ECO - Il ruolo marginale dei paesi Bric nell’economia mondiale
Roma, 30 giu (Il Velino) - La riunione dei cosiddetti paesi “Bric” (Brasile, Russia, India, Cina) a margine del G20 non si è tenuta poiché, spiega un comunicato, il presidente del Brasile Lula era indisposto. Lo si è visto, invece, in piena forma nei suoi incontri con il nostro presidente del Consiglio Berlusconi e la corte d’imprenditori che lo accompagnavano. L’episodio, per piccolo che sia, deve indurre a riflettere sulle illusioni che molti hanno risposto sui Bric come motore della crescita mondiale. In primo luogo, il gruppo in quanto tale non esiste. Si tratta di realtà molto differenti che hanno rinunciato alle loro riunioni a latere del G20 perché hanno poco e nulla da dirsi e il tempo è prezioso per tutti. In secondo luogo, i Bric sono stati uno degli elementi dell’attuale pasticciaccio brutto della finanza e dell’economia mondiale. La teoria economica (in particolare quella elaborata da H. Minsky) aveva anticipato, con la teorizzazione della “grande moderazione”, che la fase di crescita relativamente contenuta dell’economia mondiale, bassa inflazione e bassi tassi d’interesse reali e monetari, sarebbe sfociata in una nuova grande crisi, successiva a quelle degli anni ‘80 (America Latina , in particolare) e gli Anni 90 (Russia, Brasile, Asia) e molto più vasta e profonda: avrebbe portato a una crescita molto rapida di liquidità. Seguii lo stesso ragionamento - è antipatico citare sé stessi - in un breve saggio pubblicato nel 1999 in due numeri di Mondoperaio.
Questo punto è stato sviluppato magistralmente, e in modo divulgativo, da Martin Wolf nel libro “Fixing Global Finance. Forum on Constructive Capitalism”. In breve, negli anni della “grande moderazione”, lo squilibrio dei conti con l’estero degli Usa ha avuto l’effetto di aumentare a dismisura i saldi attivi dei paesi colpiti dalla crisi degli anni 90 (tra cui, in primo luogo, Brasile, Russia e Sud Est asiatico). Il Brasile e la Russia, tra l’altro, sono stati molto abili nel gestire la loro politica economica internazionale utilizzando la strumentazione della “teoria delle opzioni reali”: un documento della Banca Mondiale e del Banco Interamericano per lo Sviluppo analizza, ad esempio, come il Brasile abbia impiegato con acume le strategie e le stesse equazioni proposte da A. Dixit e R.S. Pindyck in “Investment under Uncertainty” (Princeton University Press) e come ciò abbia messo a repentaglio l’Argentina. Tali saldi attivi sono stati in gran misura collocati in titoli americani, gonfiando la liquidità interna Usa e ponendosi tra le componenti principali della crisi subprime. E’ difficile fare congetture sugli effetti delle recenti decisioni della Banca popolare di Cina in materia di tasso di cambio dello yuan sui saldi e sulla liquidità (anche perché Pechino, come altri paesi, ha di recente mutato strategia e il proprio attivo viene in parte incanalato tramite un fondo sovrano).
In terzo luogo, il mondo è in una fase di “globalizzazione parziale”, analoga a quella del 1870-1914. Come allora, è una “globalizzazione a macchia di leopardo” promossa dalla tecnologia (allora, elettricità e trasporti; oggi, le tecnologie dell’informazione e della comunicazione). All’epoca (ci sono analisi di livello, ad esempio di Jeffrey Williamson), ci fu l’ascesa di paese feudali (Germania e Giappone) tramite l’industrializzazione tardiva ma accelerata. Anche allora la trasformazione della struttura economica non venne accompagnata da un analogo sviluppo istituzionale, come dimostrato da D.C. North nel libro “Istituzioni, sviluppo Istituzionale, andamento dell’economia” (Il Mulino) che gli valse il Premio Nobel 1991. L’esito furono due guerre mondiali. North utilizza ampiamente la teoria dei giochi a più livelli e i paradigmi dell’economia dei costi di transazione (R. Putman, F. Del Monte, F. Barca e il sottoscritto abbiamo utilizzato il metodo North per l’analisi dei problemi del Mezzogiorno d’Italia). Sulla Cina, Amy Chua dell’università di Yale – ora americana ma d’ascendenza cinese - è giunta a conclusioni simili. Esistono monografie su Cina, Brasile e Russia che arrivano a risultati simili. Pur non disponendo di dati analoghi (e di una strumentazione econometrica), credo che il nostro studio debba focalizzarsi su questo punto. In quarto luogo, il G20 appena tenuto a Toronto è un’ulteriore dimostrazione che il ruolo dei Bric come motore per uscire dalla crisi non può essere che marginale a causa non solo del loro peso ancora limitato nell’economia mondiale ma soprattutto delle loro contraddizioni interne (ammesse dallo stesso Marcelo Neri, consigliere economico del Presidente Lula). Ai G20, in breve, i Bric sono poco più che comprimari. Il dialogo è essenzialmente tra Usa e Ue e sul ruolo della seconda nel trainare fuori dalla crisi l’economia mondiale, nonostante, secondo le stime effettuata da Angus Maddison prima di morire, a parità di potere d’acquisto il Pil della Cina sfiorerebbe l’80 per cento di quello degli Stati Uniti.
Infine, guardando ai Bric nel lungo termine dell’economia mondiale, si entra in pure congetture. Come ricordato in precedenza, per dare una assetto istituzionale “moderno” a Germania e Giappone è stata necessario il “secolo breve” con le sue due guerre mondiali. Le mie conoscenze dirette di Brasile, Russia e Cina mi inducono a ritenere che i problemi siano molto più complessi di quelli che dovettero affrontare all’epoca Germania e Giappone: al di fuori di pochi poli di sviluppo si è ancora a economia e società primitive come quelle dell’Africa Sub-Sahariana; i processi decisionali sono quanto meno poco trasparenti; le funzioni di benessere sociale perseguite dalle classi dirigenti, oscure e difficili da decifrare; la corruzione è diffusissima e i costi di transazione ( blocco primario allo sviluppo) elevatissimi, le discriminazioni (principalmente razziali) sono fortissime. Inoltre, India e Cina hanno un serio vincolo al proprio sviluppo: la scarsa disponibilità di risorse idriche. La Cina , inoltre, è l’unico paese al mondo con una lingua scritta ma non parlata, altro severo vincolo allo sviluppo. In materia c’è molta letteratura. II nodo essenziale è la tecnologia, il vero motore, ancora una volta, della globalizzazione. Mentre nel 1870-1910, i paesi di tarda industrializzazione svilupparono tecnologie “proprie” (siderurgia, chimica, impiantistica, strumentazione di precisione), i Bric perseguono una strategia di “efficienza adattiva” nell’adattare tecnologie altrui alla propria vasta disponibilità di lavoro e ai propri bassi salari e bassa protezione sociale. E’ una strategia che ha limiti ben precisi come dimostrò Sir Arthur Lewis nell’articolo del 1954 che gli fruttò il Premio Nobel.
(Giuseppe Pennisi) 30 giu 2010 13:22
mercoledì 30 giugno 2010
martedì 29 giugno 2010
Opera/ Muti, Metastasio e gli intrighi della politica romana Il Velino 29 giugno
CLT - Opera/ Muti, Metastasio e gli intrighi della politica romana
Roma, 29 giu (Il Velino) - A Salisburgo, in occasione del Festival di Pentecoste e a Ravenna, dal 2 al 6 luglio, Riccardo Muti si cimenterà con gli intrighi della politica romana di cui attende di fare conoscenza diretta quando l’anno prossimo sarà maestro concertatore e direttore d’orchestra principale del Teatro dell’Opera. Dirigerà, infatti, due opere squisitamente politiche sulla centralità internazionale di Roma. Il libretto è identico: “Betulia Liberata” di Pietro Metastasio, messo in musica, in un’edizione, da un Wolfgang Amadeus Mozart appena quindicenne (Metastasio allora aveva superato le 73 primavere) e in un’altra dal trentenne Nicolo Jommelli nel pieno della maturità artistica. A fine 2008, è stata presentata dalla piccola casa editrice MOS (i cui meriti sono inversamente proporzionali alle dimensioni), una terza versione di “Betulia Liberata” quale messa in musica da Pasquale Anfossi nel 1783 per conto del romano oratorio dei Filippini (oggi conosciuto come oratorio Borromini). In effetti si contano almeno una dozzina di oratori o di opere che mettono in musica il testo di Metastasio, poeta oggi dimenticato nonostante nella sua abitazione romana nei pressi di Campo de’ Fiori ci sia la sede di un’associazione a lui dedicata. Eppure, in vista delle celebrazioni per i 150 anni dell’unità d’Italia, andrebbe ricordato come “poeta cesareo”, presso la Corte di Vienna, che operò non solo per fare diventare l’italiano la lingua franca e colta di tutta l’aristocrazia europea, russa ed egiziana, ma anche e soprattutto per aver posto la centralità politica e culturale di Roma nel consesso europeo come aspetto fondante dei suoi lavori. Sotto la guisa di un oratorio religioso, “Betulia Liberata” pone Roma (ovviamente quella settecentesca) al centro della complessa vicenda europea della guerra di successione polacca, degli intrighi alla corte di Vienna e del futuro dell’Impero, ossia di quella che allora era l’Europa.
Il significato politico del lavoro è dimostrato dal suo successo: l’edizione in musica di Anfossi venne eseguita all’oratorio dei Filippini (con ben circa 16 repliche l’anno) dal 1781 al 1794, quando la Rivoluzione francese e i primi sentori di quelle che sarebbero state le guerre napoleoniche stavano travolgendo la politica romana, proprio per il significato che l’opera –oratorio aveva per Roma. Le versioni di Mozart e di Jommelli, non meno pregevoli di quella dell’Anfossi, nonostante applauditissime a Salisburgo e nel Veneto, non ebbero invece un pari riscontro di pubblico. Un saggio di Mario Valente, l’unico vero studioso di Metastasio oggi in Italia, rivela che dietro le note c’è molto di politico. Il testo metastasiano, infatti, venne situato in una Roma in cui non solo la guerra di successione polacca ma anche i conflitti per la corona d’Austria avevano accentuato le tensioni all’interno della Città Eterna tra i “giansenisti” da un lato (i Filippini non lo furono mai in senso integrale, ma ne furono collaterali) e gli ortodossi dall’altro; tra il primato teologico-politico del magistero della Chiesa romana, da una parte, e il clero della periferia, l’aristocrazia e la borghesia, quest’ultima emergente in tutta Europa, quindi anche nel Lazio e nel resto del dominio temporale del Papa Re, dall’altra. Roma (a quei tempi la Chiesa) si pose come grande mediatrice tra interessi contrapposti sia nel proprio Regno temporale sia tra le case regnanti d’Europa. Per riaffermare il primato anche politico della Chiesa, l’oratorio termina con un’aria con coro “Lodi al gran Dio” (parte II, no. 16) che segna la consacrazione di Giuditta, la cui gloria nella luce di Dio continuerà nel tempo, nel segno della libertà e del rispetto del suo popolo. Per rendere il significato ancora più esplicito (ove fosse stato necessario) nella versione messa in musica da Anfossi viene incluso un appello a Maria “donna forte” e invincibile”: un messaggio neppure troppo cifrato sia nei confronti delle case reali europee sul ruolo che Roma era convinta di dovere esercitare nella successione asburgica, sia nei riguardi dell’aristocrazia, della borghesia e dello stesso clero di periferia. Il messaggio è tanto più forte poiché nella vicenda biblica, ovviamente, non c’è e non ci può essere traccia della Vergine.
Siamo in un quadro storico in cui solamente pochi anni prima era stata sciolta la Compagnia di Gesù e ne erano stato confiscati i beni in quanto il papato vedeva con preoccupazione il crescente potere della congregazione. I Filippini della chiesa in Santa Maria in Vallicella, che si rifacevano a quel San Filippo Neri che si poneva come “il prete dei poveri” ed erano dotati di un programma teologico e religioso molto lineare e chiaro, conducevano un’attività politica più influente e incisiva di quanto non abbiano messo in luce recenti sceneggiati televisivi. Erano un’anomalia nella Controriforma poiché organizzati in piccole comunità, con un alto grado di democrazia interna, nonché aperti al vento nuovo dell’illuminismo. Da qui non solamente il collateralismo con il giansenismo e, quel che più conta, una “Betulia Liberata” in cui Giuditta coniuga Fede e Ragione. Un lavoro, quindi, modernissimo: basti pensare che l’enciclica “Fides et Ratio” di Papa Paolo Giovanni II ha una dozzina d’anni. Oloferne e la sua masnada, inoltre, possono essere identificati come il mondo islamico, privo tanto di Fede quanto di Ragione. Quando venne scritta l’“azione sacra” non erano passati molti lustri dall’assedio di Vienna: un “evento”, si direbbe oggi, che non poteva essere ignorato sia dalla corte imperiale sia dall’oratorio dei Filippini. La versione mozartiana è, per molti aspetti scolastica, da considerare una sorta di passo indietro rispetto a “Mitridate Re del Ponto” che a 14 anni il salisburghese compose su commissione del Teatro alla Scala. Sanguigna la versione di Jommelli. Molto politica quella di Anfossi, che attende ancora una prima esecuzione in tempi moderni.
(Hans Sachs) 29 giu 2010 14:00
Roma, 29 giu (Il Velino) - A Salisburgo, in occasione del Festival di Pentecoste e a Ravenna, dal 2 al 6 luglio, Riccardo Muti si cimenterà con gli intrighi della politica romana di cui attende di fare conoscenza diretta quando l’anno prossimo sarà maestro concertatore e direttore d’orchestra principale del Teatro dell’Opera. Dirigerà, infatti, due opere squisitamente politiche sulla centralità internazionale di Roma. Il libretto è identico: “Betulia Liberata” di Pietro Metastasio, messo in musica, in un’edizione, da un Wolfgang Amadeus Mozart appena quindicenne (Metastasio allora aveva superato le 73 primavere) e in un’altra dal trentenne Nicolo Jommelli nel pieno della maturità artistica. A fine 2008, è stata presentata dalla piccola casa editrice MOS (i cui meriti sono inversamente proporzionali alle dimensioni), una terza versione di “Betulia Liberata” quale messa in musica da Pasquale Anfossi nel 1783 per conto del romano oratorio dei Filippini (oggi conosciuto come oratorio Borromini). In effetti si contano almeno una dozzina di oratori o di opere che mettono in musica il testo di Metastasio, poeta oggi dimenticato nonostante nella sua abitazione romana nei pressi di Campo de’ Fiori ci sia la sede di un’associazione a lui dedicata. Eppure, in vista delle celebrazioni per i 150 anni dell’unità d’Italia, andrebbe ricordato come “poeta cesareo”, presso la Corte di Vienna, che operò non solo per fare diventare l’italiano la lingua franca e colta di tutta l’aristocrazia europea, russa ed egiziana, ma anche e soprattutto per aver posto la centralità politica e culturale di Roma nel consesso europeo come aspetto fondante dei suoi lavori. Sotto la guisa di un oratorio religioso, “Betulia Liberata” pone Roma (ovviamente quella settecentesca) al centro della complessa vicenda europea della guerra di successione polacca, degli intrighi alla corte di Vienna e del futuro dell’Impero, ossia di quella che allora era l’Europa.
Il significato politico del lavoro è dimostrato dal suo successo: l’edizione in musica di Anfossi venne eseguita all’oratorio dei Filippini (con ben circa 16 repliche l’anno) dal 1781 al 1794, quando la Rivoluzione francese e i primi sentori di quelle che sarebbero state le guerre napoleoniche stavano travolgendo la politica romana, proprio per il significato che l’opera –oratorio aveva per Roma. Le versioni di Mozart e di Jommelli, non meno pregevoli di quella dell’Anfossi, nonostante applauditissime a Salisburgo e nel Veneto, non ebbero invece un pari riscontro di pubblico. Un saggio di Mario Valente, l’unico vero studioso di Metastasio oggi in Italia, rivela che dietro le note c’è molto di politico. Il testo metastasiano, infatti, venne situato in una Roma in cui non solo la guerra di successione polacca ma anche i conflitti per la corona d’Austria avevano accentuato le tensioni all’interno della Città Eterna tra i “giansenisti” da un lato (i Filippini non lo furono mai in senso integrale, ma ne furono collaterali) e gli ortodossi dall’altro; tra il primato teologico-politico del magistero della Chiesa romana, da una parte, e il clero della periferia, l’aristocrazia e la borghesia, quest’ultima emergente in tutta Europa, quindi anche nel Lazio e nel resto del dominio temporale del Papa Re, dall’altra. Roma (a quei tempi la Chiesa) si pose come grande mediatrice tra interessi contrapposti sia nel proprio Regno temporale sia tra le case regnanti d’Europa. Per riaffermare il primato anche politico della Chiesa, l’oratorio termina con un’aria con coro “Lodi al gran Dio” (parte II, no. 16) che segna la consacrazione di Giuditta, la cui gloria nella luce di Dio continuerà nel tempo, nel segno della libertà e del rispetto del suo popolo. Per rendere il significato ancora più esplicito (ove fosse stato necessario) nella versione messa in musica da Anfossi viene incluso un appello a Maria “donna forte” e invincibile”: un messaggio neppure troppo cifrato sia nei confronti delle case reali europee sul ruolo che Roma era convinta di dovere esercitare nella successione asburgica, sia nei riguardi dell’aristocrazia, della borghesia e dello stesso clero di periferia. Il messaggio è tanto più forte poiché nella vicenda biblica, ovviamente, non c’è e non ci può essere traccia della Vergine.
Siamo in un quadro storico in cui solamente pochi anni prima era stata sciolta la Compagnia di Gesù e ne erano stato confiscati i beni in quanto il papato vedeva con preoccupazione il crescente potere della congregazione. I Filippini della chiesa in Santa Maria in Vallicella, che si rifacevano a quel San Filippo Neri che si poneva come “il prete dei poveri” ed erano dotati di un programma teologico e religioso molto lineare e chiaro, conducevano un’attività politica più influente e incisiva di quanto non abbiano messo in luce recenti sceneggiati televisivi. Erano un’anomalia nella Controriforma poiché organizzati in piccole comunità, con un alto grado di democrazia interna, nonché aperti al vento nuovo dell’illuminismo. Da qui non solamente il collateralismo con il giansenismo e, quel che più conta, una “Betulia Liberata” in cui Giuditta coniuga Fede e Ragione. Un lavoro, quindi, modernissimo: basti pensare che l’enciclica “Fides et Ratio” di Papa Paolo Giovanni II ha una dozzina d’anni. Oloferne e la sua masnada, inoltre, possono essere identificati come il mondo islamico, privo tanto di Fede quanto di Ragione. Quando venne scritta l’“azione sacra” non erano passati molti lustri dall’assedio di Vienna: un “evento”, si direbbe oggi, che non poteva essere ignorato sia dalla corte imperiale sia dall’oratorio dei Filippini. La versione mozartiana è, per molti aspetti scolastica, da considerare una sorta di passo indietro rispetto a “Mitridate Re del Ponto” che a 14 anni il salisburghese compose su commissione del Teatro alla Scala. Sanguigna la versione di Jommelli. Molto politica quella di Anfossi, che attende ancora una prima esecuzione in tempi moderni.
(Hans Sachs) 29 giu 2010 14:00
lunedì 28 giugno 2010
ALL’OPERA MUTI PER ROSSINI E VERDI Il Tempo 27 giugno
ALL’OPERA MUTI PER ROSSINI E VERDI
Giuseppe Pennisi
La prossima stagione del Teatro dell’Opera di Roma verrà inaugurata da Riccardo Muti con un nuovo allestimento di Moïse et Pharaon di Giacchino Rossini ; sempre nella prossima stagione Muti dirigerà a Roma un nuovo allestimento di Nabucco di Giuseppe Verdi. Il Tempo è in grado di anticipare queste notizie che verranno probabilmente annunciate ufficialmente alla conferenza stampa convocata per lunedì 28 maggio nella Sala delle Bandiere del Campidoglio . L’arrivo di Nuti a Roma, nella veste di maestro concertatore principale è molto atteso in un teatro che negli ultimi mesi è stato molto travagliato. Proprio in queste settimane al Festival di Pentecoste di Salisburgo e a Ravenna vengono presentate, dirette da Muti, due opere squisitamente politiche sulla centralità internazionale di Roma: il libretto è identico “Betulia Liberata” di Pietro Metastasio, messo in musica , in un’edizione, da un Wolfgang Amadeus Mozart appena quindicenne (Metastasio allora aveva superato le 73 primavere) ed un un’altra da un Nicolo Jommelli trentenne e nel pieno della maturità artistica . A fine 2008, è stata presentata da un editore piccolissimo (ed i cui meriti sono inversamente proporzionali alle dimensioni), le MOS edizioni (www.petrometastasio.com), una terza versione di “ Betulia Liberata” quale messa in musica da Pasquale Anfossi nel 1783 per conto del romano Oratorio dei Filippini (oggi conosciuto come Oratorio Borromini). Insomma, Muti, da lontano, pensa alla musica nata ed eseguita nella capitale.. Riuscirà a dare all’Opera di Roma la centralità che dovrebbe avere nel panorama lirico italiano ed europeo?
Giuseppe Pennisi
La prossima stagione del Teatro dell’Opera di Roma verrà inaugurata da Riccardo Muti con un nuovo allestimento di Moïse et Pharaon di Giacchino Rossini ; sempre nella prossima stagione Muti dirigerà a Roma un nuovo allestimento di Nabucco di Giuseppe Verdi. Il Tempo è in grado di anticipare queste notizie che verranno probabilmente annunciate ufficialmente alla conferenza stampa convocata per lunedì 28 maggio nella Sala delle Bandiere del Campidoglio . L’arrivo di Nuti a Roma, nella veste di maestro concertatore principale è molto atteso in un teatro che negli ultimi mesi è stato molto travagliato. Proprio in queste settimane al Festival di Pentecoste di Salisburgo e a Ravenna vengono presentate, dirette da Muti, due opere squisitamente politiche sulla centralità internazionale di Roma: il libretto è identico “Betulia Liberata” di Pietro Metastasio, messo in musica , in un’edizione, da un Wolfgang Amadeus Mozart appena quindicenne (Metastasio allora aveva superato le 73 primavere) ed un un’altra da un Nicolo Jommelli trentenne e nel pieno della maturità artistica . A fine 2008, è stata presentata da un editore piccolissimo (ed i cui meriti sono inversamente proporzionali alle dimensioni), le MOS edizioni (www.petrometastasio.com), una terza versione di “ Betulia Liberata” quale messa in musica da Pasquale Anfossi nel 1783 per conto del romano Oratorio dei Filippini (oggi conosciuto come Oratorio Borromini). Insomma, Muti, da lontano, pensa alla musica nata ed eseguita nella capitale.. Riuscirà a dare all’Opera di Roma la centralità che dovrebbe avere nel panorama lirico italiano ed europeo?
LE OPPORTUNITA’ CI SONO: BASTA APRIRE GLI OCCHI IL Tempo 28 giugno
LE OPPORTUNITA’ CI SONO: BASTA APRIRE GLI OCCHI
Giuseppe Pennisi
Le preoccupazioni degli studenti sono reali e sincere. Ne avevamo di analoghe anche noi alla loro età, anche perché vivevamo in un’Italia (ed in Europa) più povere. Quando seguivo il Liceo Classico, solo il 22% di coloro della mia età frequentavano la scuola secondaria superiore, eravamo pochi a laurearci ed ancor meno a proseguire gli studi negli Stati Uniti (dove li ho completati nel 1967). Oggi l’offerta di laureati in Italia è ancora notevolmente inferiore alla media europea e la nostra forza lavoro è molto meno qualificata di quella dei nostri correnti. Ritengo pure che il nodo non siano le barriere normative, ma vincoli sociologici molto più profondi. Molti giovani di oggi non guardano al futuro con ottimismo e speranza. Da un lato, ciò è il risultato di determinanti oggettive: in un ‘Italia ed in’Europa che invecchiano , la crescita economica necessariamente arranca. Da un altro, però,ci sono determinanti soggettive: ci si è abituati ad un livello di vita più confortevole di quello che avevamo noi e non si guarda alle opportunità che pur si presentano. Una scuola economica – la “neuro economia”- sostiene che si cresce solo con gioia.
