mercoledì 23 giugno 2010

Il Patto di stabilità è un po' meno "stupido"... E al Consiglio europeo, un successo per l'Italia Ffwebmagazine 22 giugno

Il Patto di stabilità è un po' meno "stupido"...
E al Consiglio europeo,
un successo per l'Italia
di Giuseppe Pennisi
Il Consiglio Europeo del 17 giugno verrà ricordato come un grande successo dell’Italia. È iniziata infatti la revisione di una delle clausole del Trattato di Maastricht e del Patto di Stabilità più penalizzanti nei confronti del nostro paese e meno giustificate sotto il profilo dell’economia e della finanza: quella relativa al rapporto tra stock di debito pubblico e Pil. È poco elegante citare se stessi: quando, con coraggio, Mario Baldassarri pubblico (nel lontano gennaio 1999) un mio saggio in materia sulla “Rivista di Politica Economica” (di cui era direttore) venni accusato di essere un “euroscettico” e anche un “crumiro” degli interessi dell’Italia. Il tempo è galantuomo e a 11 anni di distanza ha dato ragione non tanto a me quanto all’Italia.

Il parametro (per il quale non esiste alcuna giustificazione logico-matematica) è stato voluto dal Benelux (su pressione della Germania) con la chiara intenzione di escludere l’Italia dal gruppo di testa dell’euro. Siamo riusciti a rientrare grazie alla “mediazione Carli” in base alla quale , all’ultima ora, la clausola venne cambiata nel senso di richiedere una politica economica che permettesse allo stock di debito di ridursi e di non superare il 60% del Pil.

Veniamo ai fatti e alle analisi . Il debito pubblico dell’Italia ha segnato l'ennesimo record assoluto dopo quello dello scorso ottobre: ad aprile s'è attestato a 1.812,790 miliardi di euro, ossia poco più di 30.000 euro per ciascun italiano. A ragione della contrazione economica del 2009, il rapporto tra stock di debito pubblico e Pil, quindi, cresce di nuovo; nel 2009 si era attestato al 115,8% - adesso le stime più accreditate per il 2010 (i 20 maggiori istituti econometri internazionali) - lo situano tra il 118% ed il 120%. Non c’è da esserne orgogliosi, ma la diramazione del dato non ha provocato né fibrillazione dei mercati né una corsa a vendere titoli del Tesoro italiano (all’ultimi asta, anzi, la domanda è stata naturalmente superiore all’offerta).

Infatti, il dato va interpretato con cura. Anche e soprattutto perché in preparazione del Consiglio Europeo era in corso un confronto in sede europea sulla strategia Ue per uscire dalla crisi internazionale (da presentare al G20 in calendario il 26 giugno a Toronto). Mentre nel documento predisposto dalla Commissione Europea (ed accettato da gran parte dei nostri partner) si sottolineava il ruolo del rapporto tra debito pubblico e Pil (e della necessità di ridurlo andando tendenzialmente al 60% previsto sia dal Trattato di Maastricht sia dal Patto di crescita e di stabilità), l’Italia sosteneva che un indicatore più eloquente è il rapporto “tra debito aggregato” e Pil poiché riflette le differenti propensioni al risparmio (e, dunque, i differenti tassi di risparmio) dei vari paesi. Il debito totale italiano è pari al 243% del Pil, oltre la metà è privato, quasi tutto nelle mani di residenti. Il totale è nella media Ue, ma la proporzione del debito italiano nelle mani di non residenti è stimata pari o poco più del 20% dell’aggregato rispetto ad oltre il 90% della Grecia e del 70%-80% di Spagna e Portogallo.

Nel dibattito si sono inserite due analisi recenti (e distinti e distanti da interessi particolaristici di questo o di quel paese Ue). Il primo viene brandito come una sciabola dalla Commissione europea e da partner Ue: è un lavoro della Banca mondiale – l’autore principale è l’economista tedesco Fritzi Khöler-Geib) ancora in fase di affinamento. Dall’analisi risulta (sulla base di un campione di 99 paesi nel periodo tra il 1980 ed il 2008) che “di norma” il debito pubblico deve cominciare a preoccupare quando supera il 77% del Pil. Superata quella soglia, ciascun punto percentuale provoca “di norma” un decelerazione del Pil dello 0,0017% l’anno a ragione degli effetti su tassi d’interesse e, quindi, attività economica.

Più specifico all’area dell’euro, un altro studio di un economista tedesco (Rainer Willi Maurer della Hochschule Pforzheim University, Tiefenbronner Str. 65, D-75175 Pforzheim, Germany, oppure scaricabile dal sito www.rainer-maurer.com). Maurer appartiene alla scuola degli “economisti sperimentali” e analizza la crisi dell’ultimo anno nell’area dell’euro sulla base non di teoremi ma delle lezioni che emergono dai fatti. La prima conclusione del suo lavoro è che i “parametri” di Maastricht sono stati mal pensati (non utilizza il termine “stupidi” impiegato – è noto - da Romano Prodi) in quanto possono fomentare crisi. La seconda conclusione riguarda il grilletto che ha indotto gli operatori a puntare contro Grecia, Portogallo, Spagna e Irlanda (e non contro l’Italia che già prima della crisi del 2009 aveva un rapporto elevato tra debito pubblico e Pil).

Veniamo al secondo punto: al di là nelle “norme” statistiche aggregate, l’analisi conclude che ciò che conta è l’esposizione totale verso l’estero, ossia il “debito pubblico” detenuto da operatori non residenti e il debito privato detenuto anch’esso da non residenti. Beneficiare di tassi d’interesse relativamente bassi (a ragione dell’appartenenza all’unione monetaria) ha incoraggiato certi paesi a indebitarsi all’interno ma anche e soprattutto all’estero. Sino a quando la fune si è spezzata. Le banche francesi detengono 500 miliardi del debito di Grecia, Irlanda, Portogallo e Spagna; quelle tedesche 48 miliardi. A queste cifre occorre aggiungere le cifre ingenti di greci, irlandesi, portoghesi e spagnoli residenti all’estero ma detentori di titoli, per lo più obbligazionari, dei loro paesi.

Ma allora – si potrebbe dire – perché non scatta un attacco contro gli Stati Uniti (indebitatissimi soprattutto con la Cina)? Da un lato, Washington è in posizione di signoraggio poiché il loro dollaro resta il centro del sistema. Da un altro, nessuno (soprattutto la Cina) ha interesse a un deprezzamento del “green back” di cui sarebbe la principale vittima.

Andiamo brevemente al primo punto: perché i “parametri” (così come scritti e interpretati) fomentano la crisi? Maurer dimostra che Grecia Irlanda, Portogallo, e Spagna hanno mantenuto tassi d’inflazione molto elevati (se computati in termini d’andamento dei salari e di costo del lavoro per unità di prodotto, non dell’indice armonizzato dei prezzi al consumo Bce). La lezione: rivendere i parametri per renderli, prodianamente parlando, meno “stupidi”. E al Consiglio europeo tale processo di revisione è iniziato proprio nel senso voluto dall’Italia.

22 giugno 2010

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