ECO - La manovra e l’anti-capitalismo di professione
Roma, 3 giu (Il Velino) - Messi in archivio, con l’implosione dei Paesi “a socialismo reale”, quelli che in un libro di oltre un quarto di secolo fa Luciano Pellicani definì efficacemente “i rivoluzionari di professione”, pullulano, in tutta Europa ma specialmente in Italia quelli che (parafando un titolo sempre di Pellicani, Anatomia dell’anticapitalismo, Rubettino 2010) possono essere chiamati gli “anti-capitalisti di professione”. Lo si vede chiaramente nel dibattito sulla manovra di finanza pubblica che l’Italia (insieme a molti altri Paesi europei) è chiamata fare nel corso di questa estate 2010.
La manovra riguarda come affrontare tre grandi delusioni collegate, in un modo o nell’altro, all’unione monetaria. La prima delusione si riferisce alla promessa (fatta in Italia principalmente da Romano Prodi) che, una volta entrati nel gruppo di testa dell’euro, avremmo avuto, dopo una breve turbolenza (da alcuni chiamata “il purgatorio”), una scala paradisiaca di crescita e sviluppo grazie al ribasso dei tassi d’interesse ed alla socializzazione (con gli altri partner del’unione monetaria) del nostro debito pubblico, senza effettuare penose riforme strutturali ai mercati del lavoro, dei prodotti, dei servizi e senza dolorosi riassetti istituzionali. La Grecia dovrebbe avere aperto gli occhi a quegli “europeisti di professione” che declinano anche l’”anticapitalismo di professione”. In Italia, la situazione del Mezzogiorno è un’illustrazione palese: l’adesione all’euro è stata una grande opportunità di attuare le necessarie riforme a ragione dell’irreversibilità dell’euro- lo scrissi nel 1999 su La Rivista di Politica Economica (non un foglio di partito) e venni accusato di essere un “bossiano siciliano”, attributo che, al di là delle intenzioni di chi lo ha pronunciato, considero un complimento. Un’opportunità che non è stata colta, con gli esiti che si possono toccare con mano, dalle classi dirigenti del Sud e delle Isole. Parimenti l’accanimento degli “anti-capitalisti di professione” contro governi legittimamente eletti ed i muri di granito e di gomma innalzati contro gli inviti a collaborare insieme nella formulazione e nella realizzazione delle riforme sono una determinante della bassa crescita del Paese e, quindi, dell’aumento di indicatori come i rapporti tra indebitamento netto della pubblica amministrazione e stock di debito pubblico, da un lato, e Pil, dall’altro.
La seconda delusione riguarda la fiducia eccessiva, per il futuro dell’Europa (e dell’Italia), nella ri-regolazione dei mercati finanziari. Le misure introdotte per frenare certe forme di contrattazioni azionarie con un’eccessiva leva finanziaria avranno, nel mercato globale ed europeo, gli effetti della somministrazione di un’aspirina. Gli “anti-capitalisti di professione” ne vorrebbero molte di più con un livore nei confronti delle banche analogo (mi riferisco ancora al libro recente di Pellicani) a quello che Lenin aveva nei confronti della borghesia. Non si rendono conto che in un mondo già fortemente integrato dal punto di vista economico e finanziario, indossiamo tutti (i governi ed i Parlamenti in primo luogo) “una camicia di ferro dorata” in base alla quale o seguiamo una lex mercatoria fatta di prassi e comportamenti più che regole scritte o affondiamo.
La terza delusione riguarda l’efficacia della macchina da guerra allestita (fondo di salvataggio, rete di accordi bilaterali, condizionalità incrociate) per parare attacchi contro Paesi più o meno deboli dell’area dell’euro (oggi Grecia, domani Portogallo e Spagna, dopodomani Italia se il Mezzogiorno non metabolizza cultura e prassi europee). Non solamente la somma prevista è inadeguata e le procedure per attivarla sono macchinose, ma guarda agli aspetti finanziari mentre i nodi riguardano l’economia reale- ossia come rimettere in modo la produttività in Paesi dove da oltre un decennio ci si è assuefatti a andamenti o rasoterra o negativi.
L’anti-capitalismo di professione protesta perché la riduzione della spesa pubblica influisce sui tenori di vita anche di categorie a reddito medio-basso. Sono costi di breve periodo necessari per rilanciare la produttività del sistema. Il filosofo americano John Rawls – defunto da alcuni anni a mai collaterale al centro destra italiano – ci ha insegnato (Pellicani ce lo ricorda nella sua ultima fatica) che una società è tale solo se “i membri della comunità hanno in comune un senso di giustizia e sono vincolati dai legami della fratellanza civica” e che è essenziale “uno scopo finale condiviso e modi accettati di realizzarlo”. Lo scopo finale è l’aumento della produttività (la grande palla di piombo al piede del sistema Italia). Se l’opposizione non lo condivide, lo dica apertamente. Se i modi proposti per realizzarlo non sono “accettati”, se ne propongano alternative concrete, senza perdere altro tempo a discettare di nani e di ballerine.
(Giuseppe Pennisi) 3 giu 2010 11:03
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