Giuseppe Pennisi
Le preoccupazioni degli studenti sono reali e sincere. Ne avevamo di analoghe anche noi alla loro età, anche perché vivevamo in un’Italia (ed in Europa) più povere. Quando seguivo il Liceo Classico, solo il 22% di coloro della mia età frequentavano la scuola secondaria superiore, eravamo pochi a laurearci ed ancor meno a proseguire gli studi negli Stati Uniti (dove li ho completati nel 1967). Oggi l’offerta di laureati in Italia è ancora notevolmente inferiore alla media europea e la nostra forza lavoro è molto meno qualificata di quella dei nostri correnti. Ritengo pure che il nodo non siano le barriere normative, ma vincoli sociologici molto più profondi. Molti giovani di oggi non guardano al futuro con ottimismo e speranza. Da un lato, ciò è il risultato di determinanti oggettive: in un ‘Italia ed in’Europa che invecchiano , la crescita economica necessariamente arranca. Da un altro, però,ci sono determinanti soggettive: ci si è abituati ad un livello di vita più confortevole di quello che avevamo noi e non si guarda alle opportunità che pur si presentano. Una scuola economica – la “neuro economia”- sostiene che si cresce solo con gioia.
[Ma l'Europa tornerà a crescere?] in Ffwebmagazine del 28 giugno
Focus Rss
[Ma l'Europa tornerà a crescere?]
Sarkozy e Merkel
Qualche riflessione a margine del summit canadese
Ma l'Europa
tornerà a crescere?
di Giuseppe Pennisi Visti in diretta su Fox News, il G8 e il G20 non hanno fatto una buona impressione. Il primo è parso il ritratto di famiglia di un gruppo di signori e signore decadute ma orgogliose del loro ruolo e del loro peso passato. Quando il G8 si è trasformato in G20, alla “noblesse oblige” si sono aggiunti i “nouveax riches”. Insieme, sembravano un gruppo di malcapitati a cui era stata affidata una missione impossibile: guidare l’economia mondiale e farla uscire dalla crisi dell’Himalaya del debito e dei rischi di una nuova recessione.Nel comunicato del G20 la parola “crescita” e il verbo “crescere” appaiono almeno una mezza dozzina di volte, ma il solo impegno concreto preso dal G20 riguarda il dimezzamento dei disavanzi di bilancio entro il 2013. Sulle politiche di crescita si è avvitato il vertice. Alla vigilia, i 20 istituti econometrici internazionali, tutti privati, che costituiscono il “gruppo del consensus”, hanno diramato le proprie stime: crescita sostenuta negli Usa (il 3,3% nel 2010 e il 3% nel 2011) e in paesi emergenti come India e Cina (rispettivamente 7,8% e 8% la prima e 9,9% e 8,2% la seconda), ma piatta nell’area dell’euro (1,1% e 1,3% nei due anni presi in considerazione). Nel quadro di una decelerazione in Europa (a ragione delle manovre parallele di bilancio dei maggiori paesi Ue), non è incoraggiante la situazione dell’Italia: l’analisi econometrica preliminare dello stesso Ministero dell’Economia prevede una contrazione dell’occupazione (e, quindi, un aumento di coloro che cercano lavoro senza trovarlo) sino al 2014 e, quindi, una riduzione di salari medi e di consumi.Due determinanti frenano l’Ue: la struttura demografica (e le implicazioni dell’invecchiamento sulla produttività) e gli statuti che limitano al 2% l’anno il tasso d’aumento dei prezzi al consumo ammissibili prima di interventi diretti a restringere l’offerta monetaria. Inoltre, un lavoro ancora inedito del Gruppo Bruegel (uno dei più stimati osservatori dell’economia europea) documenta che sino a quando l’economia e la finanza internazionale saranno dominati dal profondo rosso dei conti con l’estero Usa (420 miliardi di dollari negli ultimi 12 mesi) in gran parte saldati con acquisto di titoli americani da parte della Cina (un saldo attivo di 282 miliardi di dollari nello stesso arco di tempo), l’Europa appare condannata a essere il vaso di coccio a crescita bassa. Lo è, però, ancora di più se si presenta (come ha fatto al G20 di Toronto) con posizioni solo formalmente unitarie, ma disunita (anzi, ai ferri corti tra Stati dell’Eurozona) su questioni cruciali (quali la riorganizzazione del Fondo monetario internazionale). In che misura l’annuncio di una maggiore flessibilità del cambio dello yuan potrà contribuire alla crescita? Un libro pubblicato a fine 2009 da Mark Shiao dell’Università di Londra ("Financial Regulation of Derivatives, Trust and Securitisation in China" Carswell Thomson Rueter) mostra a tutto tondo come la politica del cambio è solo un tassello di un complesso sistema di regolazione del mercato finanziario interno. Non è necessariamente il principale anche perché il sistema di regolazione è in rapida evoluzione e di difficile comprensione a europei e americani. In breve, un cambio più flessibile, o pure anche una svalutazione, possono essere agevolmente neutralizzati ritoccando le regolazione interne. Lo sostengono, in un saggio in “The World Economy”, Ronald McKinnon dell’Università di Stanford e Gunther Schanabl di quella di Lipsia. Unitamente a un veterano delle analisi della contabilità economica nazionale di vari paesi, Angus Maddison, i due economisti sottolineano che se in termini di parità di potere d’acquisto il Pil cinese è pari all’80% di quello Usa, nel contesto attuale, una rivalutazione dello yuan rispetto al dollaro non è forse nell’interesse né della comunità internazionale né della Cina. In altri termini, la ripresa mondiale richiede che l’Impero di Mezzo cresca all’8% l’anno; un probabile effetto di una rivalutazione significativa provocherebbe un rallentamento della crescita cinese e, con esso, di quella mondiale. Gli scenari più pessimisti sono quelli tratteggiati negli Stati Uniti, dove Dipartimento di Stato e Pentagono sembrano avere divergente di punti di vista con il Tesoro e con la Federal Reserve proprio su questo punto: nel settore “moderno” della Cina, in breve, ci sarebbero ben 150 milioni di uomini e donne in cerca di lavoro, questo numero aumenterebbe in caso di decelerazione della crescita, innescando seri problemi interni d’ordine pubblico e fomentando guerre e guerriglie locali (di cui in Occidente si sa poco o nulla). I cinesi sono consapevoli di questi e di altri problemi ancora più di quanto lo siano i sinologhi Usa. Come leggere allora il comunicato della Banca centrale? Una mera intenzione di riprendere, con gradualità, la strategia di ritocchi al margine già attuata nel 2005-2008. Senza incidere né sugli squilibri mondiali né, ancor meno, sui problemi interni del paese. A Toronto si è parlato molto del tasso di cambio dello yuan, ma non si è concluso nulla.
[Ma l'Europa tornerà a crescere?]
Sarkozy e Merkel
Qualche riflessione a margine del summit canadese
Ma l'Europa
tornerà a crescere?
di Giuseppe Pennisi Visti in diretta su Fox News, il G8 e il G20 non hanno fatto una buona impressione. Il primo è parso il ritratto di famiglia di un gruppo di signori e signore decadute ma orgogliose del loro ruolo e del loro peso passato. Quando il G8 si è trasformato in G20, alla “noblesse oblige” si sono aggiunti i “nouveax riches”. Insieme, sembravano un gruppo di malcapitati a cui era stata affidata una missione impossibile: guidare l’economia mondiale e farla uscire dalla crisi dell’Himalaya del debito e dei rischi di una nuova recessione.Nel comunicato del G20 la parola “crescita” e il verbo “crescere” appaiono almeno una mezza dozzina di volte, ma il solo impegno concreto preso dal G20 riguarda il dimezzamento dei disavanzi di bilancio entro il 2013. Sulle politiche di crescita si è avvitato il vertice. Alla vigilia, i 20 istituti econometrici internazionali, tutti privati, che costituiscono il “gruppo del consensus”, hanno diramato le proprie stime: crescita sostenuta negli Usa (il 3,3% nel 2010 e il 3% nel 2011) e in paesi emergenti come India e Cina (rispettivamente 7,8% e 8% la prima e 9,9% e 8,2% la seconda), ma piatta nell’area dell’euro (1,1% e 1,3% nei due anni presi in considerazione). Nel quadro di una decelerazione in Europa (a ragione delle manovre parallele di bilancio dei maggiori paesi Ue), non è incoraggiante la situazione dell’Italia: l’analisi econometrica preliminare dello stesso Ministero dell’Economia prevede una contrazione dell’occupazione (e, quindi, un aumento di coloro che cercano lavoro senza trovarlo) sino al 2014 e, quindi, una riduzione di salari medi e di consumi.Due determinanti frenano l’Ue: la struttura demografica (e le implicazioni dell’invecchiamento sulla produttività) e gli statuti che limitano al 2% l’anno il tasso d’aumento dei prezzi al consumo ammissibili prima di interventi diretti a restringere l’offerta monetaria. Inoltre, un lavoro ancora inedito del Gruppo Bruegel (uno dei più stimati osservatori dell’economia europea) documenta che sino a quando l’economia e la finanza internazionale saranno dominati dal profondo rosso dei conti con l’estero Usa (420 miliardi di dollari negli ultimi 12 mesi) in gran parte saldati con acquisto di titoli americani da parte della Cina (un saldo attivo di 282 miliardi di dollari nello stesso arco di tempo), l’Europa appare condannata a essere il vaso di coccio a crescita bassa. Lo è, però, ancora di più se si presenta (come ha fatto al G20 di Toronto) con posizioni solo formalmente unitarie, ma disunita (anzi, ai ferri corti tra Stati dell’Eurozona) su questioni cruciali (quali la riorganizzazione del Fondo monetario internazionale). In che misura l’annuncio di una maggiore flessibilità del cambio dello yuan potrà contribuire alla crescita? Un libro pubblicato a fine 2009 da Mark Shiao dell’Università di Londra ("Financial Regulation of Derivatives, Trust and Securitisation in China" Carswell Thomson Rueter) mostra a tutto tondo come la politica del cambio è solo un tassello di un complesso sistema di regolazione del mercato finanziario interno. Non è necessariamente il principale anche perché il sistema di regolazione è in rapida evoluzione e di difficile comprensione a europei e americani. In breve, un cambio più flessibile, o pure anche una svalutazione, possono essere agevolmente neutralizzati ritoccando le regolazione interne. Lo sostengono, in un saggio in “The World Economy”, Ronald McKinnon dell’Università di Stanford e Gunther Schanabl di quella di Lipsia. Unitamente a un veterano delle analisi della contabilità economica nazionale di vari paesi, Angus Maddison, i due economisti sottolineano che se in termini di parità di potere d’acquisto il Pil cinese è pari all’80% di quello Usa, nel contesto attuale, una rivalutazione dello yuan rispetto al dollaro non è forse nell’interesse né della comunità internazionale né della Cina. In altri termini, la ripresa mondiale richiede che l’Impero di Mezzo cresca all’8% l’anno; un probabile effetto di una rivalutazione significativa provocherebbe un rallentamento della crescita cinese e, con esso, di quella mondiale. Gli scenari più pessimisti sono quelli tratteggiati negli Stati Uniti, dove Dipartimento di Stato e Pentagono sembrano avere divergente di punti di vista con il Tesoro e con la Federal Reserve proprio su questo punto: nel settore “moderno” della Cina, in breve, ci sarebbero ben 150 milioni di uomini e donne in cerca di lavoro, questo numero aumenterebbe in caso di decelerazione della crescita, innescando seri problemi interni d’ordine pubblico e fomentando guerre e guerriglie locali (di cui in Occidente si sa poco o nulla). I cinesi sono consapevoli di questi e di altri problemi ancora più di quanto lo siano i sinologhi Usa. Come leggere allora il comunicato della Banca centrale? Una mera intenzione di riprendere, con gradualità, la strategia di ritocchi al margine già attuata nel 2005-2008. Senza incidere né sugli squilibri mondiali né, ancor meno, sui problemi interni del paese. A Toronto si è parlato molto del tasso di cambio dello yuan, ma non si è concluso nulla.
REGIONI, PACCHIA FINITA Il Tepo 28 giugno
REGIONI, PACCHIA FINITA
Giuseppe Pennisi
La crescita è stata l’argomento principale del G20 appena tenutosi a Toronto. Il 27 giugno, Giuliano Amato si è chiesto, sul principale quotidiano economico italiano,se e come l’Europa può risvegliarsi dal suo letargo. Le stime diramate il 25 giugno dai 20 maggiori istituti econometrici sono eloquenti: crescita sostenuta negli Usa ( il 3,3% nel 2010 ed il 3% nel 2011) e in Paesi emergenti come India e Cina (rispettivamente 7,8% e 8% la prima e 9,9% e 8,2% la seconda), ma piatta nell’area dell’euro (1,1% e 1,3% nei due anni presi in considerazione). Queste stime – mi è stato precisato dall’istituto tedesco, DWI – non incorporano ancora gli effetti delle manovre coordinate di riduzione della spesa pubblica nell’Eurozona e nel Regno Unito. Come illustra la tabella, le elaborazioni preliminari effettuata dal Ministero dell’Economia e delle Finanze e trasmesse alle competenti Commissioni parlamentari svelano che le misure all’esame delle Camere comportano, in Italia sino al 2014, una contrazione dell’occupazione e, quindi, un aumento di coloro che cercheranno lavoro senza trovarlo . Implicano anche una riduzione di salari medi e di consumi. Crescerebbero le esportazioni ma diminuirebbero le importazioni a causa della stagnazione, ove non riduzione, dei consumi. Un quadro, quindi, preoccupante che impone chiedersi se non ci siamo alternative per rientrare dal debito e dall’indebitamento senza una riduzione marcata del tenore di vita per gran parte degli italiani. In altri termini, mantenendo i saldi invariati (pure in quanto concordati nell’ambito dell’Eurozona e diventati l’elemento a cui più guardano i mercati), è fattibile modificare in parte i contenuti specifici della manovra per limitarne gli effetti negativi sulla crescita – e soprattutto per evitare che alla recessione del 2009 ne segua un’altra.
A mio avviso, si deve valutare attentamente se spostare l’enfasi della manovra dal contenimento dei salari nel pubblico impiego (specialmente ai livelli meno elevati – ossia sino a dirigenti di seconda fascia inclusi) alle restrizioni di una voce di spesa corrente che ha avuto una forte dinamica di crescita: le spese per consumi intermedi delle pubbliche amministrazioni. Su si esse cadde la scure all’inizio degli Anni Novanta, nell’assunto che Tangentopoli avesse mostrato come lì si annidassero sprechi , e pure grasso. Allora, gli acquisti di beni e servizi da parte della Pa erano attorno all’8,5% della spesa pubblica totale(includendo Regioni, Province e Comuni); ora toccano il 18.Più eloquenti, le cifre assolute: nel 2000 i “consumi intermedi” di tutte le amministrazioni (centrali e locali) toccavano 80 miliardi di euro , oggi sono 120 miliardi di euro e se la tendenza non viene arrestata, si arriverà a 145 miliardi di euro nel 2013.
Non è forse questa la voce su cui operare? Oltre tutto, poco si sa dei contenuti effettivi del comparto e di cosa ne abbia causato l’escalation nell’ultimo decennio (quasi in parallelo con il trasferimento di competenze dall’amministrazione centrale dello Stato a Regioni ed enti locali). E’ probabile che la sua riduzione porti maggiore efficienza ed abbia effetti contenuti sull’occupazione e sui redditi. Aprendo un volano per crescere.
E’ probabile che una riduzione di questa voce farebbe alzare barricate agli enti locali. Dovrebbero allora spiegarne la dinamica e dimostrare che sono state adottate le misure necessarie per renderla efficiente ed efficace.
Giuseppe Pennisi
La crescita è stata l’argomento principale del G20 appena tenutosi a Toronto. Il 27 giugno, Giuliano Amato si è chiesto, sul principale quotidiano economico italiano,se e come l’Europa può risvegliarsi dal suo letargo. Le stime diramate il 25 giugno dai 20 maggiori istituti econometrici sono eloquenti: crescita sostenuta negli Usa ( il 3,3% nel 2010 ed il 3% nel 2011) e in Paesi emergenti come India e Cina (rispettivamente 7,8% e 8% la prima e 9,9% e 8,2% la seconda), ma piatta nell’area dell’euro (1,1% e 1,3% nei due anni presi in considerazione). Queste stime – mi è stato precisato dall’istituto tedesco, DWI – non incorporano ancora gli effetti delle manovre coordinate di riduzione della spesa pubblica nell’Eurozona e nel Regno Unito. Come illustra la tabella, le elaborazioni preliminari effettuata dal Ministero dell’Economia e delle Finanze e trasmesse alle competenti Commissioni parlamentari svelano che le misure all’esame delle Camere comportano, in Italia sino al 2014, una contrazione dell’occupazione e, quindi, un aumento di coloro che cercheranno lavoro senza trovarlo . Implicano anche una riduzione di salari medi e di consumi. Crescerebbero le esportazioni ma diminuirebbero le importazioni a causa della stagnazione, ove non riduzione, dei consumi. Un quadro, quindi, preoccupante che impone chiedersi se non ci siamo alternative per rientrare dal debito e dall’indebitamento senza una riduzione marcata del tenore di vita per gran parte degli italiani. In altri termini, mantenendo i saldi invariati (pure in quanto concordati nell’ambito dell’Eurozona e diventati l’elemento a cui più guardano i mercati), è fattibile modificare in parte i contenuti specifici della manovra per limitarne gli effetti negativi sulla crescita – e soprattutto per evitare che alla recessione del 2009 ne segua un’altra.
A mio avviso, si deve valutare attentamente se spostare l’enfasi della manovra dal contenimento dei salari nel pubblico impiego (specialmente ai livelli meno elevati – ossia sino a dirigenti di seconda fascia inclusi) alle restrizioni di una voce di spesa corrente che ha avuto una forte dinamica di crescita: le spese per consumi intermedi delle pubbliche amministrazioni. Su si esse cadde la scure all’inizio degli Anni Novanta, nell’assunto che Tangentopoli avesse mostrato come lì si annidassero sprechi , e pure grasso. Allora, gli acquisti di beni e servizi da parte della Pa erano attorno all’8,5% della spesa pubblica totale(includendo Regioni, Province e Comuni); ora toccano il 18.Più eloquenti, le cifre assolute: nel 2000 i “consumi intermedi” di tutte le amministrazioni (centrali e locali) toccavano 80 miliardi di euro , oggi sono 120 miliardi di euro e se la tendenza non viene arrestata, si arriverà a 145 miliardi di euro nel 2013.
Non è forse questa la voce su cui operare? Oltre tutto, poco si sa dei contenuti effettivi del comparto e di cosa ne abbia causato l’escalation nell’ultimo decennio (quasi in parallelo con il trasferimento di competenze dall’amministrazione centrale dello Stato a Regioni ed enti locali). E’ probabile che la sua riduzione porti maggiore efficienza ed abbia effetti contenuti sull’occupazione e sui redditi. Aprendo un volano per crescere.
E’ probabile che una riduzione di questa voce farebbe alzare barricate agli enti locali. Dovrebbero allora spiegarne la dinamica e dimostrare che sono state adottate le misure necessarie per renderla efficiente ed efficace.
domenica 27 giugno 2010
E’ LA CRESCITA” A DIVIDERE STATI UNITI ED EUROPA Avvenire 27 giugno
E’ LA CRESCITA” A DIVIDERE STATI UNITI ED EUROPA
Giuseppe Pennisi
Nel comunicato del G20 la parola “crescita” ed il verbo “crescere” appaiono almeno una mezza dozzina di volte. Ed è proprio sulle politiche di crescita (o di risanamento della finanza pubblica) che si imperniato, e per certi aspetto, avvitato il vertice.. L’anteprima non era stata delle migliori: un altro “G20” (i 20 istituti econometrici internazionali, tutti privati, che costituiscono il “gruppo del consenus”, ossia quello le cui previsioni rappresentano la quintessenza dell’economia quantitativa), ha diramato il 22 giugno le proprie stime: crescita sostenuta negli Usa ( il 3,3% nel 2010 ed il 3% nel 2011) e in Paesi emergenti come India e Cina (rispettivamente 7,8% e 8% la prima e 9,9% e 8,2% la seconda), ma piatta nell’area dell’euro (1,1% e 1,3% nei due anni presi in considerazione). Le stime sono state confermate il 25 giugno. Nel quadro di una decelerazione in Europa (a ragione delle manovre parallele di bilancio dei maggiori Paesi Ue), non è in incoraggiante la situazione dell’Italia: l’analisi econometrica preliminare dello stesso Ministero dell’Economia prevede una contrazione dell’occupazione (e, quindi, un aumento di coloro che cercano lavoro senza trovarlo) sino al 2014 e, quindi, una riduzione di salari medi e di consumi.
Una settimana prima del G20 , il Presidente Obama si è rivolto al Presidente della Commissione Europea , Barroso, perché il Vecchio Continente prema sull’acceleratore. Pur onorato di essere trattato quasi alla pari dall’inquilino della Casa Bianca, Barroso ha rinviato al mittente il suggerimento dicendo a tutto tondo che senza una riduzione di debito e di deficit non si da ai mercati la fiducia necessaria perché politiche orientate alla crescita possano avere gli effetti sperati. Due determinanti, comunque, frenano l’Ue: la struttura demografica (e le implicazioni dell’invecchiamento sulla produttività) e gli statuti che limitano al 2% l’anno il tasso d’aumento dei prezzi al consumo ammissibili prima d’interventi diretti a restringere l’offerta monetaria . Inoltre un lavoro ancora inedito del Gruppo Bruegel (uno dei più stimati osservatori dell’economia europea) documenta che sino a quando l’economia e la finanza internazionale saranno dominati dal profondo rosso dei conti con l’estero Usa (420 miliardi di dollari negli ultimi 12 mesi) in gran parte saldati con acquisto di titoli americani da parte della Cina (un saldo attivo di 282 miliardi di dollari nello stesso arco di tempo), l’Europa appare condannata ad essere il vaso di coccio a crescita bassa. Lo è, però, ancora di più se si presenta (come ha fatto al G20 di Toronto) con posizioni solo formalmente unitarie, ma disunita (anzi, ai ferri corti tra Stati dell’Eurozona) su questioni cruciali (quali la riorganizzazione del Fondo monetario internazionale).
In che misura l’annuncio che la Cina utilizzerà una politica più flessibile di cambio (salutata dalle Borse con fiumi di champagne) è stata presa in considerazione nella lettura del futuro a medio termine dell’economia mondiale. Probabilmente solo in parte: le stime indicano un rallentamento tra il 2010 ed il 2011 nel rapido tasso di crescita dell’economia cinese. La flessibilità del cambio verrà attuata gradualmente (procurando vantaggi agli esportatori di high tech e di macchinari) in quanto i cinesi hanno chiaro il ricordo degli oltre 15 anni di stagnazione in Giappone dopo la rivalutazione dello yen in seguito all’”accordo del Plaza” del 1985. Un Paese con forti tensione interne (i senza lavoro nel settore urbano raggiungerebbero, secondo fonti internazionali, i 150 milioni), rischia grosso se non cresce ad un tasso tale da alimentare creazione di nuovi posti di lavoro.
Non è neanche necessariamente pro-crescita una misura al centro del G20 e fortemente voluta da Washington e da alcuni Stati Ue: l’imposta sugli utili bancari (inizialmente proposta da Washington):potrebbe essere passata sui clienti (aumentando il costo del credito). Non se ne è fatto nulla.
