lunedì 7 giugno 2010

CLT - Lirica, “Terza” sinfonia di Mahler chiude stagione a S. Cecilia Il Velino 7 maggio

CLT - Lirica, “Terza” sinfonia di Mahler chiude stagione a S. Cecilia


Roma, 7 giu (Il Velino) - L’Accademia di Santa Cecilia ha intrapreso il compito monumentale di presentare a Roma tra la primavera 2010 e l’autunno 2011 l’integrale delle sinfonie di Gustav Mahler in occasione della doppia ricorrenza (150 anni dalla nascita, 100 dalla morte). Il concerto conclusivo della stagione 2009-2010 è stato dedicato alla monumentale e grandiosa Terza Sinfonia in re minore, una delle sinfonie più amate dal pubblico romano, ascoltata all’Accademia ben nove volte nell’ultimo quarto di secolo. Mahler nacque in Boemia nel 1860 e si costruì una prima carriera a cavallo tra l’impero tedesco (sempre più dominato dalla Prussia) e la monarchia austro-ungarica. Si stabilì a Vienna proprio mentre un secolo stava per terminare e l’altro per iniziare e si esiliò a New York per fuggire dagli intrighi di una società già sul punto suicidarsi con la Prima guerra mondiale. Rientrò a Vienna solo in tempo per morirvi, nel 1911. In sintesi, Mahler esprime la crisi della cultura occidentale a cavallo tra due epoche. Crisi molto presente proprio nella Terza delle sue sinfonie, la più prossima, per struttura e contenuto, a un dramma in musica.

Mahler è stato direttore d’orchestra acclamato e innovativo di musica lirica, prima ancora che di sinfonica, poiché volto alla rigorosa interpretazione della partitura senza abbellimenti da parte degli interpreti. In effetti, in vita, è stato apprezzato più come concertatore che come compositore, perché troppo netta era la rottura sia nella sinfonia (dove venivano, specificamente nella Terza, introdotti elementi folcloristici e popolari, oltre alla voce umana), sia nel Lieder (dove il canto veniva giustapposto al grande organico). L’Olanda diventò la roccaforte degli estimatori delle sue composizioni. La sua musica, messa al bando in Germania nel 1933, tornò a essere eseguita con frequenza dalla fine degli anni Cinquanta, non solo grazie ai suoi allievi (Walter, Kemplerer) e alla nidiata di (allora) giovani concertatori (Kubelik, Bernstein, Solti, Haitink), ma pure a ragione della stereofonia che rese possibile la realizzazione del concetto mahleriano di suono spaziale. Concetto, si badi bene, che si applica al teatro in musica quasi più che alla musica sinfonica e che è stato ed è, dunque, centrale all’opera sia del “Novecento storico” sia, anzi soprattutto, contemporanea.

Mahler partecipò attivamente ai movimenti culturali più nuovi e tormentati del suo periodo, in primo luogo la “secessione” in architettura e nelle arti figurative. Ben lo raffigurano le riproduzioni di Klimt nel cofanetto fine anni Sessanta dei 14 long-playing delle sinfonie dirette da Kubelik alla guida dall’orchestra della radio della Baviera. Avido lettore di Dostojevsky, di Nietzche e, ovviamente, di Goethe, e accompagnato da una vita interiore complessa (da una conversione di maniera al cattolicesimo al complicato rapporto con la giovane e bellissima moglie Alma Schindler), Mahler rappresenta più di altri le difficoltà dell’intellettuale mitteleuropeo agganciato a un passato sul punto di scomparire e rivolto verso un futuro da contenuti e contorni ancora non definiti. A titolo di raffronto, anche Richard Strauss fu espressione di una crisi di transizione, almeno sino ad “Elektra”. Già con il “Rosenkavalier” mostrò di avere meravigliosamente metabolizzato il passaggio del tempo. Con “Ariadne auf Naxos” e “Die frau ohne Schatten” (rispettivamente, trionfo dell’eros sulla morte e inno alla paternità e alla maternità) dimostrò di aver superato ogni tremore e di essere tra gli intellettuali del XX secolo che guardavano con una punta di ironica melanconia al XIX. Si era al crepuscolo degli stati nazione e degli imperi multinazionali. Il centro della politica, dell’economia e dell’intellighenzia cominciava a spostarsi dall’Europa all’altra sponda dell’Atlantico.

Nell’immaginario del pubblico meno accorto, Mahler condivide, con Wagner, una leggenda: quella di essere stato un compositore fluviale. Al pari di Wagner, Mahler compose relativamente poche ore di musica. Wagner rivoluzionò il teatro in musica, se non addirittura la musica occidentale in tutti i suoi canoni, con 13 drammi e pochissime composizioni orchestrali. Mahler ci ha lasciato appena dieci sinfonie (di cui l’ultima incompiuta) e 43 lieder (uno in meno di quelli contenuti nel solo ciclo del “libro dei lieder spagnoli” di Hugo Wolf): numero modesto rispetto a quelli di Schubert, Schumann e Brahms. Mahler, tuttavia, rivoluzionò la sinfonia togliendola dalle strutture formali rimaste sostanzialmente immutate da Haydn a Beethoven, aggiungendovi voci e cori e fondendola con il lied (si pensi al quarto tempo della Seconda, della Terza e della Quarta sinfonia, nonché al quinto della Terza). Una concezione nuovissima che la avvicinava all’opera: Luigi Rognoni ha scritto efficacemente che così come Wagner introdusse la sinfonia nell’opera, Mahler introdusse l’opera nella sinfonia. Inoltre, nelle prime quattro sinfonie è presente quella “musica a programma” (i “poemi sinfonici” nel lessico italiano) che Mahler affermava di respingere in toto.

