Teatro, a Palermo “Trionfo della vita” tra visivo e musikdrama
Roma, 17 apr (Velino) - “Die tode Stadt (La Città Morta)” di Erich Korngold è in scena al Teatro Massimo di Palermo sino al 23 aprile. È una vera e propria rarità da non perdere. Scritta e composta quando l’autore aveva appena 23 anni, è uno dei capolavori assoluti del teatro in musica del Novecento. Korngold, poco noto in Italia, è stato un enfant prodige. Allievo di quell’Alexander von Zemlinsky (che fu maestro, tra gli altri, di Schoenberg, Krenek, Schreker e marcò la musica del Novecento “storico” e la stessa contemporaneità più sfrenata), Korngold a soli 13 anni vide un suo primo lavoro sulle scene di Vienna e, neppure ventenne, due suoi atti unici furono allestiti dallo schizzinoso Teatro Nazionale di Monaco. La composizione di “Die tode Stadt” durò dal 1916 al 1920. Nell’ottobre del ‘20 Giacomo Puccini (allora uno dei più acclamati compositori in Europa e negli Usa) ne ascoltò una versione per piano suonata dal “giovanotto”, rispondendo con invidia più che ammirazione. Pare, infatti, dopo l’ascolto, interruppe la composizione di “Turandot”. “La Città Morta ebbe “la prima” contemporaneamente in due teatri, Amburgo e Colonia: avvenimento del tutto inusuale per un lavoro di un giovane. Il successo fu enorme anche perché nell’impalcatura espressionistica e nella brillante strumentazione, si inseriscono due arie che si possono agevolmente trasformare in lieder o canzoni facilmente orecchiabili. Dopo questo lavoro e un altro grande successo, “Das Wunder der Heliane (Il miracolo di Eliana)”, Korngold emigrò negli Usa (si avvicinavano le persecuzioni razziali) dove visse tra New York e Los Angeles sino alla morte che lo colse nel 1957. Oltreoceano diventò un celebre autore di musica da film, meritandosi ben due premi Oscar e ricchi assegni in dollari americani, allora più apprezzati che adesso, mentre le sue opere per il teatro in musica vennero a lungo dimenticate.
Il perno del lavoro è il giovane vedovo, Paul, che, a Bruges, “la città morta” appunto, vive nella contemplazione della moglie deceduta, del suo ritratto, delle sue trecce. Al suo migliore amico, Frank, racconta di avere incontrato una donna fisicamente identica alla moglie. Ne consegue una lunga visione, tra sogno e realtà, fortemente erotica (con feticismo, onanismo e sesso di gruppo) sino allo snodo finale: Paul strangola, nel sogno, la ragazza con le trecce della moglie defunta e al risveglio lascia “Die tode Stadt”. Il titolo originario dell’opera avrebbe dovuto essere “Il trionfo della vita”, ma venne mantenuto il riferimento a Bruges, nonostante l’azione si svolga quasi interamente in interni, poiché il lavoro era tratto da un romanzo di successo che era già stato la fonte di un dramma pure esso ben apprezzato da pubblico e critica. Si respira, è chiaro, la psichiatria freudiana e l’atmosfera erotico-decadente, oltre che morbosa, di un mondo che avvertiva essere in disfacimento. Il finale è, tuttavia, ottimista: Paul fugge dal suo travaglio interiore e corre, un po’ dannunzianamente, “verso la vita”.
Negli ultimi anni, “Die tode Stadt” ha avuto una vera e propria renaissance. Non solo in Germania, dove venne ripresa in molti teatri sin dagli anni Cinquanta, ma anche negli Stati Uniti (da ricordare una produzione eccellente, negli anni Settanta, della New York City Opera che venne portata in tournèe in vari stati a stelle e strisce. In Italia, si è vista a Catania una dozzina di anni fa e a Spoleto circa due lustri orsono. L’allestimento in scena a Palermo è co-prodotto con La Fenice dove il 23 gennaio scorso ha inaugurato la stagione lirica. È facilmente “trasportabile” su altri palcoscenici ed è quindi da augurarsi che altri teatri lo portino in scena. Un allestimento differente è in questi giorni a Londra. Lo ha curato Willy Decker per il Festival di Salisburgo del 2004 e da allora si è visto a Vienna (dove viene ripreso quasi ogni anno), Madrid, Barcellona e altrove. Ancora un’altra edizione è stata realizzata in questi ultimi anni a Ginevra e in vari teatri francesi. Un revival che di per se stesso mostra quanti nessi intercorrano tra l’inizio di questo ventunesimo secolo e quello scorso.