Giuseppe Pennisi
Nel comunicato del G20 la parola “crescita” ed il verbo “crescere” appaiono almeno una mezza dozzina di volte. Ed è proprio sulle politiche di crescita (o di risanamento della finanza pubblica) che si imperniato, e per certi aspetto, avvitato il vertice.. L’anteprima non era stata delle migliori: un altro “G20” (i 20 istituti econometrici internazionali, tutti privati, che costituiscono il “gruppo del consenus”, ossia quello le cui previsioni rappresentano la quintessenza dell’economia quantitativa), ha diramato il 22 giugno le proprie stime: crescita sostenuta negli Usa ( il 3,3% nel 2010 ed il 3% nel 2011) e in Paesi emergenti come India e Cina (rispettivamente 7,8% e 8% la prima e 9,9% e 8,2% la seconda), ma piatta nell’area dell’euro (1,1% e 1,3% nei due anni presi in considerazione). Le stime sono state confermate il 25 giugno. Nel quadro di una decelerazione in Europa (a ragione delle manovre parallele di bilancio dei maggiori Paesi Ue), non è in incoraggiante la situazione dell’Italia: l’analisi econometrica preliminare dello stesso Ministero dell’Economia prevede una contrazione dell’occupazione (e, quindi, un aumento di coloro che cercano lavoro senza trovarlo) sino al 2014 e, quindi, una riduzione di salari medi e di consumi.
Una settimana prima del G20 , il Presidente Obama si è rivolto al Presidente della Commissione Europea , Barroso, perché il Vecchio Continente prema sull’acceleratore. Pur onorato di essere trattato quasi alla pari dall’inquilino della Casa Bianca, Barroso ha rinviato al mittente il suggerimento dicendo a tutto tondo che senza una riduzione di debito e di deficit non si da ai mercati la fiducia necessaria perché politiche orientate alla crescita possano avere gli effetti sperati. Due determinanti, comunque, frenano l’Ue: la struttura demografica (e le implicazioni dell’invecchiamento sulla produttività) e gli statuti che limitano al 2% l’anno il tasso d’aumento dei prezzi al consumo ammissibili prima d’interventi diretti a restringere l’offerta monetaria . Inoltre un lavoro ancora inedito del Gruppo Bruegel (uno dei più stimati osservatori dell’economia europea) documenta che sino a quando l’economia e la finanza internazionale saranno dominati dal profondo rosso dei conti con l’estero Usa (420 miliardi di dollari negli ultimi 12 mesi) in gran parte saldati con acquisto di titoli americani da parte della Cina (un saldo attivo di 282 miliardi di dollari nello stesso arco di tempo), l’Europa appare condannata ad essere il vaso di coccio a crescita bassa. Lo è, però, ancora di più se si presenta (come ha fatto al G20 di Toronto) con posizioni solo formalmente unitarie, ma disunita (anzi, ai ferri corti tra Stati dell’Eurozona) su questioni cruciali (quali la riorganizzazione del Fondo monetario internazionale).
In che misura l’annuncio che la Cina utilizzerà una politica più flessibile di cambio (salutata dalle Borse con fiumi di champagne) è stata presa in considerazione nella lettura del futuro a medio termine dell’economia mondiale. Probabilmente solo in parte: le stime indicano un rallentamento tra il 2010 ed il 2011 nel rapido tasso di crescita dell’economia cinese. La flessibilità del cambio verrà attuata gradualmente (procurando vantaggi agli esportatori di high tech e di macchinari) in quanto i cinesi hanno chiaro il ricordo degli oltre 15 anni di stagnazione in Giappone dopo la rivalutazione dello yen in seguito all’”accordo del Plaza” del 1985. Un Paese con forti tensione interne (i senza lavoro nel settore urbano raggiungerebbero, secondo fonti internazionali, i 150 milioni), rischia grosso se non cresce ad un tasso tale da alimentare creazione di nuovi posti di lavoro.
Non è neanche necessariamente pro-crescita una misura al centro del G20 e fortemente voluta da Washington e da alcuni Stati Ue: l’imposta sugli utili bancari (inizialmente proposta da Washington):potrebbe essere passata sui clienti (aumentando il costo del credito). Non se ne è fatto nulla.
sabato 26 giugno 2010
BUTTERFLY in Music & Vision 22 maggio
An Excellent Staging 'Madama Butterfly' at Rome's Teatro dell'Opera, appreciated by GIUSEPPE PENNISI The Teatro dell'Opera of Rome is in a very severe financial stringency. Its management is attempting to overcome this by making savings on new productions and by reviving old productions with an eye to the audience's favorites and, of course, to the box office. It is not a bad idea because it gives the opportunity to see some very good yet old productions that, in a 'season theatre', after a few performances, tend to disappear forever. Madama Butterfly, on the Rome Opera stage until 28 May 2010, is a case in point. This production was originally conceived for the 'Teatro Comunale' of Bologna as part of a program where young stage directors would work side-by-side with well-known architects. There it had its début in 1986. Since then, it has been seen in many Italian and French theatres. In Rome, this very production was shown in 2002. It is an excellent staging, based on a three-level Japanese house and with the lighting and, hence, the backdrop tint, following the music's pace, mood and colors. The stage set is a very ingenious idea by the late architect Aldo Rossi.
A scene from Act I of 'Madama Butterfly' at Teatro dell'Opera. Photo © 2010 Corrado Maria Falsini Stefano Vizioli is no longer a young promise but a well-known mature stage director. Within the sets, he reads the drama quite elegantly. Firstly, the opera is presented with only one intermission (as originally conceived); the traditional Paris 1906 version is followed, not the much more gruesome, and rather racist, 1904 Milan version. Most of the usual 'cuts' are opened up, which makes us appreciate Puccini's coloration and timbre, especially in the orchestration. Secondly, Vizioli rightly emphasizes the double transformation of Cio-Cio-San from a fifteen-year-old Japanese girl to a pretending-to-be-American (in clothing, attire, hair-do) spouse and finally to a grown up Japanese woman (in Japanese formal dress) when the suicide decision is taken. Pinkerton is the usual 'ugly American', even if attractive and seductive, Sharpless a sensitive bureaucrat and Suzuki the loyal and intelligent woman who is able to decode the cultural clash around her.
A scene from 'Madama Butterfly' at Teatro dell'Opera. Photo © 2010 Corrado Maria Falsini The Teatro dell'Opera put on three different casts, including a guest appearance by Neil Shicoff (no longer the tenor who enthralled New York and Vienna). This review is based on the 20 May 2010 performance. The conductor of the three casts is Daniel Oren, very well acquainted with both Puccini and the Rome audience. Puccini shared with two other giants of twentieth century opera -- Richard Strauss and Leos Janácek -- the knack of writing phrases that would be always instantly recognized. Part of this knack was an in-born instinct for melody, but he also knew when to stop. In fact, the melodic parts never last too long and, especially in Madama Butterfly, they leave the listener wanting more. Also, Puccini was a very meticulous orchestrator: in Madama Butterfly some forty themes intertwine, not as many as the sixty in Tosca, but a sufficient number to be a challenge to the conductor and to the orchestra. Oren pleases the audience by emphasizing the melodies (especially the three ariosos 'Dovunque al mondo lo Yankee vagabondo', 'Un bel dì vedremo' and 'Addio fiorito asil'), but also by letting the more sophisticated listener appreciate the treasures of the orchestration. Amarilli Nizza was Cio-Cio-San/Butterfly. She is a veteran of the role -- attractive, slender and excellent in acting. Your reviewer criticized her taking up both Margerita and Elena in a recent Mefistofele, but Butterfly suited her perfectly, and she received real well-deserved accolades and requests for encores. She a good acute but she did particularly well in the very difficult mezza voce. Her legato was exquisite. A scene from 'Madama Butterfly' at Teatro dell'Opera with Amarilli Nizza (left) as Cio-Cio-San and Marco Berti
(right) as Pinkerton. Photo © 2010 Corrado Maria Falsini Marco Berti was Pinkerton. He has gained some weight; his frequent singing of Trovatore, Aida and Don José in Carmen has made him a stentorious tenor spinto, maybe excessively so in the first part. He kept high Cs quite at length and with his clear timbre his legato was quite good. His mezza voce was not exceptional. Amarilli Nizza as Cio-Cio-San in 'Madama Butterfly' at Teatro dell'Opera. Photo © 2010 Corrado Maria Falsini Franco Vassallo and Francesca Franci were effective as Sharpless and Suzuki, and all the many others were also good. A special mention goes to chorus master Andrea Giorgi for the pathos in the 'hum-hum' choral intermezzo in the second part of the opera. Copyright © 23 May 2010 Giuseppe Pennisi, Rome, Italy GIACOMO PUCCINI MADAMA BUTTERFLY TEATRO DELL'OPERA ROME
ITALY << M&V home Concert reviews Das Rheingold >>
A scene from Act I of 'Madama Butterfly' at Teatro dell'Opera. Photo © 2010 Corrado Maria Falsini Stefano Vizioli is no longer a young promise but a well-known mature stage director. Within the sets, he reads the drama quite elegantly. Firstly, the opera is presented with only one intermission (as originally conceived); the traditional Paris 1906 version is followed, not the much more gruesome, and rather racist, 1904 Milan version. Most of the usual 'cuts' are opened up, which makes us appreciate Puccini's coloration and timbre, especially in the orchestration. Secondly, Vizioli rightly emphasizes the double transformation of Cio-Cio-San from a fifteen-year-old Japanese girl to a pretending-to-be-American (in clothing, attire, hair-do) spouse and finally to a grown up Japanese woman (in Japanese formal dress) when the suicide decision is taken. Pinkerton is the usual 'ugly American', even if attractive and seductive, Sharpless a sensitive bureaucrat and Suzuki the loyal and intelligent woman who is able to decode the cultural clash around her.
A scene from 'Madama Butterfly' at Teatro dell'Opera. Photo © 2010 Corrado Maria Falsini The Teatro dell'Opera put on three different casts, including a guest appearance by Neil Shicoff (no longer the tenor who enthralled New York and Vienna). This review is based on the 20 May 2010 performance. The conductor of the three casts is Daniel Oren, very well acquainted with both Puccini and the Rome audience. Puccini shared with two other giants of twentieth century opera -- Richard Strauss and Leos Janácek -- the knack of writing phrases that would be always instantly recognized. Part of this knack was an in-born instinct for melody, but he also knew when to stop. In fact, the melodic parts never last too long and, especially in Madama Butterfly, they leave the listener wanting more. Also, Puccini was a very meticulous orchestrator: in Madama Butterfly some forty themes intertwine, not as many as the sixty in Tosca, but a sufficient number to be a challenge to the conductor and to the orchestra. Oren pleases the audience by emphasizing the melodies (especially the three ariosos 'Dovunque al mondo lo Yankee vagabondo', 'Un bel dì vedremo' and 'Addio fiorito asil'), but also by letting the more sophisticated listener appreciate the treasures of the orchestration. Amarilli Nizza was Cio-Cio-San/Butterfly. She is a veteran of the role -- attractive, slender and excellent in acting. Your reviewer criticized her taking up both Margerita and Elena in a recent Mefistofele, but Butterfly suited her perfectly, and she received real well-deserved accolades and requests for encores. She a good acute but she did particularly well in the very difficult mezza voce. Her legato was exquisite. A scene from 'Madama Butterfly' at Teatro dell'Opera with Amarilli Nizza (left) as Cio-Cio-San and Marco Berti
(right) as Pinkerton. Photo © 2010 Corrado Maria Falsini Marco Berti was Pinkerton. He has gained some weight; his frequent singing of Trovatore, Aida and Don José in Carmen has made him a stentorious tenor spinto, maybe excessively so in the first part. He kept high Cs quite at length and with his clear timbre his legato was quite good. His mezza voce was not exceptional. Amarilli Nizza as Cio-Cio-San in 'Madama Butterfly' at Teatro dell'Opera. Photo © 2010 Corrado Maria Falsini Franco Vassallo and Francesca Franci were effective as Sharpless and Suzuki, and all the many others were also good. A special mention goes to chorus master Andrea Giorgi for the pathos in the 'hum-hum' choral intermezzo in the second part of the opera. Copyright © 23 May 2010 Giuseppe Pennisi, Rome, Italy GIACOMO PUCCINI MADAMA BUTTERFLY TEATRO DELL'OPERA ROME
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DAS RHEINGOLD in Music & Vision 20 maggio
High Expectations Barenboim's 'Das Rheingold' at La Scala, reviewed by GIUSEPPE PENNISI If the morning sky is an indication of what the weather will be during the rest of the day, Das Rheingold, seen by your reviewer at the Teatro alla Scala, Milan, Italy on 19 May 2010, anticipates a rather dull Ring. This is regrettable because the new joint production by Milan's major opera house and Berlin's Staatsoper unter den Linden has been much awaited in the music world for nearly two years. The program involves presenting one opera per year -- first in Milan, then in Berlin -- and to show the full cycle in Spring 2013 as part of Wagner's bicentennial celebrations. The expectations were high because, during the last few years, some very good new productions of The Ring have been seen. Over the last five years, your reviewer has seen and listened to at least four new better-than-average productions of what is generally considered a scary enterprise for a theatre manager: a huge orchestra, thirty soloists, and many transformations of stage sets. The four are in this order: the intimate yet grand Aix-Salzburg-Berlin Philharmoniker production, the Köln-Venice production, the Florence-Valencia production and the Erl production.
A scene from 'Das Rheingold'. Photo © 2010 Brescia e Amisano - Teatro alla Scala From La Scala teaming up with the Staatsoper, a reviewer would expect something at least of the average level of these recent productions, and not something like the rather hilarious Ring staged in Lisbon or the very first attempt to produce a Russian Ring in St Petersburg -- both less than fully satisfactory operations. Most of the problems of this Milan-Berlin Das Rheingold have to do with the stage direction, the stage sets, the rather bleak lighting and the crowd of dancers and mimes on stage. It would be advisable to think them through and make appropriate arrangements before Die Walküre is shown on 7 December 2010 as inaugural offerings for the next La Scala season. A scene from 'Das Rheingold'. Photo © 2010 Brescia e Amisano - Teatro alla Scala The Ring cycle is a work of extraordinary scale. Perhaps the most outstanding facet of the monumental work is its sheer length: a full performance of the cycle takes place over four nights at the opera, with a total playing time of about fifteen hours, depending on the conductor's pacing. The first and shortest opera, Das Rheingold,
typically lasts two and a half hours, while the final and longest, Götterdämmerung, takes up four and a half hours. The cycle is patterned after ancient Greek theatre: three tragedies and one satyr play to be presented in a single day from morning to sunset. The Ring proper begins with Die Walküre and ends with Götterdämmerung, with Rheingold as a prelude. Wagner called Das Rheingold a Vorabend or 'Preliminary Evening', and Die Walküre, Siegfried and Götterdämmerung were subtitled First Day, Second Day and Third Day, respectively, of the trilogy proper. Wolfgang Ablinger-Sperrhacke as Mime and Stephan Rügamer as Loge in 'Das Rheingold'. Photo © 2010 Brescia e Amisano - Teatro alla Scala The scale and scope of the story is epic. It follows the struggles of gods, heroes and several mythical creatures over the eponymous magic ring that grants domination over the entire world. The drama and intrigue continue through three generations of protagonists, until the final cataclysm at the end of Götterdämmerung.
Johannes Martin Kränzle as Alberich and Stephan Rügamer as Loge in 'Das Rheingold'. Photo © 2010 Brescia e Amisano - Teatro alla Scala The music of the cycle is thick and richly textured, and grows in complexity as the cycle proceeds. Wagner wrote for an orchestra of gargantuan proportions, including a greatly enlarged brass section with new instruments such as the Wagner tuba, bass trumpet and contrabass trombone. Beginners may wish to approach The Ring with the now classic booklet by Max Chop, printed in Saxony several decades ago and re-printed many times in several languages with a Pierre Boulez's foreword. As the cycle is based on complex myths, I suggest also reading Robert Donington's Wagner's Ring and its Symbols.
René Pape as Wotan and Doris Soffel as Fricka in 'Das Rheingold'. Photo © 2010 Brescia e Amisano - Teatro alla Scala These old texts are more useful than the many essays in the thick La Scala book where emphasis is placed on the 'political meaning' the stage director Guy Cassiers intends to give to his (and our) reading of The Ring: a revolt of the excluded from capitalistic globalization. Firstly, this is a rather old way to approach Wagner. Secondly, I could not see politics in the rather tacky staging, unless one gives a political meaning to showing Valhalla (the Castle of the Gods) as a rock concert venue. Or is it political, or politically correct, to present the Rhine as a highly polluted river (already a few thousand years ago)? Also, why crowd the stage with dancers, mimes and 'doubles' of the already numerous characters? Guy Cassiers (and his team) are the worst offenders of this production, which, we hope, will be greatly corrected before we see Die Walküre in December.
A scene from 'Das Rheingold'. Photo © 2010 Brescia e Amisano - Teatro alla Scala The musical aspects have a different and higher level. This month, every Tuesday night, an Italian television channel shows the Ring which Daniel Barenboim conducted in Bayreuth nineteen years ago, with modernistic Kupfer staging. That was excellent and very dramatic conducting. From Daniel Barenboim, nobody would expect Boulez's fast pacing, Solti's elegance, von Karajan's flair for landscape and nature or Mehta's lyricism. But one can expect passion, yet with strict adherence to the score, starting with the magic prelude where the music builds up in E flat major, and the tonic sound reaches abysmal depths before an arpeggio movement, an embryonic motive, becomes genuinely melodic, and a sense of timelessness sets in. From the key of E flat major, we feel that he is at ease with the score, but now his reading is, at the same time, quietly lyrical and dry. Doris Soffel as Fricka, René Pape as Wotan, Marco Jentzsch as Froh and Jan Buchwald as Donner in 'Das Rheingold'. Photo © 2010 Brescia e Amisano - Teatro alla Scala Barenboim works with a very good orchestra and an extraordinary cast. On the women's front, the three main protagonists -- Doris
Soffel, Anna Samuil and Anna Larsson -- are superb. René Pape is an imposing Wotan. Stephan Rügamer and Wolfgang Ablinger-Sperracke are the treacherous Loge and Mime, and Johannes Martin Kränzle sings Alberich. All the minor roles are very well sung and acted. Copyright © 22 May 2010 Giuseppe Pennisi, Rome, Italy RICHARD WAGNER DAS RHEINGOLD DANIEL BARENBOIM LA SCALA MILAN BERLIN ITALY GERMANY << M&V home Concert reviews Hallé Orchestra >>
A scene from 'Das Rheingold'. Photo © 2010 Brescia e Amisano - Teatro alla Scala From La Scala teaming up with the Staatsoper, a reviewer would expect something at least of the average level of these recent productions, and not something like the rather hilarious Ring staged in Lisbon or the very first attempt to produce a Russian Ring in St Petersburg -- both less than fully satisfactory operations. Most of the problems of this Milan-Berlin Das Rheingold have to do with the stage direction, the stage sets, the rather bleak lighting and the crowd of dancers and mimes on stage. It would be advisable to think them through and make appropriate arrangements before Die Walküre is shown on 7 December 2010 as inaugural offerings for the next La Scala season. A scene from 'Das Rheingold'. Photo © 2010 Brescia e Amisano - Teatro alla Scala The Ring cycle is a work of extraordinary scale. Perhaps the most outstanding facet of the monumental work is its sheer length: a full performance of the cycle takes place over four nights at the opera, with a total playing time of about fifteen hours, depending on the conductor's pacing. The first and shortest opera, Das Rheingold,
typically lasts two and a half hours, while the final and longest, Götterdämmerung, takes up four and a half hours. The cycle is patterned after ancient Greek theatre: three tragedies and one satyr play to be presented in a single day from morning to sunset. The Ring proper begins with Die Walküre and ends with Götterdämmerung, with Rheingold as a prelude. Wagner called Das Rheingold a Vorabend or 'Preliminary Evening', and Die Walküre, Siegfried and Götterdämmerung were subtitled First Day, Second Day and Third Day, respectively, of the trilogy proper. Wolfgang Ablinger-Sperrhacke as Mime and Stephan Rügamer as Loge in 'Das Rheingold'. Photo © 2010 Brescia e Amisano - Teatro alla Scala The scale and scope of the story is epic. It follows the struggles of gods, heroes and several mythical creatures over the eponymous magic ring that grants domination over the entire world. The drama and intrigue continue through three generations of protagonists, until the final cataclysm at the end of Götterdämmerung.
Johannes Martin Kränzle as Alberich and Stephan Rügamer as Loge in 'Das Rheingold'. Photo © 2010 Brescia e Amisano - Teatro alla Scala The music of the cycle is thick and richly textured, and grows in complexity as the cycle proceeds. Wagner wrote for an orchestra of gargantuan proportions, including a greatly enlarged brass section with new instruments such as the Wagner tuba, bass trumpet and contrabass trombone. Beginners may wish to approach The Ring with the now classic booklet by Max Chop, printed in Saxony several decades ago and re-printed many times in several languages with a Pierre Boulez's foreword. As the cycle is based on complex myths, I suggest also reading Robert Donington's Wagner's Ring and its Symbols.
René Pape as Wotan and Doris Soffel as Fricka in 'Das Rheingold'. Photo © 2010 Brescia e Amisano - Teatro alla Scala These old texts are more useful than the many essays in the thick La Scala book where emphasis is placed on the 'political meaning' the stage director Guy Cassiers intends to give to his (and our) reading of The Ring: a revolt of the excluded from capitalistic globalization. Firstly, this is a rather old way to approach Wagner. Secondly, I could not see politics in the rather tacky staging, unless one gives a political meaning to showing Valhalla (the Castle of the Gods) as a rock concert venue. Or is it political, or politically correct, to present the Rhine as a highly polluted river (already a few thousand years ago)? Also, why crowd the stage with dancers, mimes and 'doubles' of the already numerous characters? Guy Cassiers (and his team) are the worst offenders of this production, which, we hope, will be greatly corrected before we see Die Walküre in December.
A scene from 'Das Rheingold'. Photo © 2010 Brescia e Amisano - Teatro alla Scala The musical aspects have a different and higher level. This month, every Tuesday night, an Italian television channel shows the Ring which Daniel Barenboim conducted in Bayreuth nineteen years ago, with modernistic Kupfer staging. That was excellent and very dramatic conducting. From Daniel Barenboim, nobody would expect Boulez's fast pacing, Solti's elegance, von Karajan's flair for landscape and nature or Mehta's lyricism. But one can expect passion, yet with strict adherence to the score, starting with the magic prelude where the music builds up in E flat major, and the tonic sound reaches abysmal depths before an arpeggio movement, an embryonic motive, becomes genuinely melodic, and a sense of timelessness sets in. From the key of E flat major, we feel that he is at ease with the score, but now his reading is, at the same time, quietly lyrical and dry. Doris Soffel as Fricka, René Pape as Wotan, Marco Jentzsch as Froh and Jan Buchwald as Donner in 'Das Rheingold'. Photo © 2010 Brescia e Amisano - Teatro alla Scala Barenboim works with a very good orchestra and an extraordinary cast. On the women's front, the three main protagonists -- Doris
Soffel, Anna Samuil and Anna Larsson -- are superb. René Pape is an imposing Wotan. Stephan Rügamer and Wolfgang Ablinger-Sperracke are the treacherous Loge and Mime, and Johannes Martin Kränzle sings Alberich. All the minor roles are very well sung and acted. Copyright © 22 May 2010 Giuseppe Pennisi, Rome, Italy RICHARD WAGNER DAS RHEINGOLD DANIEL BARENBOIM LA SCALA MILAN BERLIN ITALY GERMANY << M&V home Concert reviews Hallé Orchestra >>
GUIDA AI TEMI SUL TAPPETO ED ALLE POSSIBILI SOLUZIONI Avvenire 26 giugno
GUIDA AI TEMI SUL TAPPETO ED ALLE POSSIBILI SOLUZIONI
Giuseppe Pennisi
Numerosi i temi economici sul tavolo del G20 di Toronto. I principali sono i seguenti:
Politica della Cina in materia di tasso di cambio e squilibri internazionali. La Banca centrale cinese ha annunciato una politica di cambio più flessibile: lo yuan è stato agganciato al dollaro Usa sino al 2005 e da allora al 2008 ad un paniere di monete. In quel periodo si è apprezzato del 20% rispetto alle maggiori valute internazionali. Nel 2008, la Cina è tornata a cambi fissi per timore delle conseguenze interne della crisi finanziaria. Verosimilmente, la flessibilità sarà molto graduale e nei prossimi anni non inciderà in misura significativa sul disavanzo della bilancia dei pagamenti degli Stati Uniti e, di converso, sul corrispondente saldo attivo della Cina. Un deprezzamento significativo del cambio dello yuan potrebbe provocare gravi tensioni interne (nel settore moderno cinese ci sono già 150 milioni di uomini e donne senza lavoro) ed un rallentamento della crescita del Paese con ripercussioni significative su quella internazionale.
