les contes de Hoffmann”.
Veniamo
alla bottom line, come dicono i britannici. Tutto compreso
(compensi ai solisti, orchestra, coro, scene e costumi) 85.000 euro a recita,
rispetto agli oltre 500 milioni a recita che, secondo i maligni,
costerebbe ‘Manon Lescaut’ di Puccini nella nuova produzione
romana con Riccardo Muti nel podio e la regia affidata a sua figlia Chiara.
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2 commenti:
Mi piacerebbe poter rispondere direttamente all’autore di questo “scoop” secondo il quale è possibile fare grande lirica spendendo poco. Mi piacerebbe chiedergli se ha potuto prendere in esame il bilancio delle spese di produzione, le ripartizioni dei costi e i cachet del cast. Se è a conoscenza dell’impegno di ogni singolo artista in termini di tempo. Se è d’accordo sul fatto che un’artista che ha studiato tutta la vita, che si è laureato, specializzato e perfezionato debba lavorare in trasferta per un mese a meno di mille euro lorde. Se per lui è normale che gli artisti debbano lasciare gli affetti familiari, i genitori, i figli i mariti e le mogli per interminabili periodi della propria esistenza, alloggiare in stamberghe che spesso non soddisfano neppure i minimi standard di sicurezza, igiene e privacy e spendere denaro proprio perché si possano produrre opere a basso costo. Grandi opere a basso costo e ben rappresentate, come lui stesso dichiara. Qualcuno dovrebbe dirgli che il lavoro dovrebbe essere pagato, che il sacrificio di questi professionisti che non si trovano all’angolo ma che spesso provengono da altri paesi, da altri continenti, dovrebbe essere ripagato se non con il denaro almeno con il rispetto e un sonoro grazie. Grazie per essersi sacrificati, in nome dell’arte, in nome della cultura. Bisognerebbe dirgli che la cultura è un bene prezioso e che il teatro rende un servizio pubblico onesto, un servizio nel quale gli utenti possono in modo diretto e immediato valutare il valore con applausi o fischi, decretando il futuro degli artisti impegnati.
Quell’articolo è riprodotto ormai su decine di siti, e il messaggio che passa è quello che i costi non solo possono ma debbano essere contratti ai limiti (oltrepassati) dello sfruttamento. L’autore di quell’obbrobrio di faciloneria sembra essere totalmente dimentico che si trattava di un opera studio e in quanto tale i cachet hanno valore di mero rimborso spese. Dovrebbe forse rendersi conto del fatto che non sarà sempre possibile lavorare gratis per queste persone, perché anche chi canta “vissi d’arte”, mangia.
Roberto Cucchi
Grazie per il Suo commento. Amo l'opera (sono stato anche vice presidente di un ente) e mi spiacerebbe se sparisse. In Italia, gli alti costi e la bassa produttività hanno conseguenze nefaste. La legge Bray pone un tampone temporaneo ma la situazione rischia di portare alla chiusura di teatri proprio mentri quelli di austria, german, europa orientale ed estremo oriente fioriscono. Se mi manda il Suo mail (giuseppe.pennisi@gmail.com), Le invierò un'analisi che ho fatto sul tema. Sono contrario ad ogni forma di sfuttamento ma anche a teatri che alzano il sipario meno di 150 volte l'anno ed ad artisti i cui cachet triplicano in Italia rispetto ai cachet del Met a New York e della Staatsoper a Vienna ed ad organici smisurati
GP
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