Prima di parlare dello spettacolo palermitano, un ricordo. Nel febbraio 2006 a Vienna, nella “Albertina”, la residenza barocca e galleria delle collezioni della figlia di Maria Teresa d’Austria, Maria Cristina, e di suo marito, il duca Alberto di Sachsen-Teschen, si poteva ammirare una mostra che raccoglieva ben 600 opere di Egon Schiele, l’artista che prese, per un breve periodo, il testimone da Gustav Klimt, nella “Secessione” (il movimento “di rottura” dell’inizio del secolo scorso). Traversando la strada, si poteva andare alla Staastoper e ascoltare “Die tode Stadt”. C’è un nesso tra Schiele e Korngold? I due furono contemporanei solo per un certo numero di anni. Non vi sono tracce rilevanti di un loro possibile incrocio nella Vienna artistica di quel periodo. Nato il primo nel 1890 in una famiglia numerosa di un capostazione di provincia e il secondo nel 1897 nella magione di uno dei maggiori e più influenti giornalisti e critici musicali del mondo tedesco di allora, crebbero entrambi in una capitale austriaca in cui l’espressionismo si proponeva come antitesi al tradizionalismo e, grazie a Freud, la riscoperta esplicita della sessualità assumeva un significato non solo artistico ma anche politico che finiva per cozzare con la bigotta corte asburgica dell’imperatore Francesco Giuseppe.
Con l’eccezione di alcuni paesaggi violentemente espressionistici nel tratto e nei colori, i 600 dipinti di Schiele trattavano quasi esclusivamente di eros, con una lettura che andava dalla pornografia di lusso (reato per cui venne incriminato e condannato alla prigione) alla satira, dalla caricatura al grottesco. Molti ad esempio i nudi di donne in stato avanzato di gravidanza, ma con allusioni all’onanismo. Pochi i soggetti di coppie eterosessuali. Parecchi, invece, i disegni imperniati su rapporti saffici. Sconvolgenti gli autoritratti: raramente un pittore dipinge se stesso nudo; ma in una serie di dipinti Schiele si offrì nudo in una vasta gamma di posizioni e atti inerenti la masturbazione. In breve, il quadro non di una malinconica ma elegante “Finis Austria” ma di un’Europa macera, affaticata e ansimante, in cui la riscoperta stessa della sessualità sboccava nell’onanismo. Nonostante i grandi successi artistici, Schiele (tra l’altro notorio come donnaiolo sfrenato sin dall’età di 18 anni, nonché per la scarsa fedeltà alla moglie Edith) ebbe vita breve e difficile.
I percorsi di Schiele e Korngold furono solo per poco tempo paralleli. Il primo, sempre fragile e deboluccio, morì di spagnola due giorni dopo la propria moglie Edith e quattro giorni prima la fine della Prima guerra mondiale. Korngold, invece, diventò una star di Hollywood. “Die tode Stadt” ha più di un punto in comune con il visivo di Schiele. Lo coglievano bene la regia, le scene e i costumi di Willy Decker: una Bruges paludosa, macera, dove il passare del tempo non esiste e lo stesso eros diventa una contemplazione della morte. Lo coglie forse ancora meglio l’allestimento di Pier Luigi Pizzi, imperniato su specchi e luci su cui si aprono gli interni per mostrare il mondo esterno come un’immensa palude, peccaminosa e anche volutamente “oscena” , come nella processione con le intimità dei prelati in bella vista.
A Palermo, Will Humburg, maestro concertato versatile, scava nella partitura di Korngold mostrando la modernità, la ricchezza dell’orchestrazione e il virtuosismo nell’impiego del Fa bemolle minore e delle dissonanze che in alcuni momenti scivolano in lieder e concertati facilmente orecchiabili. Arduo il ruolo del tenore, non solo perché il personaggio di Paul è quasi sempre in scena, ma poiché è scritto per un heldentenor wagneriano in grado di ascendere a do acuti (e tenerli a lungo) e discendere a un registro quasi baritonale, una vocalità, quindi, da Siegfried in “Goettermaerung”. John Treleaven non ha aggirato nessuno dei trabocchetti, come hanno fatto i suoi colleghi nelle recite veneziane, e si è meritato applausi a scena aperta oltre che nel liberatorio finale. Nicola Beller Carbone è Marietta (e l’apparizione di Maria): la parte richiede una vocalità da soprano drammatico che sappia, ad esempio nella canzone sulla felicità, un cavallo di battaglia di Anne Sophie von Hotter, avere la tinta del mezzosoprano. Buoni Christopher Roberston (Frank) e Franco Pomponi (Fritz), nonché i numerosi ruoli minori e il coro guidato da Andrea Faidutti. Un solo appunto: mentre Nicole Beller Carbone ha una sensualità felina, né Treleaven né Roberston hanno la prestanza che ci si aspetterebbe da due giovani uomini. Quella che non manca a Pomponi, specialmente nell’amplesso con Mariette nel secondo quadro.
Oltre agli aspetti musicali, c’è qualche riferimento anche per noi? Per questa Europa che, nella crisi finanziaria internazionale ristagna come nelle acque dei canali di Bruges e che è alla prese con gli onanismi della Commissione di Bruxelles? Tra Schiele che tra le sue ossessioni viene portato via dalla spagnola e il Paul di Korngold che volta le spalle alle medesimi ossessioni per andare dalla “città morta” al “trionfo della vita”, c’è una scelta netta. Su cui riflettere in questo primo scorcio del ventunesimo secolo. Specialmente in una Palermo dove il sovrintendente Antonio Cognata, che sta faticosamente risanando il Massimo, è rimasto vittima, il giorno di Giovedì Santo, di una brutale aggressione da parte di ignoti che, secondo alcuni, sarebbero schegge impazzite del movimento sindacale.
(Hans Sachs) 17 apr 2009 14:23
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