Imposta sugli utili bancari Circa 25 anni fa il Premio Nobel Tobin propose un’imposta sui movimenti di capitale a breve allo scopo di scoraggiare quelli più chiaramente speculativi (Tobin Tax); in un saggio di 15 anni fa, lo stesso Tobin rinnegò la propria proposta ritenendola poco efficace. Nelle ultime settimane, ne sono state presentate varie versioni (inizialmente dal Governo Usa) con un obiettivo differente di quello di Tobin: far sì che la banche siano forzate a creare un fondo di accumulo da utilizzare in caso di crisi , senza ricorrere all’erario. Molto probabilmente si resterà a dichiarazioni declamatorie: le singole imposte dovrebbero essere proposte da Governi nazionali, ed approvate dai Parlamenti, secondo uno schema macchinoso. La banche sarebbero naturalmente tentate di passarne il costo sui loro clienti.
New Rules ossia nuove regole per l’economia internazionale. E’ stato il tema di fondo dei vari “G” ma le sole proposte concrete ora riguardano un codice di comportamento per fondi basati su derivati finanziari e nuove funzioni di vigilanza da affidare al Fondo Monetario. Su questo secondo punto è possibile che a Toronto si facciano alcuni passi; ma è difficile farne di significativi prima di risolvere i nodi della rappresentanza Ue nelle istituzioni finanziarie internazionali . Sul primo tema (i derivati) manca ancora un’intesa sugli aspetti di fondo. In effetti, da anni a ragione dell’integrazione economica internazionale una lex mercatoria basata su prassi commerci e finanziarie sta soppiantando i trattati internazionali.
Patto di stabilità ed euro E’ un problema interamente europeo che a rigore non interessa il G20. Tuttavia, l’epicentro della crisi è passato dagli Stati Uniti (2007-2009) all’area dell’euro. Quindi, gli altri soci del G20 sono specialmente interessati a come l’Eurozona risolverà i propri problemi, anche in quanto molti Paesi sono preoccupati dal fatto che le politiche coordinate di bilancio (restrittive) facciano sì che l’Europa sarà un traino pesante della carovana dell’economia internazionale. All’interno dell’Ue appare necessario definire un nuovo patto, o integrare quello esistente, per dare sostanza alle decisioni del Consiglio Europeo del 17 giugno: se il parametro chiave diventa la “sostenibilità del debito” , occorre chiarire quale deve essere la proporzione di quello pubblico, di quello privato, di quello in mano a non residenti e via discorrendo. Tutti argomenti da rendere fitta l’agenda dell’Eurozona per i prossimi mesi.
Giuseppe Pennisi
Numerosi i temi economici sul tavolo del G20 di Toronto. I principali sono i seguenti:
Politica della Cina in materia di tasso di cambio e squilibri internazionali. La Banca centrale cinese ha annunciato una politica di cambio più flessibile: lo yuan è stato agganciato al dollaro Usa sino al 2005 e da allora al 2008 ad un paniere di monete. In quel periodo si è apprezzato del 20% rispetto alle maggiori valute internazionali. Nel 2008, la Cina è tornata a cambi fissi per timore delle conseguenze interne della crisi finanziaria. Verosimilmente, la flessibilità sarà molto graduale e nei prossimi anni non inciderà in misura significativa sul disavanzo della bilancia dei pagamenti degli Stati Uniti e, di converso, sul corrispondente saldo attivo della Cina. Un deprezzamento significativo del cambio dello yuan potrebbe provocare gravi tensioni interne (nel settore moderno cinese ci sono già 150 milioni di uomini e donne senza lavoro) ed un rallentamento della crescita del Paese con ripercussioni significative su quella internazionale.
Imposta sugli utili bancari Circa 25 anni fa il Premio Nobel Tobin propose un’imposta sui movimenti di capitale a breve allo scopo di scoraggiare quelli più chiaramente speculativi (Tobin Tax); in un saggio di 15 anni fa, lo stesso Tobin rinnegò la propria proposta ritenendola poco efficace. Nelle ultime settimane, ne sono state presentate varie versioni (inizialmente dal Governo Usa) con un obiettivo differente di quello di Tobin: far sì che la banche siano forzate a creare un fondo di accumulo da utilizzare in caso di crisi , senza ricorrere all’erario. Molto probabilmente si resterà a dichiarazioni declamatorie: le singole imposte dovrebbero essere proposte da Governi nazionali, ed approvate dai Parlamenti, secondo uno schema macchinoso. La banche sarebbero naturalmente tentate di passarne il costo sui loro clienti.
New Rules ossia nuove regole per l’economia internazionale. E’ stato il tema di fondo dei vari “G” ma le sole proposte concrete ora riguardano un codice di comportamento per fondi basati su derivati finanziari e nuove funzioni di vigilanza da affidare al Fondo Monetario. Su questo secondo punto è possibile che a Toronto si facciano alcuni passi; ma è difficile farne di significativi prima di risolvere i nodi della rappresentanza Ue nelle istituzioni finanziarie internazionali . Sul primo tema (i derivati) manca ancora un’intesa sugli aspetti di fondo. In effetti, da anni a ragione dell’integrazione economica internazionale una lex mercatoria basata su prassi commerci e finanziarie sta soppiantando i trattati internazionali.
Patto di stabilità ed euro E’ un problema interamente europeo che a rigore non interessa il G20. Tuttavia, l’epicentro della crisi è passato dagli Stati Uniti (2007-2009) all’area dell’euro. Quindi, gli altri soci del G20 sono specialmente interessati a come l’Eurozona risolverà i propri problemi, anche in quanto molti Paesi sono preoccupati dal fatto che le politiche coordinate di bilancio (restrittive) facciano sì che l’Europa sarà un traino pesante della carovana dell’economia internazionale. All’interno dell’Ue appare necessario definire un nuovo patto, o integrare quello esistente, per dare sostanza alle decisioni del Consiglio Europeo del 17 giugno: se il parametro chiave diventa la “sostenibilità del debito” , occorre chiarire quale deve essere la proporzione di quello pubblico, di quello privato, di quello in mano a non residenti e via discorrendo. Tutti argomenti da rendere fitta l’agenda dell’Eurozona per i prossimi mesi.
Principati dell'Impero Lirico Sinfonico in Musica luglio-agosto
La polemica di luglio-agosto 2010
Nel 1993 Francesco Ernani e Roberto Iovino pubblicarono un libro intitolato ‘‘La Repubblica degli Enti Lirico-Sinfonici”. Se dovessero riscriverlo oggi sarebbe più appropriato chiamarlo ‘‘I Principati dell'Impero Lirico-Sinfonico”. Le Repubbliche, pur sovvenzionate dallo Stato, avevano una base e un sostegno locale: erano ex-enti autonomi comunali e ci¤ comportava anche un controllo dal basso. Oggi, a dodici anni dalla Legge Veltroni che li ha trasformati in fondazioni private, dipendono dal centro -- Fondo unico per lo spettacolo (Fus) -- più di prima e hanno perso una parte del sostegno locale e del controllo dal basso. Il mondo della lirica assomiglia al Sacro Impero Romano dove i ‘‘Principati” non sembrano avere un indirizzo chiaro e andare ciascuno per conto proprio.
Il disagio è dimostrato -- più che dallo stock di debito accumulato (duecento milioni di euro in dodici anni di cui la metà nell'ultimo lustro) e dai commissariamenti decisi in seguito a crescenti disavanzi -- da un indicatore eloquente: mediamente il costo di una rappresentazione lirica in Italia è il 140% della media dell'Unione Europea a 15 e circa il 200% dell'Unione Europea a 27.
In Italia la privatizzazione è fallita: al 90% il finanziamento è pubblico. La tabella sui risultati di bilancio negli ultimi cinque anni indica che solo La Scala (che ha attirato consistenti soci privati), il Regio di Torino, il Massimo di Palermo e il Lirico di Cagliari hanno chiuso i conti in pareggio o in attivo per una serie di anni; l'Arena di Verona e il San Carlo di Napoli hanno rimesso i conti in ordine di recente (nel caso del San Carlo grazie all'impiego di Fondi per le Aree Sotto-utilizzate per saldarne il debito).
Inquietante in ogni caso lo stato patrimoniale del comparto: il patrimonio conferito alle fondazioni al 31 dicembre 1998 è diminuito mediamente di oltre il 20% (in termini nominali -- ma di almeno il 40% in termini reali). Lo sarebbe anche di più se quello dell'Accademia di Santa Cecilia non fosse più che raddoppiato. Gli interessi passivi portano via dieci milioni di euro l'anno.
Il 70% dei costi è per il personale. Necessariamente, le misure di contenimento previste dal Governo col Decreto Bondi riguardano questa voce, anche perché i cachet degli artisti ‘‘a scrittura” sono già regolamentati da misure che stabiliscono fasce e compensi massimi. La tabella sugli organici mostra che le due maggiori fondazioni hanno masse tecnico-artistiche analoghe a quelle della Staatsoper di Vienna che ogni anno mette in scene cinquanta titoli d'opera e dieci di balletto. Circa il 15% dell'organico complessivo è nell'area amministrativa; quello della Fondazione Petruzzelli (nove titoli e circa cinquanta rappresentazioni) è quasi una volta e mezzo (131 addetti) rispetto a quello della Scala (83 addetti), che propone venti titoli per oltre duecentocinquanta rappresentazioni.
Nel Sacro Impero Romano, quando il centro era messo alle strette decretava nei confronti delle disfunzioni apparentemente maggiori. E’ da auspicarsi che nei regolamenti previsti dal decreto legge si includano misure tali da incentivare la buona gestione da parte del management: si chieda, ad esempio, che il settanta percento degli spettacoli sia in coproduzione, si contemplino meccanismi per premiare le fondazioni ‘‘virtuose” in termini di bilancio e di quantità e qualità di programmazione e si prevedano matching grants, di frequente impiego all'estero, in base ai quali indirizzare i contributi pubblici verso i teatri che riescono a meglio coprire le proprie spese con l'apporto di privati.
Giuseppe Pennisi
Nel 1993 Francesco Ernani e Roberto Iovino pubblicarono un libro intitolato ‘‘La Repubblica degli Enti Lirico-Sinfonici”. Se dovessero riscriverlo oggi sarebbe più appropriato chiamarlo ‘‘I Principati dell'Impero Lirico-Sinfonico”. Le Repubbliche, pur sovvenzionate dallo Stato, avevano una base e un sostegno locale: erano ex-enti autonomi comunali e ci¤ comportava anche un controllo dal basso. Oggi, a dodici anni dalla Legge Veltroni che li ha trasformati in fondazioni private, dipendono dal centro -- Fondo unico per lo spettacolo (Fus) -- più di prima e hanno perso una parte del sostegno locale e del controllo dal basso. Il mondo della lirica assomiglia al Sacro Impero Romano dove i ‘‘Principati” non sembrano avere un indirizzo chiaro e andare ciascuno per conto proprio.
Il disagio è dimostrato -- più che dallo stock di debito accumulato (duecento milioni di euro in dodici anni di cui la metà nell'ultimo lustro) e dai commissariamenti decisi in seguito a crescenti disavanzi -- da un indicatore eloquente: mediamente il costo di una rappresentazione lirica in Italia è il 140% della media dell'Unione Europea a 15 e circa il 200% dell'Unione Europea a 27.
In Italia la privatizzazione è fallita: al 90% il finanziamento è pubblico. La tabella sui risultati di bilancio negli ultimi cinque anni indica che solo La Scala (che ha attirato consistenti soci privati), il Regio di Torino, il Massimo di Palermo e il Lirico di Cagliari hanno chiuso i conti in pareggio o in attivo per una serie di anni; l'Arena di Verona e il San Carlo di Napoli hanno rimesso i conti in ordine di recente (nel caso del San Carlo grazie all'impiego di Fondi per le Aree Sotto-utilizzate per saldarne il debito).
Inquietante in ogni caso lo stato patrimoniale del comparto: il patrimonio conferito alle fondazioni al 31 dicembre 1998 è diminuito mediamente di oltre il 20% (in termini nominali -- ma di almeno il 40% in termini reali). Lo sarebbe anche di più se quello dell'Accademia di Santa Cecilia non fosse più che raddoppiato. Gli interessi passivi portano via dieci milioni di euro l'anno.
Il 70% dei costi è per il personale. Necessariamente, le misure di contenimento previste dal Governo col Decreto Bondi riguardano questa voce, anche perché i cachet degli artisti ‘‘a scrittura” sono già regolamentati da misure che stabiliscono fasce e compensi massimi. La tabella sugli organici mostra che le due maggiori fondazioni hanno masse tecnico-artistiche analoghe a quelle della Staatsoper di Vienna che ogni anno mette in scene cinquanta titoli d'opera e dieci di balletto. Circa il 15% dell'organico complessivo è nell'area amministrativa; quello della Fondazione Petruzzelli (nove titoli e circa cinquanta rappresentazioni) è quasi una volta e mezzo (131 addetti) rispetto a quello della Scala (83 addetti), che propone venti titoli per oltre duecentocinquanta rappresentazioni.
Nel Sacro Impero Romano, quando il centro era messo alle strette decretava nei confronti delle disfunzioni apparentemente maggiori. E’ da auspicarsi che nei regolamenti previsti dal decreto legge si includano misure tali da incentivare la buona gestione da parte del management: si chieda, ad esempio, che il settanta percento degli spettacoli sia in coproduzione, si contemplino meccanismi per premiare le fondazioni ‘‘virtuose” in termini di bilancio e di quantità e qualità di programmazione e si prevedano matching grants, di frequente impiego all'estero, in base ai quali indirizzare i contributi pubblici verso i teatri che riescono a meglio coprire le proprie spese con l'apporto di privati.
Giuseppe Pennisi
venerdì 25 giugno 2010
LA FAMIGLIA SALVA IL PAESE Il Tempo 25 giugno
La ricchezza finanziaria delle famiglie italiane è pari a due volte il Pil. Se si tiene conto anche della ricchezza immobiliare, la ricchezza delle famiglie supera cinque volte il Pil. Da un lato, queste cifre rappresentano uno dei punti di forza della delegazione italiana all’imminente G20 di Toronto in calendario il 26 giugno. . Da un altro, devono essere tenute nel massimo conto da Governo e Parlamento nel modulare una seconda fase della strategia economica orientata alla crescita.
In primo luogo, al termine di una dura battaglia, la diplomazia economica italiana ho ottenuto dai partner europei che nella posizione europea al G20, prima , e nella revisione del “patto di stabilità” poi uno dei parametri di riferimento per valutare la sostenibilità della politica di bilancio sia il rapporto tra “debito aggregato” e Pil non solo quello tra debito pubblico e Pil.Il nostro debito pubblico sfiora il 120% del Pil ed è uno dei più alti, se non dell’Ue, dell’area dell’euro, mentre il nostro “debito aggregato” è pari al 243% del Pil ben inferiore ad una media europea che supera il 250% del Pil. Quella dell’Italia non è stata e non è una presa di posizione particolaristica. Sotto il profilo economico e finanziario, fa differenza se il “debito aggregato” è finanziato come il nostro dai residenti (ossia in gran misura dalle famiglie) o da non residenti (il 99,9% del debito greco è detenuto da non residenti, pronti a liberarsene, come si è visto, al primo segno di tempesta). Oltre l’80% del debito pubblico italiano è finanziato dalle famiglie; è un modo di collocare quella ricchezza finanziaria (ripetiamo: il doppio del Pil) in un impiego che è stato sempre sicure e che – se ne ha avuta una prova chiara all’ultima asta dei titoli di Stato- sono pronte a difendere a spada tratta in caso di esigenza.
In secondo luogo, però, se la forza dell’Italia è quella ricchezza delle famiglie , frutto di un tasso di risparmio elevato che, pur se diminuito negli ultimi anni, ci tramandiamo con sudore, da generazione a generazione, la mano pubblica deve trattare con cura le famiglie. Einaudi amava ripetere che se si inveisce contro la pecora, muore prima che la si possa tosare. Io preferisco dire che se si vuole lana di buona qualità non bisogna tosare la pecora più del minimo necessario. Altrimenti ci facciamo del male. Anzi, occorre farla pascolare bene ed incoraggiarla a crescere ed ingrassarsi. Nella attuale situazione di finanza pubblica è difficile pensare ad una drastica riduzione delle aliquote tributarie. Si può, però. Iniziare a fare progetti su due fronti: a) il “quoziente familiare” per incoraggiare la famiglie ad avere prole ed a curare il male oscuro peggiore dell’economia e della società italiana (l’invecchiamento) ; b) destinare alle famiglie quanto gettito si riesce a recuperare grazie alla lotta all’evasione fiscale. La famiglia sta salvando l’Italia dalla crisi e dal dopo-crisi: se lo merita.
In primo luogo, al termine di una dura battaglia, la diplomazia economica italiana ho ottenuto dai partner europei che nella posizione europea al G20, prima , e nella revisione del “patto di stabilità” poi uno dei parametri di riferimento per valutare la sostenibilità della politica di bilancio sia il rapporto tra “debito aggregato” e Pil non solo quello tra debito pubblico e Pil.Il nostro debito pubblico sfiora il 120% del Pil ed è uno dei più alti, se non dell’Ue, dell’area dell’euro, mentre il nostro “debito aggregato” è pari al 243% del Pil ben inferiore ad una media europea che supera il 250% del Pil. Quella dell’Italia non è stata e non è una presa di posizione particolaristica. Sotto il profilo economico e finanziario, fa differenza se il “debito aggregato” è finanziato come il nostro dai residenti (ossia in gran misura dalle famiglie) o da non residenti (il 99,9% del debito greco è detenuto da non residenti, pronti a liberarsene, come si è visto, al primo segno di tempesta). Oltre l’80% del debito pubblico italiano è finanziato dalle famiglie; è un modo di collocare quella ricchezza finanziaria (ripetiamo: il doppio del Pil) in un impiego che è stato sempre sicure e che – se ne ha avuta una prova chiara all’ultima asta dei titoli di Stato- sono pronte a difendere a spada tratta in caso di esigenza.
In secondo luogo, però, se la forza dell’Italia è quella ricchezza delle famiglie , frutto di un tasso di risparmio elevato che, pur se diminuito negli ultimi anni, ci tramandiamo con sudore, da generazione a generazione, la mano pubblica deve trattare con cura le famiglie. Einaudi amava ripetere che se si inveisce contro la pecora, muore prima che la si possa tosare. Io preferisco dire che se si vuole lana di buona qualità non bisogna tosare la pecora più del minimo necessario. Altrimenti ci facciamo del male. Anzi, occorre farla pascolare bene ed incoraggiarla a crescere ed ingrassarsi. Nella attuale situazione di finanza pubblica è difficile pensare ad una drastica riduzione delle aliquote tributarie. Si può, però. Iniziare a fare progetti su due fronti: a) il “quoziente familiare” per incoraggiare la famiglie ad avere prole ed a curare il male oscuro peggiore dell’economia e della società italiana (l’invecchiamento) ; b) destinare alle famiglie quanto gettito si riesce a recuperare grazie alla lotta all’evasione fiscale. La famiglia sta salvando l’Italia dalla crisi e dal dopo-crisi: se lo merita.
giovedì 24 giugno 2010
Musica, il Ravenna Festival: dalle tenebre alla luce Il Velino 24 giugno
CLT - Musica, il Ravenna Festival: dalle tenebre alla luce
Roma, 24 giu (Il Velino) - Giunto alla XXI edizione, il Ravenna Festival ha assunto il posto che un tempo rivestiva il Festival dei Due Mondi di Spoleto, ora in fase di rilancio. A differenza della manifestazione umbra, il “Ravenna” può contare su un forte supporto privato e degli enti locali, nonché di un periodo molto esteso: l’edizione di quest’anno cominciata il 7 giugno si concluderà il 13 luglio. Dispone, oltre che di un bellissimo teatro ottocentesco (il “Dante Alighieri”), di molti altri luoghi (dalle basiliche bizantine al modernissimo Pala De André) dove fare spettacolo, di facile collegamenti con la parte a più alto reddito e a maggiore cultura d’Italia e di un aeroporto internazionale (quello di Rimini) da cui raggiungere il resto del mondo. Elemento non secondario, l’attenzione di Cristina Mazzavillani Muti e di Riccardo Muti che vi dedicano tempo ed energie. Molto presente il pubblico della Romagna e delle zone limitrofe, mentre a Spoleto meno del 10 per cento dei residenti frequenta il Festival e per il Rossini Opera Festival di Pesaro, il 70 per cento dei biglietti sono venduti fuori dalle Marche Regione. Come il Festival di Spoleto, la manifestazione ravennate coniuga varie forme di spettacolo dal vivo, dalla musica colta ai musical, dalla prosa alla danza e ha una serie di mostre e attività collaterali. Sempre al pari della rassegna umbra, porta in Italia spettacoli stranieri mai visti nel nostro Paese. A differenza però del Festival dei due Mondi ha ogni anno un tema puntuale, che raccorda i vari eventi, commissiona lavori e presenta prime mondiali di spettacoli che andranno in giro per il mondo.
Il tema di questa edizione è “Ex tenebris ad lucem”, tema che viene dai Vangeli ma che può essere declinato in vari modi. Gli elementi della ricerca della Verità, quindi del significato della vita e della morte e con esso un afflato filosofico-religioso, sono centrali nel centinaio circa di spettacoli in programma. La conclusione è di livello internazionale: Riccardo Muti, dopo avere portato a Ravenna i preziosi allestimenti del Festival di Pentecoste di Salisburgo, chiude con un grande concerto, replicato il giorno dopo “sulle vie dell’amicizia e della pace”. Questa volta si tratta del Requiem in do minore di Cherubini (concertato dall’Orchestra Cherubini, dall’Orchestra Giovanile Italiana e da musicisti delle Accademie di Musica di Lubiana e di Zagabria e de “La Stagione Armonica” con cori italiani, sloveni e croati) eseguito al Pala De André il 12 luglio e a Piazza dell’Unità d’Italia a Trieste, il giorno seguente, con gli occhi rivolti ai Balcani. Nel vasto programma della rassegna, va segnalata la prima mondiale di un’opera che sarà a Roma in autunno e probabilmente si vedrà in altri teatri italiani e stranieri: “Tenebrae” di uno dei più originali compositori nostrani, Antonio Guarnieri, su libretto del sindaco-filosofo Massimo Cacciari. “Tenebrae”, basato sulla liturgia del Venerdì Santo e su testi di Cacciari nei primi tre quadri e di Trakl (riletto dall’ex sindaco di Venezia) nell’ultimo, è un doloroso cammino verso la serenità. Il testo cantato da due soprano (Alda Caiello e Sonia Visentin) e un controtenore (Antonio Giovannini) è sì destrutturato, ma accompagnato da una attrice (Elena Bucci, il corpo) di cui si intende perfettamente ogni frase e da una danzatrice (Catherine Pantigny, l’anima) che rende esplicito il messaggio. Inoltre, un coro registrato di bassi, lo Speculum Ensemble fa da contrappunto alla parte vocale, assieme a un ensemble di solisti dell’Opera di Roma guidati da Pietro Borgonovo (magnifici il flauto, il violoncello e gli ottoni) e una tastiera elettronica (la regia del suono è di Luigi Ceccarelli). La partitura è rigorosamente dodecafonica , su scala di dodici note con ritorni e variazioni, affidate a tre voci imperniate su tonalità alte e su purissimi acuti (quindi, il contrappunto dei bassi). L’elemento relativamente debole dello spettacolo sono la regia e la scenografia (Cristina Mazzavillani Muti, Ezio Antonelli, Vincent Longuemare): efficaci nei primi due quadri, diventano statiche negli altri due. Devono essere rivisitate nelle successive esecuzioni.