Un grimaldello per comprendere Mahler come espressione di crisi, è l’accostamento della Settima sinfonia (1908) alla Terza (1895-96). La Settima entusiasmò Schoenberg poiché ha, in nuce, tutti i contrasti e le contraddizioni del secolo breve: è avvolta in un mistero notturno in “mi” minore (gli è stato attribuito il nome di “Canto della notte”) dominato da fantasmi, specialmente nello sterminato primo movimento. Gli spettri paiono avere il sopravvento anche nello “scherzo” e ricompaiono infuocati nel rondò finale: un’orgia di suoni modernissimi su un tema antico (come il finale di “Elektra” di Strauss). La Terza è, invece, un immenso poema in “re” minore che inneggia al risveglio della natura in una mattina d’estate. Un saluto gioioso al nuovo secolo, anche con toni elegantemente sguaiati, la Terza; premonitrice del suicidio d’Europa, la “Settima”. Ciò ne rende ancora di più i suoi contenuti analoghi a quelli di un dramma in musica, sulla falsariga di come il teatro in musica stava evolvendo in Germania e nell’Europa Centrale, lontano quindi da tentazioni veristiche ma sempre più agganciato al simbolismo (si pensi a Bartòk, Korngold, Schekrek, Krenek o Zemlisky). Tanto più che c’è un personaggio: il contralto che nel quarto movimento intona un passaggio dal “Così parlo Zaratustra” di Nietzsche e nel quinto dialoga con un coro femminile e un corso di voci bianche su liriche dal “Corno magico del fanciullo”. La presenza del personaggio e del doppio coro preparano, dopo l’esaltato primo movimento (un vero e proprio quadro sul risveglio della natura), il finale sereno (quasi buddista) di un sesto movimento in cui quasi si anticipa l’addio al mondo del “Adschield” del “Das Lied von der Erbe”.

Poco più di due anni fa, l’Accademia di Santa Cecilia affidò la direzione della Terza a Gustavo Dudamel. Oggi il viennese Christian Arming è corso a sostituire il finlandese Mikko Franck, ammalato. Sia Dudamel, sia Arming che Franck sono giovani. Arming si avvicina ai 40 anni, Dudamel e Franck sono attorno ai 30. Arming ha dato una lettura molto differente da quella di Dudamel: elegante, composta, quasi cesellata con attenzione a sottolineare le sfumature ed il braccio sinistro contenuto, simile se si vuole a quello di un Solti o di un Kubelik, distante dall’impetuosità e quasi sensualità del più giovane collega venezuelano. Lo si avverte sin dall’esordio della lunga (35 minuti) e complessa prima parte. L’inizio è robusto, ma, successivamente, Arming scivola, volutamente, in un lirismo molto delicato che quindi fa notare ancora di più l’annuncio delle varie marce (da quella funebre e quella festosa e vagamente sguaiata) che si intrecciano prima dell’allegro moderato con cui si chiude il movimento. Impeto, lirismo e intreccio di marce esaltano il panteismo al centro specialmente della prima parte della sinfonia.

Il “minuetto” con cui viene intitolato, con un pizzico d’ironia, il secondo movimento, quello con cui si apre la seconda parte, è trattato con un piglio tra il languido e lo scherzoso, tenuto anche nel terzo movimento, incentrato sull’episodio del “corno del postiglione”. L’atmosfera è quella di un viaggio allegro quale vorrebbe essere quello della vita. Al quarto movimento, chiamato da Mahler “misterioso”, Arming, splendidamente aiutato non solo dall’orchestra ma anche dall’ampio registro e dal timbro chiaro di Sara Mingardo, ci riporta al punto centrale della sinfonia e al suo anticipare l’opera più amata da Richard Strauss, “Die frau ohne Schatten”: non ci può essere gioia, neanche quella del risveglio panteistico in un mezzogiorno d’estate, senza dolore. Lo dicono i bei versi di Nietzsche cantati dalla Mingardo e l’orchestra tutta, specialmente i fagotti, nonché la delicatissima cornetta da postiglione affidata ad Andrea Lucchi. La tensione drammatica, fortissima, sfocia nell’esplosione di gioia del quinto movimento, dal “Bim Bam” del coro dei bambini all’evocazione del peccato e della redazione nell’interazione tra solista e coro femminile. A differenza di Dunadel, Armin dilata i tempi per giungere a una chiusura lenta, quasi in aperta polemica con la struttura convenzionale delle sinfonie, ma in cui, prima del diminuendo finale, fiati, percussioni e archi rievocano l’afflato panteistico iniziale. Una direzione musicale strepitosa a cui il pubblico ha risposto con vere ovazioni da stadio. Un augurio per la prossima stagione.

(Hans Sachs) 7 giu 2010 14:12



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