Focus Rss
[Ma l'Europa tornerà a crescere?]
Sarkozy e Merkel
Qualche riflessione a margine del summit canadese
Ma l'Europa
tornerà a crescere?
di Giuseppe Pennisi Visti in diretta su Fox News, il G8 e il G20 non hanno fatto una buona impressione. Il primo è parso il ritratto di famiglia di un gruppo di signori e signore decadute ma orgogliose del loro ruolo e del loro peso passato. Quando il G8 si è trasformato in G20, alla “noblesse oblige” si sono aggiunti i “nouveax riches”. Insieme, sembravano un gruppo di malcapitati a cui era stata affidata una missione impossibile: guidare l’economia mondiale e farla uscire dalla crisi dell’Himalaya del debito e dei rischi di una nuova recessione.Nel comunicato del G20 la parola “crescita” e il verbo “crescere” appaiono almeno una mezza dozzina di volte, ma il solo impegno concreto preso dal G20 riguarda il dimezzamento dei disavanzi di bilancio entro il 2013. Sulle politiche di crescita si è avvitato il vertice. Alla vigilia, i 20 istituti econometrici internazionali, tutti privati, che costituiscono il “gruppo del consensus”, hanno diramato le proprie stime: crescita sostenuta negli Usa (il 3,3% nel 2010 e il 3% nel 2011) e in paesi emergenti come India e Cina (rispettivamente 7,8% e 8% la prima e 9,9% e 8,2% la seconda), ma piatta nell’area dell’euro (1,1% e 1,3% nei due anni presi in considerazione). Nel quadro di una decelerazione in Europa (a ragione delle manovre parallele di bilancio dei maggiori paesi Ue), non è incoraggiante la situazione dell’Italia: l’analisi econometrica preliminare dello stesso Ministero dell’Economia prevede una contrazione dell’occupazione (e, quindi, un aumento di coloro che cercano lavoro senza trovarlo) sino al 2014 e, quindi, una riduzione di salari medi e di consumi.Due determinanti frenano l’Ue: la struttura demografica (e le implicazioni dell’invecchiamento sulla produttività) e gli statuti che limitano al 2% l’anno il tasso d’aumento dei prezzi al consumo ammissibili prima di interventi diretti a restringere l’offerta monetaria. Inoltre, un lavoro ancora inedito del Gruppo Bruegel (uno dei più stimati osservatori dell’economia europea) documenta che sino a quando l’economia e la finanza internazionale saranno dominati dal profondo rosso dei conti con l’estero Usa (420 miliardi di dollari negli ultimi 12 mesi) in gran parte saldati con acquisto di titoli americani da parte della Cina (un saldo attivo di 282 miliardi di dollari nello stesso arco di tempo), l’Europa appare condannata a essere il vaso di coccio a crescita bassa. Lo è, però, ancora di più se si presenta (come ha fatto al G20 di Toronto) con posizioni solo formalmente unitarie, ma disunita (anzi, ai ferri corti tra Stati dell’Eurozona) su questioni cruciali (quali la riorganizzazione del Fondo monetario internazionale). In che misura l’annuncio di una maggiore flessibilità del cambio dello yuan potrà contribuire alla crescita? Un libro pubblicato a fine 2009 da Mark Shiao dell’Università di Londra ("Financial Regulation of Derivatives, Trust and Securitisation in China" Carswell Thomson Rueter) mostra a tutto tondo come la politica del cambio è solo un tassello di un complesso sistema di regolazione del mercato finanziario interno. Non è necessariamente il principale anche perché il sistema di regolazione è in rapida evoluzione e di difficile comprensione a europei e americani. In breve, un cambio più flessibile, o pure anche una svalutazione, possono essere agevolmente neutralizzati ritoccando le regolazione interne. Lo sostengono, in un saggio in “The World Economy”, Ronald McKinnon dell’Università di Stanford e Gunther Schanabl di quella di Lipsia. Unitamente a un veterano delle analisi della contabilità economica nazionale di vari paesi, Angus Maddison, i due economisti sottolineano che se in termini di parità di potere d’acquisto il Pil cinese è pari all’80% di quello Usa, nel contesto attuale, una rivalutazione dello yuan rispetto al dollaro non è forse nell’interesse né della comunità internazionale né della Cina. In altri termini, la ripresa mondiale richiede che l’Impero di Mezzo cresca all’8% l’anno; un probabile effetto di una rivalutazione significativa provocherebbe un rallentamento della crescita cinese e, con esso, di quella mondiale. Gli scenari più pessimisti sono quelli tratteggiati negli Stati Uniti, dove Dipartimento di Stato e Pentagono sembrano avere divergente di punti di vista con il Tesoro e con la Federal Reserve proprio su questo punto: nel settore “moderno” della Cina, in breve, ci sarebbero ben 150 milioni di uomini e donne in cerca di lavoro, questo numero aumenterebbe in caso di decelerazione della crescita, innescando seri problemi interni d’ordine pubblico e fomentando guerre e guerriglie locali (di cui in Occidente si sa poco o nulla). I cinesi sono consapevoli di questi e di altri problemi ancora più di quanto lo siano i sinologhi Usa. Come leggere allora il comunicato della Banca centrale? Una mera intenzione di riprendere, con gradualità, la strategia di ritocchi al margine già attuata nel 2005-2008. Senza incidere né sugli squilibri mondiali né, ancor meno, sui problemi interni del paese. A Toronto si è parlato molto del tasso di cambio dello yuan, ma non si è concluso nulla.
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