Nel programma del Ravenna Festival da menzionare anche due concerti riguardanti la liturgia. Ambedue affidati a La Stagione Armomica, creata e guidata da Sergio Balestrazzi, il primo è imperniato sugli inni del Venerdì Santo e l’Ufficio delle Tenebre , su musiche di Alessandro Scarlatti ritrovate negli archivi dell’Accademia Filarmonica di Bologna: una musica tenebrosa ma ricca di fine Seicento in cui solisti e coro sono accompagnati da violini, violoncello, violone, tiorba ed organo. Il secondo è invece una consacrazione eucaristica nello stile della controriforma con musiche di Bianciardi, Monteverdi, Morelli, Salvolini e Signoretti. Quindi polifonia con un minimo d’accompagnamento per organo. Alla rassegna ravennate, insomma, si può passare in breve tempo dalla dodecafonia più avanzata alla polifonia immediatamente successiva a Palestrina.
(Hans Sachs) 24 giu 2010 12:54
Roma, 24 giu (Il Velino) - Giunto alla XXI edizione, il Ravenna Festival ha assunto il posto che un tempo rivestiva il Festival dei Due Mondi di Spoleto, ora in fase di rilancio. A differenza della manifestazione umbra, il “Ravenna” può contare su un forte supporto privato e degli enti locali, nonché di un periodo molto esteso: l’edizione di quest’anno cominciata il 7 giugno si concluderà il 13 luglio. Dispone, oltre che di un bellissimo teatro ottocentesco (il “Dante Alighieri”), di molti altri luoghi (dalle basiliche bizantine al modernissimo Pala De André) dove fare spettacolo, di facile collegamenti con la parte a più alto reddito e a maggiore cultura d’Italia e di un aeroporto internazionale (quello di Rimini) da cui raggiungere il resto del mondo. Elemento non secondario, l’attenzione di Cristina Mazzavillani Muti e di Riccardo Muti che vi dedicano tempo ed energie. Molto presente il pubblico della Romagna e delle zone limitrofe, mentre a Spoleto meno del 10 per cento dei residenti frequenta il Festival e per il Rossini Opera Festival di Pesaro, il 70 per cento dei biglietti sono venduti fuori dalle Marche Regione. Come il Festival di Spoleto, la manifestazione ravennate coniuga varie forme di spettacolo dal vivo, dalla musica colta ai musical, dalla prosa alla danza e ha una serie di mostre e attività collaterali. Sempre al pari della rassegna umbra, porta in Italia spettacoli stranieri mai visti nel nostro Paese. A differenza però del Festival dei due Mondi ha ogni anno un tema puntuale, che raccorda i vari eventi, commissiona lavori e presenta prime mondiali di spettacoli che andranno in giro per il mondo.
Il tema di questa edizione è “Ex tenebris ad lucem”, tema che viene dai Vangeli ma che può essere declinato in vari modi. Gli elementi della ricerca della Verità, quindi del significato della vita e della morte e con esso un afflato filosofico-religioso, sono centrali nel centinaio circa di spettacoli in programma. La conclusione è di livello internazionale: Riccardo Muti, dopo avere portato a Ravenna i preziosi allestimenti del Festival di Pentecoste di Salisburgo, chiude con un grande concerto, replicato il giorno dopo “sulle vie dell’amicizia e della pace”. Questa volta si tratta del Requiem in do minore di Cherubini (concertato dall’Orchestra Cherubini, dall’Orchestra Giovanile Italiana e da musicisti delle Accademie di Musica di Lubiana e di Zagabria e de “La Stagione Armonica” con cori italiani, sloveni e croati) eseguito al Pala De André il 12 luglio e a Piazza dell’Unità d’Italia a Trieste, il giorno seguente, con gli occhi rivolti ai Balcani. Nel vasto programma della rassegna, va segnalata la prima mondiale di un’opera che sarà a Roma in autunno e probabilmente si vedrà in altri teatri italiani e stranieri: “Tenebrae” di uno dei più originali compositori nostrani, Antonio Guarnieri, su libretto del sindaco-filosofo Massimo Cacciari. “Tenebrae”, basato sulla liturgia del Venerdì Santo e su testi di Cacciari nei primi tre quadri e di Trakl (riletto dall’ex sindaco di Venezia) nell’ultimo, è un doloroso cammino verso la serenità. Il testo cantato da due soprano (Alda Caiello e Sonia Visentin) e un controtenore (Antonio Giovannini) è sì destrutturato, ma accompagnato da una attrice (Elena Bucci, il corpo) di cui si intende perfettamente ogni frase e da una danzatrice (Catherine Pantigny, l’anima) che rende esplicito il messaggio. Inoltre, un coro registrato di bassi, lo Speculum Ensemble fa da contrappunto alla parte vocale, assieme a un ensemble di solisti dell’Opera di Roma guidati da Pietro Borgonovo (magnifici il flauto, il violoncello e gli ottoni) e una tastiera elettronica (la regia del suono è di Luigi Ceccarelli). La partitura è rigorosamente dodecafonica , su scala di dodici note con ritorni e variazioni, affidate a tre voci imperniate su tonalità alte e su purissimi acuti (quindi, il contrappunto dei bassi). L’elemento relativamente debole dello spettacolo sono la regia e la scenografia (Cristina Mazzavillani Muti, Ezio Antonelli, Vincent Longuemare): efficaci nei primi due quadri, diventano statiche negli altri due. Devono essere rivisitate nelle successive esecuzioni.
Nel programma del Ravenna Festival da menzionare anche due concerti riguardanti la liturgia. Ambedue affidati a La Stagione Armomica, creata e guidata da Sergio Balestrazzi, il primo è imperniato sugli inni del Venerdì Santo e l’Ufficio delle Tenebre , su musiche di Alessandro Scarlatti ritrovate negli archivi dell’Accademia Filarmonica di Bologna: una musica tenebrosa ma ricca di fine Seicento in cui solisti e coro sono accompagnati da violini, violoncello, violone, tiorba ed organo. Il secondo è invece una consacrazione eucaristica nello stile della controriforma con musiche di Bianciardi, Monteverdi, Morelli, Salvolini e Signoretti. Quindi polifonia con un minimo d’accompagnamento per organo. Alla rassegna ravennate, insomma, si può passare in breve tempo dalla dodecafonia più avanzata alla polifonia immediatamente successiva a Palestrina.
(Hans Sachs) 24 giu 2010 12:54
STRATEGIA IN TRE MOSSE CONTRO L’INSIDIA DEFLAZIONA
STRATEGIA IN TRE MOSSE CONTRO L’INSIDIA DEFLAZIONA
Giuseppe Pennisi
Si cominciano a toccare con mano i segni della deflazione: depurato dagli indici di prezzi dei beni il cui andamento caratterizzato da una forte volatilità (generi alimentari, petrolio), il tasso di aumento dei prezzi al consumo negli Usa, in Giappone e in Eurolandia è passato dal 4,5 per cento del 1991 a quasi zero nei primi tre mesi del 2010. Con prezzi congelati o in ribasso, ci si dovrebbe rallegrare in tutti quei Paesi dove sono state messe in atto manovre di finanza pubblica che bloccano (per alcuni anni) stipendi e salari per varie categorie di lavoratori .La deflazione, però, contiene insidie maggiori dell'inflazione. In primo luogo, è una tassa iniqua: colpisce la categorie deboli più delle altre. L'aspettative di ulteriore calo dei prezzi induce i consumatori a ritardare gli acquisti, causando un calo della domanda e una perdita d'occupazione (e di reddito) nei settori pi fragili. In secondo luogo, mentre nell'ultimo quarto di secolo i ministeri dell'economia e le banche centrali (e gli stessi economisti) hanno appreso come contenere e gestire l'inflazione, la deflazione è un fenomeno di cui pochi hanno esperienza. La sola recente quella in corso da oltre dieci anni in Giappone ci dice che né gli economisti né i banchieri centrali né i politici sanno venire a capo di un male con tutte le caratteristiche di essere oscuro.
La deflazione nell'area dell'euro presenta una caratteristica: è un danno collaterale di una strategia comune diretta a mantenere in vita l'unione monetaria e a ridurre squilibri di finanza pubblica di alcuni Stati della zona che potrebbero compromettere l'intero disegno. A una strategia comune deve corrispondere una risposta comune; andando in ordine sparso, i singoli Stati dell'area rischierebbero di aumentare i danni con misure di protezionismo nascosto.
Crediamo che una strategia Ue per contenere la deflazione nell'unione monetaria possa essere efficace (anche se non risolutiva) se contiene tre ingredienti. Anzitutto una liberalizzazione dei mercati dei prodotti e dei servizi. E una materia che, in quasi tutta l'unione monetaria, di competenza non degli Stati centrali ma degli enti decentrati (Regioni e soprattutto Comuni). In molti Paesi dell'area (ad esempio Francia e Germania) le rigidità livello locale sono pi stringenti che in Italia ed applicate da amministrazioni pi rigorose e meno propense a deroghe. Una direttiva europea, accompagnata da una campagna di persuasione che metta l'accento sui costi e sui rischi di liberalizzazioni mancate o tardive, potrebbe avere effetto, specialmente se prevede una "premialità europea" per gli enti che liberalizzano prima e meglio.
In secondo luogo , servirebbe un regolamento europeo su cosa considerare investimento pubblico a lungo termine . Il regolamenmto dovrebbe definire tale quello in capitale fisso sociale ed in ricerca (senza estenderlo a capitale umano e sociale in quanto la spesa per l'istruzione e la sanità molto vasta e di parte corrente). In tal modo si potrebbe progettare una revisione del "patto di stabilità” per esentare questo investimento pubblico a lungo termine dai vincoli di bilancio.
Infine è necessaria una prassi europea per utilizzare i risultati positivi della lotta all'evasione tributaria in termini di maggiore entrate allo scopo di ridurre le aliquote fiscali. Alberto Alesina ha calcolato che in Italia l'aliquota marginale di coloro che assolvono agli obblighi tributari non il 43 per cento ma circa il 60 per cento, proibitiva per chiunque voglia operare. Già tre lustri fa, Pier Luigi Cioccia si chiedeva come si può ai tempi dell'integrazione economica internazionale, competere con aree del mondo in cui la pressione fiscale non supera il 30 per cento.
Giuseppe Pennisi
Si cominciano a toccare con mano i segni della deflazione: depurato dagli indici di prezzi dei beni il cui andamento caratterizzato da una forte volatilità (generi alimentari, petrolio), il tasso di aumento dei prezzi al consumo negli Usa, in Giappone e in Eurolandia è passato dal 4,5 per cento del 1991 a quasi zero nei primi tre mesi del 2010. Con prezzi congelati o in ribasso, ci si dovrebbe rallegrare in tutti quei Paesi dove sono state messe in atto manovre di finanza pubblica che bloccano (per alcuni anni) stipendi e salari per varie categorie di lavoratori .La deflazione, però, contiene insidie maggiori dell'inflazione. In primo luogo, è una tassa iniqua: colpisce la categorie deboli più delle altre. L'aspettative di ulteriore calo dei prezzi induce i consumatori a ritardare gli acquisti, causando un calo della domanda e una perdita d'occupazione (e di reddito) nei settori pi fragili. In secondo luogo, mentre nell'ultimo quarto di secolo i ministeri dell'economia e le banche centrali (e gli stessi economisti) hanno appreso come contenere e gestire l'inflazione, la deflazione è un fenomeno di cui pochi hanno esperienza. La sola recente quella in corso da oltre dieci anni in Giappone ci dice che né gli economisti né i banchieri centrali né i politici sanno venire a capo di un male con tutte le caratteristiche di essere oscuro.
La deflazione nell'area dell'euro presenta una caratteristica: è un danno collaterale di una strategia comune diretta a mantenere in vita l'unione monetaria e a ridurre squilibri di finanza pubblica di alcuni Stati della zona che potrebbero compromettere l'intero disegno. A una strategia comune deve corrispondere una risposta comune; andando in ordine sparso, i singoli Stati dell'area rischierebbero di aumentare i danni con misure di protezionismo nascosto.
Crediamo che una strategia Ue per contenere la deflazione nell'unione monetaria possa essere efficace (anche se non risolutiva) se contiene tre ingredienti. Anzitutto una liberalizzazione dei mercati dei prodotti e dei servizi. E una materia che, in quasi tutta l'unione monetaria, di competenza non degli Stati centrali ma degli enti decentrati (Regioni e soprattutto Comuni). In molti Paesi dell'area (ad esempio Francia e Germania) le rigidità livello locale sono pi stringenti che in Italia ed applicate da amministrazioni pi rigorose e meno propense a deroghe. Una direttiva europea, accompagnata da una campagna di persuasione che metta l'accento sui costi e sui rischi di liberalizzazioni mancate o tardive, potrebbe avere effetto, specialmente se prevede una "premialità europea" per gli enti che liberalizzano prima e meglio.
In secondo luogo , servirebbe un regolamento europeo su cosa considerare investimento pubblico a lungo termine . Il regolamenmto dovrebbe definire tale quello in capitale fisso sociale ed in ricerca (senza estenderlo a capitale umano e sociale in quanto la spesa per l'istruzione e la sanità molto vasta e di parte corrente). In tal modo si potrebbe progettare una revisione del "patto di stabilità” per esentare questo investimento pubblico a lungo termine dai vincoli di bilancio.
Infine è necessaria una prassi europea per utilizzare i risultati positivi della lotta all'evasione tributaria in termini di maggiore entrate allo scopo di ridurre le aliquote fiscali. Alberto Alesina ha calcolato che in Italia l'aliquota marginale di coloro che assolvono agli obblighi tributari non il 43 per cento ma circa il 60 per cento, proibitiva per chiunque voglia operare. Già tre lustri fa, Pier Luigi Cioccia si chiedeva come si può ai tempi dell'integrazione economica internazionale, competere con aree del mondo in cui la pressione fiscale non supera il 30 per cento.
mercoledì 23 giugno 2010
E SE IL SUPER YAUN NON SERVISSE POI TANTO ALL’ASFITTICA RIPRESA GLOBALE? Il Foglio 24 giugno
E SE IL SUPER YAUN NON SERVISSE POI TANTO ALL’ASFITTICA RIPRESA GLOBALE?
Giuseppe Pennisi
Il G20 che si terrà a Toronto questo fine settimana si apre apparentemente sotto la migliore stella. Da un lato, negli ultimi giorni, la Repubblica Popolare di Cina ha annunciato, tramite un comunicato della propria banca centrale, il proposito di rendere più flessibile il tasso di cambio dello yaun. Da un altro, dopo una grave crisi all’interno dell’area dell’euro, il Consiglio Europeo ha diramato un comunicato “unitario” (per utilizzare il gergo un tempo in uso negli organi dei partiti italiani) tale da far contenti tutti e da permettere a ciascuno di mostrare al proprio elettorato di avere fatto prevalere i propri interessi nazionali rispetto a quelli degli altri. Invece, le delegazioni che si avviano al G20 con il consueto codazzo di barracuda-esperti non celano di essere inquiete principalmente per le ambiguità ed incertezze che caratterizzano le posizioni della Cina e dell’Ue.
Veniamo, in primo luogo, alla politica del cambio nel Celeste Impero. Un libro pubblicato a fine 2009 da Mark Shiao dell’Università di Londra ("Financial Regulation of Derivatives, Trust and Securitisation in China" Carswell Thomson Rueter) mostra a tutto tondo come la politica del cambio è solo un tassello di un complesso sistema di regolazione del mercato finanziario interno. Non è necessariamente il principale anche perché il sistema di regolazione è in rapida evoluzione e di difficile comprensione ad europei ed americani. In breve, un cambio più flessibile, o pure anche una svalutazione, possono essere agevolmente neutralizzati ritoccando le regolazione interne. Lo sostengono, in un saggio in “The World Economy”, Ronald Mckinnon dell’Università di Stanford e Gunther Schanabl di quella di Lipsia. Unitamente ad un veterano delle analisi della contabilità economica nazionale di vari Paesi, Angus Maddison, i due economisti sottolineano che se in termini di parità di potere d’acquisto il Pil cinese è pari all’80% di quello Usa, nel contesto attuale, una rivalutazione dello yuan rispetto al dollaro non è forse nell’interesse né della comunità internazionale né della Cina. In altri termini, la ripresa mondiale richiede che l’Impero di Mezzo cresca all’8% l’anno; un probabile effetto di una rivalutazione significativa provocherebbe un rallento della crescita cinese e, con esso di quella mondiale. Gli scenari più pessimisti sono quelli tratteggiati negli Stati Uniti, dove Dipartimento di Stato e Pentagono sembrano avere divergente di punti di vista con il Tesoro e con la Federal Reserve proprio su questo punto: nel settore “moderno” della Cina, in breve, ci sarebbero ben 150 milioni di uomini e donne in cerca di lavoro, questo numero aumenterebbe in caso di decelerazione della crescita, innescando seri problemi interni d’ordine pubblico e fomentando guerre e guerriglie locali (di cui in Occidente si sa poco o nulla). I cinesi sono consapevoli di questi , ed altri, problemi ancora più di quanto lo siano i sinologhi Usa. Come leggere allora il comunicato della Banca centrale? Una mera intenzione di riprendere, con gradualità, la strategia di ritocchi al margine già attuata nel 2005-2008. Senza incidere né sugli squilibri mondiali né, ancor meno, sui problemi interni del Paese. A Toronto – lo si ammette – si parlerà molto del tasso di cambio dello yuan, ma non si concluderà nulla.
Ancora più inquietante (specialmente se visto da Oltre-Atlantico) il quadro europeo. Pochi mesi della crisi dell’Eurozona, nelle principali università americane e anche nei canali televisivi culturali ha avuto un’ampia diffusione il film The World’s Next Supermodels (“Il prossimo supermodello mondiale”) di Ijsbrand van Veeelem. Come in un “giallo” di Sidney Lumet , una giuria deve esaminare (con testimonianze e prove documentarie) chi sarebbe stato, dopo il ridimensionamento degli Stati Uniti, il nuovo “supermodello” economico e sociale. Cina, India ed altre “tigri” venivano scartate (in quanto ritenute fragili ed effimere). Vinceva l’Europa con la propria economia sociale di mercato proprio perché aveva mostrato di reggere bene la crisi 2007-2009. Gli avvenimenti degli ultimi mesi sembrano aver cambiato questo quadro.
Giuseppe Pennisi
Il G20 che si terrà a Toronto questo fine settimana si apre apparentemente sotto la migliore stella. Da un lato, negli ultimi giorni, la Repubblica Popolare di Cina ha annunciato, tramite un comunicato della propria banca centrale, il proposito di rendere più flessibile il tasso di cambio dello yaun. Da un altro, dopo una grave crisi all’interno dell’area dell’euro, il Consiglio Europeo ha diramato un comunicato “unitario” (per utilizzare il gergo un tempo in uso negli organi dei partiti italiani) tale da far contenti tutti e da permettere a ciascuno di mostrare al proprio elettorato di avere fatto prevalere i propri interessi nazionali rispetto a quelli degli altri. Invece, le delegazioni che si avviano al G20 con il consueto codazzo di barracuda-esperti non celano di essere inquiete principalmente per le ambiguità ed incertezze che caratterizzano le posizioni della Cina e dell’Ue.
Veniamo, in primo luogo, alla politica del cambio nel Celeste Impero. Un libro pubblicato a fine 2009 da Mark Shiao dell’Università di Londra ("Financial Regulation of Derivatives, Trust and Securitisation in China" Carswell Thomson Rueter) mostra a tutto tondo come la politica del cambio è solo un tassello di un complesso sistema di regolazione del mercato finanziario interno. Non è necessariamente il principale anche perché il sistema di regolazione è in rapida evoluzione e di difficile comprensione ad europei ed americani. In breve, un cambio più flessibile, o pure anche una svalutazione, possono essere agevolmente neutralizzati ritoccando le regolazione interne. Lo sostengono, in un saggio in “The World Economy”, Ronald Mckinnon dell’Università di Stanford e Gunther Schanabl di quella di Lipsia. Unitamente ad un veterano delle analisi della contabilità economica nazionale di vari Paesi, Angus Maddison, i due economisti sottolineano che se in termini di parità di potere d’acquisto il Pil cinese è pari all’80% di quello Usa, nel contesto attuale, una rivalutazione dello yuan rispetto al dollaro non è forse nell’interesse né della comunità internazionale né della Cina. In altri termini, la ripresa mondiale richiede che l’Impero di Mezzo cresca all’8% l’anno; un probabile effetto di una rivalutazione significativa provocherebbe un rallento della crescita cinese e, con esso di quella mondiale. Gli scenari più pessimisti sono quelli tratteggiati negli Stati Uniti, dove Dipartimento di Stato e Pentagono sembrano avere divergente di punti di vista con il Tesoro e con la Federal Reserve proprio su questo punto: nel settore “moderno” della Cina, in breve, ci sarebbero ben 150 milioni di uomini e donne in cerca di lavoro, questo numero aumenterebbe in caso di decelerazione della crescita, innescando seri problemi interni d’ordine pubblico e fomentando guerre e guerriglie locali (di cui in Occidente si sa poco o nulla). I cinesi sono consapevoli di questi , ed altri, problemi ancora più di quanto lo siano i sinologhi Usa. Come leggere allora il comunicato della Banca centrale? Una mera intenzione di riprendere, con gradualità, la strategia di ritocchi al margine già attuata nel 2005-2008. Senza incidere né sugli squilibri mondiali né, ancor meno, sui problemi interni del Paese. A Toronto – lo si ammette – si parlerà molto del tasso di cambio dello yuan, ma non si concluderà nulla.
Ancora più inquietante (specialmente se visto da Oltre-Atlantico) il quadro europeo. Pochi mesi della crisi dell’Eurozona, nelle principali università americane e anche nei canali televisivi culturali ha avuto un’ampia diffusione il film The World’s Next Supermodels (“Il prossimo supermodello mondiale”) di Ijsbrand van Veeelem. Come in un “giallo” di Sidney Lumet , una giuria deve esaminare (con testimonianze e prove documentarie) chi sarebbe stato, dopo il ridimensionamento degli Stati Uniti, il nuovo “supermodello” economico e sociale. Cina, India ed altre “tigri” venivano scartate (in quanto ritenute fragili ed effimere). Vinceva l’Europa con la propria economia sociale di mercato proprio perché aveva mostrato di reggere bene la crisi 2007-2009. Gli avvenimenti degli ultimi mesi sembrano aver cambiato questo quadro.
Pomigliano e Toronto: due volti del medesimo problema Il Velino 23 giugno
ECO - Pomigliano e Toronto: due volti del medesimo problema
Roma, 23 giu (Il Velino) -
La settimana scorsa questa rubrica ha sottolineato come ci sia un nesso tra le “nuove regole” su cui i lavoratori degli impianti FIAT a Pomigliano d’Arco si sarebbero espressi con un referendum e il fenomeno dell’integrazione economica internazionale, giornalisticamente chiamato “globalizzazione”. Scriviamo all’indomani di un referendum in cui la partecipazione degli aventi diritto al voto è stata altissima, il “sì” ha vinto con una maggioranza netta e chiara ma non è stato plebiscitario e alla vigilia del vertice dei Capi di Stato e di Governo dei Paesi maggiormente rappresentativi della comunità internazionale (G20) in programma a Toronto sabato 26 giugno. C’è un nesso tra i due eventi molto più forte di quanto evidenzino i commentatori italiani (quelli stranieri poco o nulla sanno di ciò che sta avvenendo a Pomigliano d’Arco). Negli impianti FIAT, hanno vinto, ma per poco più d’un soffio, quelle new rules che alcuni Governi del G20 (Francia, Italia, numerosi emergenti) vorrebbero, da anni (e in particolare dall’estate 2007), porre al centro del nuovo sistema economico e finanziario internazionale. Sono tentativi che sino ad ora hanno avuto modestissimo successo. Sotto il profilo dell’economia reale, il tentativo di maggior impatto di rilanciare l’economia internazionale (iniziato prima della crisi ma che avrebbe potuto attenuarne gli impatti) è il Doha Development Agenda, il grande negoziato multilaterale sui commerci in seno all’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC); è in fase di stallo sulle rive del lago Lemano dove nei pressi del Parco “Mon Repos” (un nome di tutto riposo che potrebbe anche avere mesti risvolti funerari). Sotto il profilo finanziario, le new rules hanno sino ad ora partorito varie bozze di regolamentazioni degli hedge funds e di nuove imposizioni tributarie (varate con normative nazionali ma coordinate a livello internazionali). Ove da queste bozze, si arrivasse a proposte concrete, si dovrebbe aprire una discussione mediata sul merito e sulla forma. Sul merito, la regolamentazioni internazionali sugli hedge funds dovrebbero essere declinate con grande attenzione al fine di evitare, per così dire, di buttare via il bambino con l’acqua sporca. L’imposta sulle banche, ancora chiamata “Tobin Tax” nonostante il Premio Nobel James Tobin la abbia ripudiata in un saggio di 15 anni fa, può essere utile a frenare operazioni a breve termine spericolate e a costituire un cuscinetto di riserva da impiegare per fare fronte ai crisi; frenerà, tuttavia, la crescita (non la agevolerà) aumentando costi che prima o poi gli istituti di credito riverseranno sui loro clienti. In breve, da Pomigliano (sino ad ora poco più di un punto sulla carta geografica) sta venendo una risposta pratica alla globalizzazione mentre i vari G continuano a starnazzare.
(Giuseppe Pennisi) 23 giu 2010 16:40
Roma, 23 giu (Il Velino) -
La settimana scorsa questa rubrica ha sottolineato come ci sia un nesso tra le “nuove regole” su cui i lavoratori degli impianti FIAT a Pomigliano d’Arco si sarebbero espressi con un referendum e il fenomeno dell’integrazione economica internazionale, giornalisticamente chiamato “globalizzazione”. Scriviamo all’indomani di un referendum in cui la partecipazione degli aventi diritto al voto è stata altissima, il “sì” ha vinto con una maggioranza netta e chiara ma non è stato plebiscitario e alla vigilia del vertice dei Capi di Stato e di Governo dei Paesi maggiormente rappresentativi della comunità internazionale (G20) in programma a Toronto sabato 26 giugno. C’è un nesso tra i due eventi molto più forte di quanto evidenzino i commentatori italiani (quelli stranieri poco o nulla sanno di ciò che sta avvenendo a Pomigliano d’Arco). Negli impianti FIAT, hanno vinto, ma per poco più d’un soffio, quelle new rules che alcuni Governi del G20 (Francia, Italia, numerosi emergenti) vorrebbero, da anni (e in particolare dall’estate 2007), porre al centro del nuovo sistema economico e finanziario internazionale. Sono tentativi che sino ad ora hanno avuto modestissimo successo. Sotto il profilo dell’economia reale, il tentativo di maggior impatto di rilanciare l’economia internazionale (iniziato prima della crisi ma che avrebbe potuto attenuarne gli impatti) è il Doha Development Agenda, il grande negoziato multilaterale sui commerci in seno all’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC); è in fase di stallo sulle rive del lago Lemano dove nei pressi del Parco “Mon Repos” (un nome di tutto riposo che potrebbe anche avere mesti risvolti funerari). Sotto il profilo finanziario, le new rules hanno sino ad ora partorito varie bozze di regolamentazioni degli hedge funds e di nuove imposizioni tributarie (varate con normative nazionali ma coordinate a livello internazionali). Ove da queste bozze, si arrivasse a proposte concrete, si dovrebbe aprire una discussione mediata sul merito e sulla forma. Sul merito, la regolamentazioni internazionali sugli hedge funds dovrebbero essere declinate con grande attenzione al fine di evitare, per così dire, di buttare via il bambino con l’acqua sporca. L’imposta sulle banche, ancora chiamata “Tobin Tax” nonostante il Premio Nobel James Tobin la abbia ripudiata in un saggio di 15 anni fa, può essere utile a frenare operazioni a breve termine spericolate e a costituire un cuscinetto di riserva da impiegare per fare fronte ai crisi; frenerà, tuttavia, la crescita (non la agevolerà) aumentando costi che prima o poi gli istituti di credito riverseranno sui loro clienti. In breve, da Pomigliano (sino ad ora poco più di un punto sulla carta geografica) sta venendo una risposta pratica alla globalizzazione mentre i vari G continuano a starnazzare.
(Giuseppe Pennisi) 23 giu 2010 16:40
Il Patto di stabilità è un po' meno "stupido"... E al Consiglio europeo, un successo per l'Italia Ffwebmagazine 22 giugno
Il Patto di stabilità è un po' meno "stupido"...
E al Consiglio europeo,
un successo per l'Italia
di Giuseppe Pennisi
Il Consiglio Europeo del 17 giugno verrà ricordato come un grande successo dell’Italia. È iniziata infatti la revisione di una delle clausole del Trattato di Maastricht e del Patto di Stabilità più penalizzanti nei confronti del nostro paese e meno giustificate sotto il profilo dell’economia e della finanza: quella relativa al rapporto tra stock di debito pubblico e Pil. È poco elegante citare se stessi: quando, con coraggio, Mario Baldassarri pubblico (nel lontano gennaio 1999) un mio saggio in materia sulla “Rivista di Politica Economica” (di cui era direttore) venni accusato di essere un “euroscettico” e anche un “crumiro” degli interessi dell’Italia. Il tempo è galantuomo e a 11 anni di distanza ha dato ragione non tanto a me quanto all’Italia.
Il parametro (per il quale non esiste alcuna giustificazione logico-matematica) è stato voluto dal Benelux (su pressione della Germania) con la chiara intenzione di escludere l’Italia dal gruppo di testa dell’euro. Siamo riusciti a rientrare grazie alla “mediazione Carli” in base alla quale , all’ultima ora, la clausola venne cambiata nel senso di richiedere una politica economica che permettesse allo stock di debito di ridursi e di non superare il 60% del Pil.
Veniamo ai fatti e alle analisi . Il debito pubblico dell’Italia ha segnato l'ennesimo record assoluto dopo quello dello scorso ottobre: ad aprile s'è attestato a 1.812,790 miliardi di euro, ossia poco più di 30.000 euro per ciascun italiano. A ragione della contrazione economica del 2009, il rapporto tra stock di debito pubblico e Pil, quindi, cresce di nuovo; nel 2009 si era attestato al 115,8% - adesso le stime più accreditate per il 2010 (i 20 maggiori istituti econometri internazionali) - lo situano tra il 118% ed il 120%. Non c’è da esserne orgogliosi, ma la diramazione del dato non ha provocato né fibrillazione dei mercati né una corsa a vendere titoli del Tesoro italiano (all’ultimi asta, anzi, la domanda è stata naturalmente superiore all’offerta).
Infatti, il dato va interpretato con cura. Anche e soprattutto perché in preparazione del Consiglio Europeo era in corso un confronto in sede europea sulla strategia Ue per uscire dalla crisi internazionale (da presentare al G20 in calendario il 26 giugno a Toronto). Mentre nel documento predisposto dalla Commissione Europea (ed accettato da gran parte dei nostri partner) si sottolineava il ruolo del rapporto tra debito pubblico e Pil (e della necessità di ridurlo andando tendenzialmente al 60% previsto sia dal Trattato di Maastricht sia dal Patto di crescita e di stabilità), l’Italia sosteneva che un indicatore più eloquente è il rapporto “tra debito aggregato” e Pil poiché riflette le differenti propensioni al risparmio (e, dunque, i differenti tassi di risparmio) dei vari paesi. Il debito totale italiano è pari al 243% del Pil, oltre la metà è privato, quasi tutto nelle mani di residenti. Il totale è nella media Ue, ma la proporzione del debito italiano nelle mani di non residenti è stimata pari o poco più del 20% dell’aggregato rispetto ad oltre il 90% della Grecia e del 70%-80% di Spagna e Portogallo.
Nel dibattito si sono inserite due analisi recenti (e distinti e distanti da interessi particolaristici di questo o di quel paese Ue). Il primo viene brandito come una sciabola dalla Commissione europea e da partner Ue: è un lavoro della Banca mondiale – l’autore principale è l’economista tedesco Fritzi Khöler-Geib) ancora in fase di affinamento. Dall’analisi risulta (sulla base di un campione di 99 paesi nel periodo tra il 1980 ed il 2008) che “di norma” il debito pubblico deve cominciare a preoccupare quando supera il 77% del Pil. Superata quella soglia, ciascun punto percentuale provoca “di norma” un decelerazione del Pil dello 0,0017% l’anno a ragione degli effetti su tassi d’interesse e, quindi, attività economica.
Più specifico all’area dell’euro, un altro studio di un economista tedesco (Rainer Willi Maurer della Hochschule Pforzheim University, Tiefenbronner Str. 65, D-75175 Pforzheim, Germany, oppure scaricabile dal sito www.rainer-maurer.com). Maurer appartiene alla scuola degli “economisti sperimentali” e analizza la crisi dell’ultimo anno nell’area dell’euro sulla base non di teoremi ma delle lezioni che emergono dai fatti. La prima conclusione del suo lavoro è che i “parametri” di Maastricht sono stati mal pensati (non utilizza il termine “stupidi” impiegato – è noto - da Romano Prodi) in quanto possono fomentare crisi. La seconda conclusione riguarda il grilletto che ha indotto gli operatori a puntare contro Grecia, Portogallo, Spagna e Irlanda (e non contro l’Italia che già prima della crisi del 2009 aveva un rapporto elevato tra debito pubblico e Pil).
Veniamo al secondo punto: al di là nelle “norme” statistiche aggregate, l’analisi conclude che ciò che conta è l’esposizione totale verso l’estero, ossia il “debito pubblico” detenuto da operatori non residenti e il debito privato detenuto anch’esso da non residenti. Beneficiare di tassi d’interesse relativamente bassi (a ragione dell’appartenenza all’unione monetaria) ha incoraggiato certi paesi a indebitarsi all’interno ma anche e soprattutto all’estero. Sino a quando la fune si è spezzata. Le banche francesi detengono 500 miliardi del debito di Grecia, Irlanda, Portogallo e Spagna; quelle tedesche 48 miliardi. A queste cifre occorre aggiungere le cifre ingenti di greci, irlandesi, portoghesi e spagnoli residenti all’estero ma detentori di titoli, per lo più obbligazionari, dei loro paesi.
Ma allora – si potrebbe dire – perché non scatta un attacco contro gli Stati Uniti (indebitatissimi soprattutto con la Cina)? Da un lato, Washington è in posizione di signoraggio poiché il loro dollaro resta il centro del sistema. Da un altro, nessuno (soprattutto la Cina) ha interesse a un deprezzamento del “green back” di cui sarebbe la principale vittima.
Andiamo brevemente al primo punto: perché i “parametri” (così come scritti e interpretati) fomentano la crisi? Maurer dimostra che Grecia Irlanda, Portogallo, e Spagna hanno mantenuto tassi d’inflazione molto elevati (se computati in termini d’andamento dei salari e di costo del lavoro per unità di prodotto, non dell’indice armonizzato dei prezzi al consumo Bce). La lezione: rivendere i parametri per renderli, prodianamente parlando, meno “stupidi”. E al Consiglio europeo tale processo di revisione è iniziato proprio nel senso voluto dall’Italia.
22 giugno 2010
E al Consiglio europeo,
un successo per l'Italia
di Giuseppe Pennisi
Il Consiglio Europeo del 17 giugno verrà ricordato come un grande successo dell’Italia. È iniziata infatti la revisione di una delle clausole del Trattato di Maastricht e del Patto di Stabilità più penalizzanti nei confronti del nostro paese e meno giustificate sotto il profilo dell’economia e della finanza: quella relativa al rapporto tra stock di debito pubblico e Pil. È poco elegante citare se stessi: quando, con coraggio, Mario Baldassarri pubblico (nel lontano gennaio 1999) un mio saggio in materia sulla “Rivista di Politica Economica” (di cui era direttore) venni accusato di essere un “euroscettico” e anche un “crumiro” degli interessi dell’Italia. Il tempo è galantuomo e a 11 anni di distanza ha dato ragione non tanto a me quanto all’Italia.
Il parametro (per il quale non esiste alcuna giustificazione logico-matematica) è stato voluto dal Benelux (su pressione della Germania) con la chiara intenzione di escludere l’Italia dal gruppo di testa dell’euro. Siamo riusciti a rientrare grazie alla “mediazione Carli” in base alla quale , all’ultima ora, la clausola venne cambiata nel senso di richiedere una politica economica che permettesse allo stock di debito di ridursi e di non superare il 60% del Pil.
Veniamo ai fatti e alle analisi . Il debito pubblico dell’Italia ha segnato l'ennesimo record assoluto dopo quello dello scorso ottobre: ad aprile s'è attestato a 1.812,790 miliardi di euro, ossia poco più di 30.000 euro per ciascun italiano. A ragione della contrazione economica del 2009, il rapporto tra stock di debito pubblico e Pil, quindi, cresce di nuovo; nel 2009 si era attestato al 115,8% - adesso le stime più accreditate per il 2010 (i 20 maggiori istituti econometri internazionali) - lo situano tra il 118% ed il 120%. Non c’è da esserne orgogliosi, ma la diramazione del dato non ha provocato né fibrillazione dei mercati né una corsa a vendere titoli del Tesoro italiano (all’ultimi asta, anzi, la domanda è stata naturalmente superiore all’offerta).
Infatti, il dato va interpretato con cura. Anche e soprattutto perché in preparazione del Consiglio Europeo era in corso un confronto in sede europea sulla strategia Ue per uscire dalla crisi internazionale (da presentare al G20 in calendario il 26 giugno a Toronto). Mentre nel documento predisposto dalla Commissione Europea (ed accettato da gran parte dei nostri partner) si sottolineava il ruolo del rapporto tra debito pubblico e Pil (e della necessità di ridurlo andando tendenzialmente al 60% previsto sia dal Trattato di Maastricht sia dal Patto di crescita e di stabilità), l’Italia sosteneva che un indicatore più eloquente è il rapporto “tra debito aggregato” e Pil poiché riflette le differenti propensioni al risparmio (e, dunque, i differenti tassi di risparmio) dei vari paesi. Il debito totale italiano è pari al 243% del Pil, oltre la metà è privato, quasi tutto nelle mani di residenti. Il totale è nella media Ue, ma la proporzione del debito italiano nelle mani di non residenti è stimata pari o poco più del 20% dell’aggregato rispetto ad oltre il 90% della Grecia e del 70%-80% di Spagna e Portogallo.
Nel dibattito si sono inserite due analisi recenti (e distinti e distanti da interessi particolaristici di questo o di quel paese Ue). Il primo viene brandito come una sciabola dalla Commissione europea e da partner Ue: è un lavoro della Banca mondiale – l’autore principale è l’economista tedesco Fritzi Khöler-Geib) ancora in fase di affinamento. Dall’analisi risulta (sulla base di un campione di 99 paesi nel periodo tra il 1980 ed il 2008) che “di norma” il debito pubblico deve cominciare a preoccupare quando supera il 77% del Pil. Superata quella soglia, ciascun punto percentuale provoca “di norma” un decelerazione del Pil dello 0,0017% l’anno a ragione degli effetti su tassi d’interesse e, quindi, attività economica.
Più specifico all’area dell’euro, un altro studio di un economista tedesco (Rainer Willi Maurer della Hochschule Pforzheim University, Tiefenbronner Str. 65, D-75175 Pforzheim, Germany, oppure scaricabile dal sito www.rainer-maurer.com). Maurer appartiene alla scuola degli “economisti sperimentali” e analizza la crisi dell’ultimo anno nell’area dell’euro sulla base non di teoremi ma delle lezioni che emergono dai fatti. La prima conclusione del suo lavoro è che i “parametri” di Maastricht sono stati mal pensati (non utilizza il termine “stupidi” impiegato – è noto - da Romano Prodi) in quanto possono fomentare crisi. La seconda conclusione riguarda il grilletto che ha indotto gli operatori a puntare contro Grecia, Portogallo, Spagna e Irlanda (e non contro l’Italia che già prima della crisi del 2009 aveva un rapporto elevato tra debito pubblico e Pil).
Veniamo al secondo punto: al di là nelle “norme” statistiche aggregate, l’analisi conclude che ciò che conta è l’esposizione totale verso l’estero, ossia il “debito pubblico” detenuto da operatori non residenti e il debito privato detenuto anch’esso da non residenti. Beneficiare di tassi d’interesse relativamente bassi (a ragione dell’appartenenza all’unione monetaria) ha incoraggiato certi paesi a indebitarsi all’interno ma anche e soprattutto all’estero. Sino a quando la fune si è spezzata. Le banche francesi detengono 500 miliardi del debito di Grecia, Irlanda, Portogallo e Spagna; quelle tedesche 48 miliardi. A queste cifre occorre aggiungere le cifre ingenti di greci, irlandesi, portoghesi e spagnoli residenti all’estero ma detentori di titoli, per lo più obbligazionari, dei loro paesi.
Ma allora – si potrebbe dire – perché non scatta un attacco contro gli Stati Uniti (indebitatissimi soprattutto con la Cina)? Da un lato, Washington è in posizione di signoraggio poiché il loro dollaro resta il centro del sistema. Da un altro, nessuno (soprattutto la Cina) ha interesse a un deprezzamento del “green back” di cui sarebbe la principale vittima.
Andiamo brevemente al primo punto: perché i “parametri” (così come scritti e interpretati) fomentano la crisi? Maurer dimostra che Grecia Irlanda, Portogallo, e Spagna hanno mantenuto tassi d’inflazione molto elevati (se computati in termini d’andamento dei salari e di costo del lavoro per unità di prodotto, non dell’indice armonizzato dei prezzi al consumo Bce). La lezione: rivendere i parametri per renderli, prodianamente parlando, meno “stupidi”. E al Consiglio europeo tale processo di revisione è iniziato proprio nel senso voluto dall’Italia.
22 giugno 2010
lunedì 21 giugno 2010
ECCO CHE CI FA UN LIBRETTO DI CACCIARI NELLA NUOVA STAGIONE LIRICA ITALIANA Il foglio 22 giugno
ECCO CHE CI FA UN LIBRETTO DI CACCIARI NELLA NUOVA STAGIONE LIRICA ITALIANA
Giuseppe Pennisi
Il 18 giugno, mentre a Verona ed a Milano le prime di “Turandot” e “Faust” venivano contrastate a ragione dell’approvazione da parte del Senato della normativa di riordino delle fondazioni liriche, a Spoleto ed a Ravenna andavano in scena due prime eccezionali: la “prima” italiana di un lavoro di uno dei maggiori compositori contemporanei (Hans Werner Henze, tedesco ma da 60 anni residente nei pressi di Roma) e la “prima” mondiale di una nuova opera (o “cantata video scenica”) di uno dei più originali compositori italiani, Antonio Guarnieri, su libretto del sindaco-filosofo Massimo Cacciari. Il lavoro di Guarnieri-Cacciari aprirà la stagione autunnale a Roma. La” musa bizzarra e altera”, l’opera lirica, è ancora viva e vitale nel Paese dove e nata, nonostante proprio in Italia corporativismi e burocrazie fanno del loro meglio per affossarla.
Il lavoro di Guarnieri-Cacciari merita di essere esaminato sotto tre punti di vista: quello filosofico-religioso, quello musicale, quello scenico-registico. Tenebræ è per un ensemble strumentale di 14 solisti , live electronics, due soprano, un controtenore e voci registrate del coro. Ha debuttato al Teatro Alighieri nel quadro del Ravenna Festival, che dopo “un prologo”, il 7 giugno, dura sino al 13 luglio ed ha come tema fondante il percorso “dalle tenebre alla luce”. Tenebrae non è co-prodotto come si sarebbe potuto immaginare con La Fenice (tempio veneziano della musica contemporanea), ma dal Teatro dell’Opera di Roma dove verrà replicato dal 16 al 20 ottobre.
Cacciari non è nuovo alla collaborazione con compositori: ha lavorato a lungo con Luigi Nono (ispirandone anche il pensiero): ha curato, su testi, però, altrui il libretto di Prometeo, tragedia dell’ascolto, opera di difficilissima esecuzione, a ragione dei mezzi che richiede, ma di cui la casa discografica Col-legno ha prodotto una recente registrazione di grande livello. Un quarto di secolo fa, il sottofondo di Prometeo (tre ore di musica nella versione originale) era plasmato da un senso di impotente disperazione; uno sguardo lucido ma spietato ad un’umanità senza più fini (o quasi). Oggi Tenebræ, basato sulla liturgia del Venerdì Santo e su testi di Cacciari nei primi tre quadri e di Trakl (riletto da Cacciari) nell’ultimo, è, invece, un doloroso cammino verso la serenità. Per Cacciari la filosofia è disciplina che richiede “a-teismo”, come ha scritto in un bel volume pubblicato due anni fa con Ilario Bertoletti. Ciò non vuol dire che Cacciari non conosca la religione e non ne sia affascinato (come mostrano, oltre che i suoi libri, i suoi viaggi sul Monte Athos). Tenebræ è il momento della morte (di Cristo, in particolare, ma in effetti di tutti noi) in cui l’anima si distacca dal corpo. In attesa, però, del “futuro risveglio” e del ritorno del “figlio dell’Uomo” trionfatore. A differenza di Prometeo, dove il testo è de-strutturato tanto che le singole parole sono incomprensibili, in Tenebræ il testo cantato da due soprano (Alda Caiello e Sonia Visentin) ed un controtenore (Antonio Giovannini) è sì destrutturato, ma accompagnato da una attrice (Elena Bucci, il corpo) di cui si intende perfettamente ogni frase e da una danzatrice (Catherine Pantigny,l’anima) che rende esplicito il messaggio. Inoltre, un coro registrato di bassi, lo Speculum Ensemble fa da contrappunto alla parte vocale: ricorda quelli di monaci copti che ascoltai nelle chiese scavate nelle caverne quando in Etiopia Menghistu aveva messo la religione al bando.
In buca, un ensemble di soliti dell’Opera di Roma guidati da Pietro Borgonovo (magnifici il flauto, il violoncello e gli ottoni – perché nella capitale sembrano avere un suono differente?) ed una tastiera elettronica (la regia del suono è di Luigi Ceccarelli). La partitura è rigorosamente dodecafonica , su scala di 12 note con ritorni e variazioni, affidate a tre voci imperniate su tonalità alte e su purissimi acuti (quindi, il contrappunto dei bassi). Guarnieri è un “unicum”. La sua formazione, come quella dei suoi coetanei, risente della scuola tedesca ma approda con questo lavoro a stilemi francesi dell’Ircam; ci sono assonanze con le opere di uno dei più sorprendenti giovani compositori francesi (debuttò a Spoleto ed a Roma nel 2000 a 28 anni), Oscar Strasnoy, la cui prossima opera è stata commissionata dal Festival di Aix-en-Provence. E’ una partitura avvincente: dopo il dramma della separazione tra corpo ed anima , un dolcissimo finale ( meraviglioso il flauto) di serenità Zen (analogo al testamento di un altro a-teo dubbioso, Gustav Mahler, in Das Lied von der Erde).
L’elemento relativamente debole dello spettacolo è la regia e scenografia (Cristina Mazzovillani Muti, Ezio Antonelli, Vincent Longuemare): efficace nei primi due quadri, diventano statiche negli altri due. Le Tenebræ non permettono forse i giochi pittorici de La Pietra di Diaspro del 2007 (sempre su musica di Guarnieri ma su testo dall’Apocalisse) ma, dopo gli effetti speciali iniziali (l’acqua, il fuoco), si potevano prendere spunti dal Vangelo per lo squarciarsi del Cielo, il terremoto, l’eclisse e, quindi, la preparazione alla serenità delle ultime note. Da ri-tarare prima del debutto romano
A Ravenna, 75 minuti di musica, senza intervallo, seguiti da 15 di applausi.
Giuseppe Pennisi
Il 18 giugno, mentre a Verona ed a Milano le prime di “Turandot” e “Faust” venivano contrastate a ragione dell’approvazione da parte del Senato della normativa di riordino delle fondazioni liriche, a Spoleto ed a Ravenna andavano in scena due prime eccezionali: la “prima” italiana di un lavoro di uno dei maggiori compositori contemporanei (Hans Werner Henze, tedesco ma da 60 anni residente nei pressi di Roma) e la “prima” mondiale di una nuova opera (o “cantata video scenica”) di uno dei più originali compositori italiani, Antonio Guarnieri, su libretto del sindaco-filosofo Massimo Cacciari. Il lavoro di Guarnieri-Cacciari aprirà la stagione autunnale a Roma. La” musa bizzarra e altera”, l’opera lirica, è ancora viva e vitale nel Paese dove e nata, nonostante proprio in Italia corporativismi e burocrazie fanno del loro meglio per affossarla.
Il lavoro di Guarnieri-Cacciari merita di essere esaminato sotto tre punti di vista: quello filosofico-religioso, quello musicale, quello scenico-registico. Tenebræ è per un ensemble strumentale di 14 solisti , live electronics, due soprano, un controtenore e voci registrate del coro. Ha debuttato al Teatro Alighieri nel quadro del Ravenna Festival, che dopo “un prologo”, il 7 giugno, dura sino al 13 luglio ed ha come tema fondante il percorso “dalle tenebre alla luce”. Tenebrae non è co-prodotto come si sarebbe potuto immaginare con La Fenice (tempio veneziano della musica contemporanea), ma dal Teatro dell’Opera di Roma dove verrà replicato dal 16 al 20 ottobre.
Cacciari non è nuovo alla collaborazione con compositori: ha lavorato a lungo con Luigi Nono (ispirandone anche il pensiero): ha curato, su testi, però, altrui il libretto di Prometeo, tragedia dell’ascolto, opera di difficilissima esecuzione, a ragione dei mezzi che richiede, ma di cui la casa discografica Col-legno ha prodotto una recente registrazione di grande livello. Un quarto di secolo fa, il sottofondo di Prometeo (tre ore di musica nella versione originale) era plasmato da un senso di impotente disperazione; uno sguardo lucido ma spietato ad un’umanità senza più fini (o quasi). Oggi Tenebræ, basato sulla liturgia del Venerdì Santo e su testi di Cacciari nei primi tre quadri e di Trakl (riletto da Cacciari) nell’ultimo, è, invece, un doloroso cammino verso la serenità. Per Cacciari la filosofia è disciplina che richiede “a-teismo”, come ha scritto in un bel volume pubblicato due anni fa con Ilario Bertoletti. Ciò non vuol dire che Cacciari non conosca la religione e non ne sia affascinato (come mostrano, oltre che i suoi libri, i suoi viaggi sul Monte Athos). Tenebræ è il momento della morte (di Cristo, in particolare, ma in effetti di tutti noi) in cui l’anima si distacca dal corpo. In attesa, però, del “futuro risveglio” e del ritorno del “figlio dell’Uomo” trionfatore. A differenza di Prometeo, dove il testo è de-strutturato tanto che le singole parole sono incomprensibili, in Tenebræ il testo cantato da due soprano (Alda Caiello e Sonia Visentin) ed un controtenore (Antonio Giovannini) è sì destrutturato, ma accompagnato da una attrice (Elena Bucci, il corpo) di cui si intende perfettamente ogni frase e da una danzatrice (Catherine Pantigny,l’anima) che rende esplicito il messaggio. Inoltre, un coro registrato di bassi, lo Speculum Ensemble fa da contrappunto alla parte vocale: ricorda quelli di monaci copti che ascoltai nelle chiese scavate nelle caverne quando in Etiopia Menghistu aveva messo la religione al bando.
In buca, un ensemble di soliti dell’Opera di Roma guidati da Pietro Borgonovo (magnifici il flauto, il violoncello e gli ottoni – perché nella capitale sembrano avere un suono differente?) ed una tastiera elettronica (la regia del suono è di Luigi Ceccarelli). La partitura è rigorosamente dodecafonica , su scala di 12 note con ritorni e variazioni, affidate a tre voci imperniate su tonalità alte e su purissimi acuti (quindi, il contrappunto dei bassi). Guarnieri è un “unicum”. La sua formazione, come quella dei suoi coetanei, risente della scuola tedesca ma approda con questo lavoro a stilemi francesi dell’Ircam; ci sono assonanze con le opere di uno dei più sorprendenti giovani compositori francesi (debuttò a Spoleto ed a Roma nel 2000 a 28 anni), Oscar Strasnoy, la cui prossima opera è stata commissionata dal Festival di Aix-en-Provence. E’ una partitura avvincente: dopo il dramma della separazione tra corpo ed anima , un dolcissimo finale ( meraviglioso il flauto) di serenità Zen (analogo al testamento di un altro a-teo dubbioso, Gustav Mahler, in Das Lied von der Erde).
L’elemento relativamente debole dello spettacolo è la regia e scenografia (Cristina Mazzovillani Muti, Ezio Antonelli, Vincent Longuemare): efficace nei primi due quadri, diventano statiche negli altri due. Le Tenebræ non permettono forse i giochi pittorici de La Pietra di Diaspro del 2007 (sempre su musica di Guarnieri ma su testo dall’Apocalisse) ma, dopo gli effetti speciali iniziali (l’acqua, il fuoco), si potevano prendere spunti dal Vangelo per lo squarciarsi del Cielo, il terremoto, l’eclisse e, quindi, la preparazione alla serenità delle ultime note. Da ri-tarare prima del debutto romano
A Ravenna, 75 minuti di musica, senza intervallo, seguiti da 15 di applausi.
GLI SCIOPERI LIRICI CHE AMMAZZANO LA MELODIA Il Tempo 20 giugno
Giuseppe Pennisi
Il 22 giugno inizia una nuova tornata di scioperi delle masse artistico-tecnico-amministrative delle fondazioni liriche. Ci sono state già manifestazioni alla Scala ed all’Arena di Verona. Vengono minacciati scioperi ad oltranza se il Parlamento non respingerà il decreto legge sull’inizio di riforma del settore già convertito in norma dal Senato, con l’opposizione unicamente dell’Italia dei Valori (IdV). Un senatore IdV è strettamente imparentato con l’ex Sovrintendente del Maggio Musicale Fiorentino, Francesco Giambrone , di recente congedato dal Sindaco della città del Giglio, Matteo Renzi. Le illazioni e le malignità sono sin troppo facili.
. Nessuno ha spiegato come mai in Italia alle masse artistiche è stato sino ad ora consentito di esercitare anche come liberi professionisti (pur se dipendenti a tempo pieno delle fondazioni) e perché i teatri hanno livelli di produzione bassissimi, i costi di una rappresentazione sono il 150% della media dell’Ue a 15 ed oltre il 200% dell’Ue a 27. Gli scioperi e le agitazioni stanno allontanando il pubblico (peraltro non numeroso)
Il 22 giugno inizia una nuova tornata di scioperi delle masse artistico-tecnico-amministrative delle fondazioni liriche. Ci sono state già manifestazioni alla Scala ed all’Arena di Verona. Vengono minacciati scioperi ad oltranza se il Parlamento non respingerà il decreto legge sull’inizio di riforma del settore già convertito in norma dal Senato, con l’opposizione unicamente dell’Italia dei Valori (IdV). Un senatore IdV è strettamente imparentato con l’ex Sovrintendente del Maggio Musicale Fiorentino, Francesco Giambrone , di recente congedato dal Sindaco della città del Giglio, Matteo Renzi. Le illazioni e le malignità sono sin troppo facili.
. Nessuno ha spiegato come mai in Italia alle masse artistiche è stato sino ad ora consentito di esercitare anche come liberi professionisti (pur se dipendenti a tempo pieno delle fondazioni) e perché i teatri hanno livelli di produzione bassissimi, i costi di una rappresentazione sono il 150% della media dell’Ue a 15 ed oltre il 200% dell’Ue a 27. Gli scioperi e le agitazioni stanno allontanando il pubblico (peraltro non numeroso)
sabato 19 giugno 2010
Teatro, all’Opera di Roma una “Manon” elegante e poco lussuriosa Il Velino 18 giugno
CLT - Roma, 18 giu (Il Velino) - Dopo 26 anni di assenza, e proprio nei giorni del solstizio estivo, arriva in una Roma pronta a correre in spiaggia un’esemplare “Manon” di Jules Massenet in co-produzione con l’Opéra di Montecarlo. È una versione del romanzo “L’Histoire du Chevalier Des Grieux et de Manon Lescaut” dell’abate Antoine Francois Prévost poco rappresentata in Italia non solo per lo sforzo produttivo che richiede (5 atti, 6 quadri, 18 solisti, coro, corpo di ballo, dizione in francese - alla Scala negli anni Settanta Mirella Freni e Luciano Pavarotti, con la direzione musicale di Peter Maag- veniva proposta in versione ritmica italiana e fortemente tagliata), ma anche in quanto travolta dalla più moderna e italianissima, “Manon Lescaut” di Giacomo Puccini, composta solo pochi anni dopo quella di Massenet. In primo luogo è errato, come ancora fanno molti, considerare il lavoro di Massenet sotto il profilo drammaturgico una interpretazione più fedele di quanto non siano altre “Manon”. In gran misura autobiografico, il libro è imperniato sul protagonista maschile che Prévost non esita a mostrare come un gaglioffo tormentato, ma pur sempre cinico e corrotto (oltre che corruttore) e sgradevole. Nulla di simile al tenero giovincello innamorato di Massenet o allo studente sensuale e passionale di Puccini.
In effetti, tralasciando l’opéra-comique di Daniel Auber e altre versioni minori, occorre aspettare il 1950 o giù di lì perché con il “Boulevard Solitude” di Hans Werner Henze si ritrovino trasportati nella Francia della prostituzione e della droga degli anni immediatamente successivi alla Seconda guerra mondiale, i personaggi e il clima di Prévost, pur se, sulla scena, non ci sono riferimenti ai più espliciti aspetti sessuali del romanzo settecentesco. Con una qualifica: come molti scrittori libertini (tra cui lo stesso Marchese De Sade), l’abate aveva non solo un vero senso di colpa nei confronti dei propri trascorsi (tra altare e postribolo), ma anche intenzioni moralistiche (ambedue distinte e distanti dall’opera di Henze, come, peraltro, da quelle di Puccini, Massenet e Auber) tanto che eros e sesso non venivano vissuti in modo gioioso. Massenet e i suoi librettisti leggono l’intreccio come una parabola di dualismo tra eros e misticismo, tra fango e sogno di una giovane piccolo borghese desiderosa di ascesa sociale (e di lussuria e lussuria) e pronta a tutto, anche a prostituirsi ed a barare per farlo. Anche Des Grieux è sempre in bilico tra seminario (a cui a un certo momento è destinato) e giochi erotici sotto le lenzuola. Mentre in Puccini l’eros torna prepotentemente in scena dopo 50 anni di melodramma passionale ma privo di sesso, in Massenet, l’eros – ha ricordato il compianto Carlo Casini – è letto con gli occhiali del perbenismo borghese del tardo Ottocento francese, quello tanto per intenderci dell’“affaire Dreyfus”. È l’erotismo di un immaginario Settecento elegante, un po’ viziosetto ma mai veramente peccaminoso.
Al Teatro dell’Opera di Roma, il regista Jean Louis Grinda, la scenografa Paola Moro e la costumista Anna Biagiotti (il lavoro richiede 400 costumi), colgono bene questi aspetti. La rappresentazione è tecnicamente un’opéra – comique , con tratti parlati, pur se accompagnati dall’orchestra come melologhi, che si alternano ai numeri musicali, ma ha anche aspetti di grand-opéra (il balletto, specialmente nel primo quadro del terzo atto, spesso eliminato in Italia per ragioni di costo). Divisa in cinque atti e sei quadri, viene presentata con un solo intervallo, un impianto scenico unico e attrezzeria essenziale (con elementi pittorici ed architettonici del XVIII secolo, tra cui echi del Palais Garnier di Montecarlo) per dare vita ai singoli ambienti. Specchi ai due lati della scena sottolineano il dualismo tra erotismo e misticismo e tra fango e sogno, che caratterizzano i due protagonisti e il mondo che li circonda. Molta curata la recitazione. Forte l’accento sulla giovinezza quasi innocente dei due protagonisti che si distacca da parte del mondo che li circonda. Come in “La Favorite”, il personaggio maggiormente avvinto dall’eros è il protagonista maschile, per il quale Puccini introdurrà una vocalità nuova: respinge virtuosismi e dolcezza, sceglie una linea sobria, puntando tutto sulla zona centrale dove il canto raggiunge la maggior intensità sensuale. In Massenet, invece, è un tenore lirico dal fraseggio elegante e dal legato elegiaco, dai “mi” e dai “re” dolcissimi, dall’acuto sostenuto e dal timbro chiarissimo. Manon è voluttuosa e sensuale e ha una scrittura vocale levigata nella melodia e nel ritmo che esplode nell’aria della seduzione quando tira il proprio innamorato fuori dal convento di St. Sulpice. Quindi, un eros giovane, quasi inesperto all’inizio anche se la protagonista diventa sempre più insinuante, man mano che la vicenda procede e che lei passa da un letto a un altro.
Annick Massis, uno dei soprano più noti e versatili francesi, ha debuttato a Roma nel ruolo di Manon, pur se non più giovanissima e leggermente indisposta la sera della “prima”. Si è calata perfettamente nel personaggio di una fanciulla destinata al convento e gradualmente portata sul sentiero del vizio, del delitto e della morte, stremata mentre viene deportata per esercitare in un bordello in Louisiana. Di grande livello il Des Grieux di Massimo Giordano, anche lui al debutto nel ruolo: conferma le sue doti di tenore lirico che emette con grazie e naturalezza il “si naturale” e ha uno splendido legato e un ottimo fraseggio. Decollato a Spoleto nel 1997, ora se lo contendono Vienna, New York e Parigi (la sua dizione in francese è impeccabile). Vorremmo vederlo e ascoltarlo più spesso in Italia. Impossibile citare il resto del vasto cast vocale. Una vera e propria scoperta: Jean Francois Borras, giovane tenore lirico francese (si alterna con Giordano nella parte del protagonista) già apprezzato Oltralpe e destinato a un ruolo di primo livello sulla scena internazionale. Per quanto riguarda la concertazione, in “Manon” l’orchestra non è essenzialmente di supporto al canto e all’azione scenica. Mentre quella pucciniana appartiene al Novecento storico, soprattutto per l’orchestrazione, Alain Guingal coglie con cura i caratteri tardo-ottocenteschi nella presentazione di un Settecento di maniera: l’uso del melodrame, il taglio breve di alcune melodie, i couplets e il flusso di eleganza, condito da un pizzico di sentimentalismo.
(Hans Sachs) 18 giu 2010 10:57
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In effetti, tralasciando l’opéra-comique di Daniel Auber e altre versioni minori, occorre aspettare il 1950 o giù di lì perché con il “Boulevard Solitude” di Hans Werner Henze si ritrovino trasportati nella Francia della prostituzione e della droga degli anni immediatamente successivi alla Seconda guerra mondiale, i personaggi e il clima di Prévost, pur se, sulla scena, non ci sono riferimenti ai più espliciti aspetti sessuali del romanzo settecentesco. Con una qualifica: come molti scrittori libertini (tra cui lo stesso Marchese De Sade), l’abate aveva non solo un vero senso di colpa nei confronti dei propri trascorsi (tra altare e postribolo), ma anche intenzioni moralistiche (ambedue distinte e distanti dall’opera di Henze, come, peraltro, da quelle di Puccini, Massenet e Auber) tanto che eros e sesso non venivano vissuti in modo gioioso. Massenet e i suoi librettisti leggono l’intreccio come una parabola di dualismo tra eros e misticismo, tra fango e sogno di una giovane piccolo borghese desiderosa di ascesa sociale (e di lussuria e lussuria) e pronta a tutto, anche a prostituirsi ed a barare per farlo. Anche Des Grieux è sempre in bilico tra seminario (a cui a un certo momento è destinato) e giochi erotici sotto le lenzuola. Mentre in Puccini l’eros torna prepotentemente in scena dopo 50 anni di melodramma passionale ma privo di sesso, in Massenet, l’eros – ha ricordato il compianto Carlo Casini – è letto con gli occhiali del perbenismo borghese del tardo Ottocento francese, quello tanto per intenderci dell’“affaire Dreyfus”. È l’erotismo di un immaginario Settecento elegante, un po’ viziosetto ma mai veramente peccaminoso.
Al Teatro dell’Opera di Roma, il regista Jean Louis Grinda, la scenografa Paola Moro e la costumista Anna Biagiotti (il lavoro richiede 400 costumi), colgono bene questi aspetti. La rappresentazione è tecnicamente un’opéra – comique , con tratti parlati, pur se accompagnati dall’orchestra come melologhi, che si alternano ai numeri musicali, ma ha anche aspetti di grand-opéra (il balletto, specialmente nel primo quadro del terzo atto, spesso eliminato in Italia per ragioni di costo). Divisa in cinque atti e sei quadri, viene presentata con un solo intervallo, un impianto scenico unico e attrezzeria essenziale (con elementi pittorici ed architettonici del XVIII secolo, tra cui echi del Palais Garnier di Montecarlo) per dare vita ai singoli ambienti. Specchi ai due lati della scena sottolineano il dualismo tra erotismo e misticismo e tra fango e sogno, che caratterizzano i due protagonisti e il mondo che li circonda. Molta curata la recitazione. Forte l’accento sulla giovinezza quasi innocente dei due protagonisti che si distacca da parte del mondo che li circonda. Come in “La Favorite”, il personaggio maggiormente avvinto dall’eros è il protagonista maschile, per il quale Puccini introdurrà una vocalità nuova: respinge virtuosismi e dolcezza, sceglie una linea sobria, puntando tutto sulla zona centrale dove il canto raggiunge la maggior intensità sensuale. In Massenet, invece, è un tenore lirico dal fraseggio elegante e dal legato elegiaco, dai “mi” e dai “re” dolcissimi, dall’acuto sostenuto e dal timbro chiarissimo. Manon è voluttuosa e sensuale e ha una scrittura vocale levigata nella melodia e nel ritmo che esplode nell’aria della seduzione quando tira il proprio innamorato fuori dal convento di St. Sulpice. Quindi, un eros giovane, quasi inesperto all’inizio anche se la protagonista diventa sempre più insinuante, man mano che la vicenda procede e che lei passa da un letto a un altro.
Annick Massis, uno dei soprano più noti e versatili francesi, ha debuttato a Roma nel ruolo di Manon, pur se non più giovanissima e leggermente indisposta la sera della “prima”. Si è calata perfettamente nel personaggio di una fanciulla destinata al convento e gradualmente portata sul sentiero del vizio, del delitto e della morte, stremata mentre viene deportata per esercitare in un bordello in Louisiana. Di grande livello il Des Grieux di Massimo Giordano, anche lui al debutto nel ruolo: conferma le sue doti di tenore lirico che emette con grazie e naturalezza il “si naturale” e ha uno splendido legato e un ottimo fraseggio. Decollato a Spoleto nel 1997, ora se lo contendono Vienna, New York e Parigi (la sua dizione in francese è impeccabile). Vorremmo vederlo e ascoltarlo più spesso in Italia. Impossibile citare il resto del vasto cast vocale. Una vera e propria scoperta: Jean Francois Borras, giovane tenore lirico francese (si alterna con Giordano nella parte del protagonista) già apprezzato Oltralpe e destinato a un ruolo di primo livello sulla scena internazionale. Per quanto riguarda la concertazione, in “Manon” l’orchestra non è essenzialmente di supporto al canto e all’azione scenica. Mentre quella pucciniana appartiene al Novecento storico, soprattutto per l’orchestrazione, Alain Guingal coglie con cura i caratteri tardo-ottocenteschi nella presentazione di un Settecento di maniera: l’uso del melodrame, il taglio breve di alcune melodie, i couplets e il flusso di eleganza, condito da un pizzico di sentimentalismo.
(Hans Sachs) 18 giu 2010 10:57
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Manon in scena a Roma strizza l'occhio al cinema Milano Finanza 19 giugno
Di Giuseppe Pennisi
inscena
Dopo 26 anni torna al Teatro dell'Opera di Roma Manon di Jules Massenet in una co-produzione con l'Opéra di Montecarlo. La pièce è in scena nella capitale fino al 24 giugno. I cinque atti acquistano un ritmo cinematografico anche perché il lavoro (in versione integrale con le parti parlate e due balletti) è diviso da un solo intervallo. L'efficace regia di Jean-Louis Grinda utilizza un unico impianto scenico e soluzioni essenziali (con elementi pittorici e architettonici del XVIII secolo) per dare vita ai singoli ambienti. Specchi ai due lati della scena sottolineano il dualismo tra erotismo e misticismo e tra fango e sogno, che caratterizzano i due protagonisti e il mondo che li circonda. In linea con la lettura tardo-ottocentesca che Massenet e i suoi librettisti fecero del romanzo dell'Abate Prévost, Manon è vista come una piccola borghese che perde se stessa aspirando alla ricchezza, al lusso e alla lussuria. De Grieux (nella novella cinico gaglioffo) è un bravo ragazzo portato dal seminario alla perdizione.
La parte musicale è affidata a uno specialista come Alain Guingal, il quale pone l'accento sul flusso melodico e sull'eleganza della partitura. Si alternano due cast, nel primo la brava Annick Massis, nonostante il passare degli anni, debutta nel ruolo di Manon. Sempre in questo cast emergono eleganti il fraseggio e i legato di Massimo Giordano. Nel secondo la scoperta è Jean François Borras, tenore lirico già apprezzato in Francia che promette un ruolo importante nella scena internazionale. (riproduzione riservata)
inscena
Dopo 26 anni torna al Teatro dell'Opera di Roma Manon di Jules Massenet in una co-produzione con l'Opéra di Montecarlo. La pièce è in scena nella capitale fino al 24 giugno. I cinque atti acquistano un ritmo cinematografico anche perché il lavoro (in versione integrale con le parti parlate e due balletti) è diviso da un solo intervallo. L'efficace regia di Jean-Louis Grinda utilizza un unico impianto scenico e soluzioni essenziali (con elementi pittorici e architettonici del XVIII secolo) per dare vita ai singoli ambienti. Specchi ai due lati della scena sottolineano il dualismo tra erotismo e misticismo e tra fango e sogno, che caratterizzano i due protagonisti e il mondo che li circonda. In linea con la lettura tardo-ottocentesca che Massenet e i suoi librettisti fecero del romanzo dell'Abate Prévost, Manon è vista come una piccola borghese che perde se stessa aspirando alla ricchezza, al lusso e alla lussuria. De Grieux (nella novella cinico gaglioffo) è un bravo ragazzo portato dal seminario alla perdizione.
La parte musicale è affidata a uno specialista come Alain Guingal, il quale pone l'accento sul flusso melodico e sull'eleganza della partitura. Si alternano due cast, nel primo la brava Annick Massis, nonostante il passare degli anni, debutta nel ruolo di Manon. Sempre in questo cast emergono eleganti il fraseggio e i legato di Massimo Giordano. Nel secondo la scoperta è Jean François Borras, tenore lirico già apprezzato in Francia che promette un ruolo importante nella scena internazionale. (riproduzione riservata)
mercoledì 16 giugno 2010
Pomigliano e il governo della globalizzazione Il Velino 16 giugno
ECO - Pomigliano e il governo della globalizzazione
Roma, 16 giu (Il Velino) - Il 22 giugno a Pomigliano d’Arco si terrà il referendum tra i lavoratori di conferma o rigetto dall’accordo firmato dal management della Fiat con due sindacati ma non con il terzo. I commenti di numerosi economisti e uomini di governo esperti di queste tematiche e a essi interessati da decenni, come Renato Brunetta, pongono correttamente l’accento che il “caso Pomigliano” riguarda l’insieme delle relazioni industriali , nonché la volontà, se a parole o con i fatti, di far progredire o meno il Mezzogiorno. A mio avviso, è in ballo qualcosa di più profondo: il governo della globalizzazione.
In primo luogo, come è illusorio pensare – lo scrisse lo stesso Papa una dozzina di anni fa nella “lettera della Pace” che a fine anno invia ai capi di Stato del resto del mondo – possa procedere senza essere governata, è futile pensare che il governo dell’integrazione economica internazionale possa essere affidato unicamente ai vari G (il numero ormai pullula e diventa ogni giorno più vasto). Nelle loro periodiche assise, capi di Stato e di governo, e i loro ministri (specialmente quelli dell’Economia e degli Affari esteri), accompagnati da codazzi di barracuda-esperti, tentano al meglio di incidere positivamente sul fenomeno, anche e soprattutto definendo nuove regole. Man mano che passano i mesi e gli anni, le foto di gruppo che vengono scattate al termine di ogni riunione e mostrate sui video di tutto il mondo mostrano, sempre più eloquente, volti, più o meno numerosi, di stanchi e stufi malcapitati alla prese con un compito tanto più grande di loro che non riescono non dico a gestirlo ma neanche ad avere una piccola voce in capitolo. Nel contempo, in luogo delle new rules sta sorgendo una nuova lex mercatoria in materia economica. Essa è basata sulle prassi “mercantili” ed è analoga a quella che rimpiazzò il diritto romano, mentre l’impero traballava e dopo il suo crollo definitivo.
Non serve andare così lontani. Molto più recentemente, la prima globalizzazione dell’età contemporanea (il periodo di forte crescita degli scambi e delle migrazioni grazie al progresso tecnologico – trasporti ed elettricità- tra la battaglia di Sedan, 1870, e i due colpi di pistola a Sarajevo nel 1914) fu governato da una lex mercatoria che fondeva common law anglosassone e diritto romano-germanico soprattutto in materie come la regolazione dei mercati finanziari (soprattutto obbligazionari) e commerciali. Fu una lex mercatoria che costruita da imprese e sindacati, ebbe il suo culmine con la creazione dell’Organizzazione internazionale del lavoro (prima ancora di quella della stessa Società delle nazioni). Infatti, sta a imprese e sindacati (non solo ai governi) di governare la globalizzazione, dando prova di efficienza adattiva, ossia di sapersi adattare, efficientemente, al nuovo contesto in evoluzione.
Oltre a mostrare chi è a favore del progresso del Sud a fatti e chi ha ancora fiducia nei piagnistei e nelle giaculatorie, il “caso Pomigliano” è una cartina di tornasole eloquente per identificare chi vuole contribuire a governare la globalizzazione e chi, invece, resta in mezzo al guado guardando il passato. Chi difende l’esistente perde sempre. Chi difende il passato, ha già perso prima di cominciare a combattere.
(Giuseppe Pennisi) 16 giu 2010 13:17
Roma, 16 giu (Il Velino) - Il 22 giugno a Pomigliano d’Arco si terrà il referendum tra i lavoratori di conferma o rigetto dall’accordo firmato dal management della Fiat con due sindacati ma non con il terzo. I commenti di numerosi economisti e uomini di governo esperti di queste tematiche e a essi interessati da decenni, come Renato Brunetta, pongono correttamente l’accento che il “caso Pomigliano” riguarda l’insieme delle relazioni industriali , nonché la volontà, se a parole o con i fatti, di far progredire o meno il Mezzogiorno. A mio avviso, è in ballo qualcosa di più profondo: il governo della globalizzazione.
In primo luogo, come è illusorio pensare – lo scrisse lo stesso Papa una dozzina di anni fa nella “lettera della Pace” che a fine anno invia ai capi di Stato del resto del mondo – possa procedere senza essere governata, è futile pensare che il governo dell’integrazione economica internazionale possa essere affidato unicamente ai vari G (il numero ormai pullula e diventa ogni giorno più vasto). Nelle loro periodiche assise, capi di Stato e di governo, e i loro ministri (specialmente quelli dell’Economia e degli Affari esteri), accompagnati da codazzi di barracuda-esperti, tentano al meglio di incidere positivamente sul fenomeno, anche e soprattutto definendo nuove regole. Man mano che passano i mesi e gli anni, le foto di gruppo che vengono scattate al termine di ogni riunione e mostrate sui video di tutto il mondo mostrano, sempre più eloquente, volti, più o meno numerosi, di stanchi e stufi malcapitati alla prese con un compito tanto più grande di loro che non riescono non dico a gestirlo ma neanche ad avere una piccola voce in capitolo. Nel contempo, in luogo delle new rules sta sorgendo una nuova lex mercatoria in materia economica. Essa è basata sulle prassi “mercantili” ed è analoga a quella che rimpiazzò il diritto romano, mentre l’impero traballava e dopo il suo crollo definitivo.
Non serve andare così lontani. Molto più recentemente, la prima globalizzazione dell’età contemporanea (il periodo di forte crescita degli scambi e delle migrazioni grazie al progresso tecnologico – trasporti ed elettricità- tra la battaglia di Sedan, 1870, e i due colpi di pistola a Sarajevo nel 1914) fu governato da una lex mercatoria che fondeva common law anglosassone e diritto romano-germanico soprattutto in materie come la regolazione dei mercati finanziari (soprattutto obbligazionari) e commerciali. Fu una lex mercatoria che costruita da imprese e sindacati, ebbe il suo culmine con la creazione dell’Organizzazione internazionale del lavoro (prima ancora di quella della stessa Società delle nazioni). Infatti, sta a imprese e sindacati (non solo ai governi) di governare la globalizzazione, dando prova di efficienza adattiva, ossia di sapersi adattare, efficientemente, al nuovo contesto in evoluzione.
Oltre a mostrare chi è a favore del progresso del Sud a fatti e chi ha ancora fiducia nei piagnistei e nelle giaculatorie, il “caso Pomigliano” è una cartina di tornasole eloquente per identificare chi vuole contribuire a governare la globalizzazione e chi, invece, resta in mezzo al guado guardando il passato. Chi difende l’esistente perde sempre. Chi difende il passato, ha già perso prima di cominciare a combattere.
(Giuseppe Pennisi) 16 giu 2010 13:17
DA ROMA PARTE IL FUTURO Il Tempo 16 giugno
DA ROMA PARTE IL FUTURO
Giuseppe Pennisi
Il 17 giugno Roma sarà la capitale mondiale dell’investimento a lungo termine: gli occhi dei maggiori osservatori internazionali saranno puntati su Palazzo Corsini sede dell’Accademia dei Lincei, dove, alla presenza del Capo dello Stato, si svolgerà un convegno organizzato dalla Cassa Depositi e Prestiti (CDP), per il Long Term Investors Club (LTIC). Il Club è stato fondato nell’aprile 2009 dalla CDP, dalla BEI, dalle Caisse de Depôt et Consignation francese e dal Kreditanstalt für Wiederaufbau (KfW). Ai quattro fondatori si sono aggiunti altri soci, tra cui il fondo sovrano cinese. I quattro fondatori gestiscono 1.300 miliardi di euro; aggiungendo le risorse di nuovi e potenziali soci la risorse del Club arrivano a 3000 miliardi di euro. Il Club ha finalità operative specifiche: ha già creato tuo fondi di “private equity” – “Marguerite” e “Infra-Med” , diretti specificatamente agli investimenti pan-europei il primo ed a quelli nell’area del Mediterraneo il secondo. In parallelo, il Club promuove una rete internazionale di riflessione sugli aspetti economici, contabili e legali degli investimenti a lungo termine , rete che potrà contribuire alle “nuove regole” della finanza e dell’economia mondiale verso le quali vari G stanno lavorando da anni.
L’avvio dell’operatività del LITC nell’attuale fase è particolarmente importante perché le misure di finanza pubblica messe in atto da gran parte dei Paesi Ocse per abbattere l’Himalaya del debito pubblico, esploso a ragione della crisi finanziaria internazionale in atto dall’estate 2007, minaccia di innescare una deflazione di cui si vedono già i segni: l’indice composito dell’aumento del costo della vita, escludendo generi caratterizzati da molta volatilità (materie prime, prodotti alimentari), è prossimo allo zero nell’insieme degli Usa, Giappone ed area dell’euro; in Europa potrebbe addirittura scendere sotto zero nel 2011 in quanto l’aspettativa di ulteriore decelerazione dei prezzi induce a posporre i consumi, con l’effetto di frenare produzione ed occupazione. In questo quadro, l’investimento a lungo termine , specialmente se finanziato da private equity (che non grava su spesa pubblica) rappresenta uno degli strumenti più importanti per contrastare i rischi di deflazione . Il Fondo monetario ha appena pubblicato uno studio (Working Paper n. 10/110) in cui, in base all’esperienza del Giappone negli Anni Novanta, conclude che l’investimento ha un moltiplicatore (ossia capacità di attivare crescita) maggiore dei consumi. Al moltiplicatore nella fase di cantiere, occorre aggiungere gli effetti su produttività e competitività nella fase “a regime”.
A livello mondiale, aggregando elaborazioni da varie fonti, la società di consulenza Kpmg stima in 32.650 miliardi di euro il fabbisogno d’investimenti a lungo termine nel prossimo quarto di secolo; di questa cifra, oltre la metà riguarda nuova infrastruttura da creare in Paesi emergenti (in primo luogo quelli asiatici) ma un buon 30% , quindi oltre 10.000 miliardi euro, è necessario per migliorare ed ammodernare infrastruttura ormai obsoleta in Europa. Queste cifre, che danno un ordine di misura del percorso che parte da Roma, tengono conto unicamente dell’infrastruttura in capitale fisico non di quella in capitale umano e sociale (istruzione, salute) oppure in ricerca.
Il compito è enorme. Il LTIC ne rappresenta una risposta. Sarebbe auspicabile che l’Italia, tramite la CDP; prendesse la leadership nella definizione di parametri di valutazione e di criteri di scelta per gli investimenti a lungo termine. Pochi rammentano che, nella storia del pensiero economico, l’Italia ha avuto un ruolo cruciale in questa materia sin dagli anni a cavallo tra il 19simo ed il 20secolo, ruolo spesso dimenticato in quanto i relativi studi non erano tradotti in una lingua internazionale come l’inglese od il francese. La riunione scientifica a Roma del LTIC è, quindi, pure un’occasione per rivendicare un ruolo essenziale avuto in questo campo.
Giuseppe Pennisi
Il 17 giugno Roma sarà la capitale mondiale dell’investimento a lungo termine: gli occhi dei maggiori osservatori internazionali saranno puntati su Palazzo Corsini sede dell’Accademia dei Lincei, dove, alla presenza del Capo dello Stato, si svolgerà un convegno organizzato dalla Cassa Depositi e Prestiti (CDP), per il Long Term Investors Club (LTIC). Il Club è stato fondato nell’aprile 2009 dalla CDP, dalla BEI, dalle Caisse de Depôt et Consignation francese e dal Kreditanstalt für Wiederaufbau (KfW). Ai quattro fondatori si sono aggiunti altri soci, tra cui il fondo sovrano cinese. I quattro fondatori gestiscono 1.300 miliardi di euro; aggiungendo le risorse di nuovi e potenziali soci la risorse del Club arrivano a 3000 miliardi di euro. Il Club ha finalità operative specifiche: ha già creato tuo fondi di “private equity” – “Marguerite” e “Infra-Med” , diretti specificatamente agli investimenti pan-europei il primo ed a quelli nell’area del Mediterraneo il secondo. In parallelo, il Club promuove una rete internazionale di riflessione sugli aspetti economici, contabili e legali degli investimenti a lungo termine , rete che potrà contribuire alle “nuove regole” della finanza e dell’economia mondiale verso le quali vari G stanno lavorando da anni.
L’avvio dell’operatività del LITC nell’attuale fase è particolarmente importante perché le misure di finanza pubblica messe in atto da gran parte dei Paesi Ocse per abbattere l’Himalaya del debito pubblico, esploso a ragione della crisi finanziaria internazionale in atto dall’estate 2007, minaccia di innescare una deflazione di cui si vedono già i segni: l’indice composito dell’aumento del costo della vita, escludendo generi caratterizzati da molta volatilità (materie prime, prodotti alimentari), è prossimo allo zero nell’insieme degli Usa, Giappone ed area dell’euro; in Europa potrebbe addirittura scendere sotto zero nel 2011 in quanto l’aspettativa di ulteriore decelerazione dei prezzi induce a posporre i consumi, con l’effetto di frenare produzione ed occupazione. In questo quadro, l’investimento a lungo termine , specialmente se finanziato da private equity (che non grava su spesa pubblica) rappresenta uno degli strumenti più importanti per contrastare i rischi di deflazione . Il Fondo monetario ha appena pubblicato uno studio (Working Paper n. 10/110) in cui, in base all’esperienza del Giappone negli Anni Novanta, conclude che l’investimento ha un moltiplicatore (ossia capacità di attivare crescita) maggiore dei consumi. Al moltiplicatore nella fase di cantiere, occorre aggiungere gli effetti su produttività e competitività nella fase “a regime”.
A livello mondiale, aggregando elaborazioni da varie fonti, la società di consulenza Kpmg stima in 32.650 miliardi di euro il fabbisogno d’investimenti a lungo termine nel prossimo quarto di secolo; di questa cifra, oltre la metà riguarda nuova infrastruttura da creare in Paesi emergenti (in primo luogo quelli asiatici) ma un buon 30% , quindi oltre 10.000 miliardi euro, è necessario per migliorare ed ammodernare infrastruttura ormai obsoleta in Europa. Queste cifre, che danno un ordine di misura del percorso che parte da Roma, tengono conto unicamente dell’infrastruttura in capitale fisico non di quella in capitale umano e sociale (istruzione, salute) oppure in ricerca.
Il compito è enorme. Il LTIC ne rappresenta una risposta. Sarebbe auspicabile che l’Italia, tramite la CDP; prendesse la leadership nella definizione di parametri di valutazione e di criteri di scelta per gli investimenti a lungo termine. Pochi rammentano che, nella storia del pensiero economico, l’Italia ha avuto un ruolo cruciale in questa materia sin dagli anni a cavallo tra il 19simo ed il 20secolo, ruolo spesso dimenticato in quanto i relativi studi non erano tradotti in una lingua internazionale come l’inglese od il francese. La riunione scientifica a Roma del LTIC è, quindi, pure un’occasione per rivendicare un ruolo essenziale avuto in questo campo.
lunedì 14 giugno 2010
Quanto pesa davvero la manovra finanziaria? Ffwebmagazine.it del 14 giugno
Focus
Uno sguardo anche ai provvedimenti del resto d'Europa
Quanto pesa davvero
la manovra finanziaria?
di Giuseppe Pennisi Per discendere dall’Himalaya del debito, i maggiori paesi Ocse, in particolare quelli dell’Unione Monetaria Europea (Ume), stanno attuando manovre coordinate di finanza pubblica tese a ridurre disavanzi di bilanci e lo stock di debito pubblico. Ci sono timori e tremori che ciò possa scatenare una deflazione, inevitabile premessa di una recessione ancora più forte di quella subita nel 2009. E a dare il polso della situazione sono, in primo luogo, i dati sulla disoccupazione. Negli Usa e nell’Ue, un lavoratore su dieci cerca un’occupazione senza trovarla. Negli Stati Uniti , il tasso di disoccupazione è al 9,7% della forza lavoro: un’analisi dettagliata della Federal Reserve Bank di New York e della Università dl Michigan (Nber working paper w15979) sottolinea che i dati, da un lato, evidenziano un aumento della disoccupazione di lungo periodo (un esito di trascinamento dalla situazione precedente la crisi) e, dall’altro, possono sottostimare il fenomeno aggregato a ragione dell’ampliamento delle dotazioni finanziarie e dell’entità dell’Emergency Unemployed Compensation (l’equivalente Usa della Cassa integrazione straordinaria). Negli Stati Uniti, inoltre (rileva Willem H. Buiter nell’ultimo fascicolo della Oxford Review of Economic Policy), le restrizioni annunciate, ma non ancora attuate, si intersecano con una politica di bilancio espansionistica rafforzata nella seconda metà del 2009.Il nodo centrale, quindi, è l’Europa della moneta unica. Nell’area dell’euro, il tasso di disoccupazione è pari al 10% delle forze di lavoro; nel paese di maggior peso (la Repubblica federale tedesca) è al 7,7%, in Italia all’8,5%, ma in Francia sfiora il 12% e in Spagna il 20%. In che misura una politica di bilancio restrittiva coordinata rischia di aggravare il quadro sino a non renderlo più sostenibile sotto il profilo economico e sociale?Per giungere a una valutazione di merito occorre effettuare un’analisi più dettagliata, e meglio mirata, di quella presentata su numerosi quotidiani in questi ultimi giorni. Ad esempio, i “tagli” proposti in Germania (80 miliardi di euro) sono scadenzati su quattro anni; la parte maggiore è proposta per il 2012 e per il 2013. Anche la manovra “tremontiana” è scadenzata su due esercizi finanziari con il grosso delle restrizioni nel 2011. Per l’area dell’euro, secondo le nostre stime, la media ponderata dei “tagli” nel 2010 e nel 2011 è pari all’1% del Pil della zona: mi soffermo su questi due anni perché le legge finanziarie guardano a 12 mesi e, di conseguenza, quelle per il 2012 (da presentarsi nell’autunno 2011) possono essere differenti dai programmi di oggi se il quadro cambia. Inoltre, dato che siamo a metà 2010, è bene porre l’accento sul 2011, ossia sul prossimo esercizio finanziario. La maxi-manovra Merkel per il 2011 è pari appena allo 0,4% del pil stimato per l’anno prossimo. Sempre nel 2011, la manovra “tremontiana” è pari allo 0,8% del pil, al fine d’incidere sullo stock di debito. Più incisive le manovre in Grecia (4% del pil), Portogallo (3,1% ), Spagna (2,9%) in quanto l’andamento dei mercati dei loro titoli di Stato evidenzia dubbi sulla loro solvibilità.In termini generali, quindi, la manovra è meno intensa di quello che potrebbe sembrare. Occorre, però – come correttamente sottolinea un’analisi recente di Alberto Alesina e Roberto Perotti sulla “qualità delle restrizioni” – notare che tali restrizioni riguardano spese di limitata utilità o spese che nel breve periodo aumentano produzione ed occupazione e nel medio e lungo incidono positivamente sul capitale fisso sociale.A riguardo è importante ricordare che il 17 giugno Roma sarà la capitale mondiale dell’investimento a lungo termine: gli occhi dei maggiori osservatori internazionali saranno puntati su Palazzo Corsini sede dell’Accademia dei Lincei, dove, alla presenza del Capo dello Stato, si svolgerà un convegno organizzato dalla Cassa Depositi e Prestiti (CDP), per il Long Term Investors Club (LTIC). Il Club è stato fondato nell’aprile 2009 dalla CDP, dalla BEI, dalle Caisse de Depôt et Consignation francese e dal Kreditanstalt für Wiederaufbau (KfW). Ai quattro fondatori si sono aggiunti altri soci, tra cui il fondo sovrano cinese. I quattro fondatori gestiscono 1.300 miliardi di euro; aggiungendo le risorse di nuovi e potenziali soci la risorse del Club arrivano a 3000 miliardi di euro. Il Club ha finalità operative specifiche: ha già creato tuo fondi di “private equity” – “Marguerite” e “Infra-Med” , diretti specificatamente agli investimenti pan-europei il primo e a quelli nell’area del Mediterraneo il secondo. In parallelo, il Club promuove una rete internazionale di riflessione sugli aspetti economici, contabili e legali degli investimenti a lungo termine , rete che potrà contribuire alle “nuove regole” della finanza e dell’economia mondiale verso le quali vari G stanno lavorando da anni. Un segnale importante dall’Italia al resto d’Europa.
14 giugno 2010
Uno sguardo anche ai provvedimenti del resto d'Europa
Quanto pesa davvero
la manovra finanziaria?
di Giuseppe Pennisi Per discendere dall’Himalaya del debito, i maggiori paesi Ocse, in particolare quelli dell’Unione Monetaria Europea (Ume), stanno attuando manovre coordinate di finanza pubblica tese a ridurre disavanzi di bilanci e lo stock di debito pubblico. Ci sono timori e tremori che ciò possa scatenare una deflazione, inevitabile premessa di una recessione ancora più forte di quella subita nel 2009. E a dare il polso della situazione sono, in primo luogo, i dati sulla disoccupazione. Negli Usa e nell’Ue, un lavoratore su dieci cerca un’occupazione senza trovarla. Negli Stati Uniti , il tasso di disoccupazione è al 9,7% della forza lavoro: un’analisi dettagliata della Federal Reserve Bank di New York e della Università dl Michigan (Nber working paper w15979) sottolinea che i dati, da un lato, evidenziano un aumento della disoccupazione di lungo periodo (un esito di trascinamento dalla situazione precedente la crisi) e, dall’altro, possono sottostimare il fenomeno aggregato a ragione dell’ampliamento delle dotazioni finanziarie e dell’entità dell’Emergency Unemployed Compensation (l’equivalente Usa della Cassa integrazione straordinaria). Negli Stati Uniti, inoltre (rileva Willem H. Buiter nell’ultimo fascicolo della Oxford Review of Economic Policy), le restrizioni annunciate, ma non ancora attuate, si intersecano con una politica di bilancio espansionistica rafforzata nella seconda metà del 2009.Il nodo centrale, quindi, è l’Europa della moneta unica. Nell’area dell’euro, il tasso di disoccupazione è pari al 10% delle forze di lavoro; nel paese di maggior peso (la Repubblica federale tedesca) è al 7,7%, in Italia all’8,5%, ma in Francia sfiora il 12% e in Spagna il 20%. In che misura una politica di bilancio restrittiva coordinata rischia di aggravare il quadro sino a non renderlo più sostenibile sotto il profilo economico e sociale?Per giungere a una valutazione di merito occorre effettuare un’analisi più dettagliata, e meglio mirata, di quella presentata su numerosi quotidiani in questi ultimi giorni. Ad esempio, i “tagli” proposti in Germania (80 miliardi di euro) sono scadenzati su quattro anni; la parte maggiore è proposta per il 2012 e per il 2013. Anche la manovra “tremontiana” è scadenzata su due esercizi finanziari con il grosso delle restrizioni nel 2011. Per l’area dell’euro, secondo le nostre stime, la media ponderata dei “tagli” nel 2010 e nel 2011 è pari all’1% del Pil della zona: mi soffermo su questi due anni perché le legge finanziarie guardano a 12 mesi e, di conseguenza, quelle per il 2012 (da presentarsi nell’autunno 2011) possono essere differenti dai programmi di oggi se il quadro cambia. Inoltre, dato che siamo a metà 2010, è bene porre l’accento sul 2011, ossia sul prossimo esercizio finanziario. La maxi-manovra Merkel per il 2011 è pari appena allo 0,4% del pil stimato per l’anno prossimo. Sempre nel 2011, la manovra “tremontiana” è pari allo 0,8% del pil, al fine d’incidere sullo stock di debito. Più incisive le manovre in Grecia (4% del pil), Portogallo (3,1% ), Spagna (2,9%) in quanto l’andamento dei mercati dei loro titoli di Stato evidenzia dubbi sulla loro solvibilità.In termini generali, quindi, la manovra è meno intensa di quello che potrebbe sembrare. Occorre, però – come correttamente sottolinea un’analisi recente di Alberto Alesina e Roberto Perotti sulla “qualità delle restrizioni” – notare che tali restrizioni riguardano spese di limitata utilità o spese che nel breve periodo aumentano produzione ed occupazione e nel medio e lungo incidono positivamente sul capitale fisso sociale.A riguardo è importante ricordare che il 17 giugno Roma sarà la capitale mondiale dell’investimento a lungo termine: gli occhi dei maggiori osservatori internazionali saranno puntati su Palazzo Corsini sede dell’Accademia dei Lincei, dove, alla presenza del Capo dello Stato, si svolgerà un convegno organizzato dalla Cassa Depositi e Prestiti (CDP), per il Long Term Investors Club (LTIC). Il Club è stato fondato nell’aprile 2009 dalla CDP, dalla BEI, dalle Caisse de Depôt et Consignation francese e dal Kreditanstalt für Wiederaufbau (KfW). Ai quattro fondatori si sono aggiunti altri soci, tra cui il fondo sovrano cinese. I quattro fondatori gestiscono 1.300 miliardi di euro; aggiungendo le risorse di nuovi e potenziali soci la risorse del Club arrivano a 3000 miliardi di euro. Il Club ha finalità operative specifiche: ha già creato tuo fondi di “private equity” – “Marguerite” e “Infra-Med” , diretti specificatamente agli investimenti pan-europei il primo e a quelli nell’area del Mediterraneo il secondo. In parallelo, il Club promuove una rete internazionale di riflessione sugli aspetti economici, contabili e legali degli investimenti a lungo termine , rete che potrà contribuire alle “nuove regole” della finanza e dell’economia mondiale verso le quali vari G stanno lavorando da anni. Un segnale importante dall’Italia al resto d’Europa.
14 giugno 2010
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