Opera, “Maria Stuarda” a Venezia: due donne e un labirinto
Roma, 27 apr (Velino) - Le opere sulle tre “regine” Tudor rappresentano una trilogia nella fertile produzione di melodrammi (74 tra compiuti e incompiuti) di Gaetano Donizetti. Escludiamo dal computo di questa trilogia “Elisabetta al Castello di Kenilworth” del 1829 in quanto, pur classificato come “melodramma serio”, è un lavoro semi-serio con lieto fine, segue tutte le convenzioni del genere e, nonostante una buona registrazione di alcuni anni fa, non ha mai avuto una vera e propria “renaissance” in tempi moderni. “Anna Bolena”, “Maria Stuarda” e “Roberto Devereux” (composte tra il 1830 ed il 1837) hanno un filo conduttore comune: tragedie, più che drammi, tutte al femminile, imperniate non tanto sugli intrighi di potere tra i Tudor e i “cugini” Stuart per il controllo del più grande impero del mondo, ma sulla passione delle tre protagoniste per un uomo: tre amori impossibili in cui Eros (con Donizetti era ancora in scena) è contrastato da ragion di Stato.
Sparite dai palcoscenici nella seconda metà dell’Ottocento, quando trionfava il melodramma verdiano, le tre “regine” sono riapparse verso la metà del Novecento, soprattutto dopo la Seconda guerra mondiale. Le “regine” donizettiane hanno trionfato prima sui palcoscenici anglosassoni che su quelli italiani. Se ne ricorda una bellissima edizione, alla fine degli anni ‘60, costruita su Beverly Sills alla New York City Opera e registrata in studio per la Emi. In Italia, “Maria Stuarda” in particolare venne riscoperta al Maggio Musicale del 1970 e si ricorda una buona rappresentazione di “Roberto Devereux”, allora ancora sconosciuto al grande pubblico italiano, in Corea, in un cinema-teatro di Seul, nel lontano 1973. Riascoltate in sequenza, l’una dopo l’altra, le tre “regine” hanno una grande presa, anche e soprattutto se la stessa cantante decidesse di calarsi in un vero e proprio tour de force (siamo ancora ancorati al “bel canto” belliniano intriso, però, dal gusto allora nuovo per lo sfoggio degli acuti). L’effetto diminuisce, invece, se le tre opere vengono rappresentate separatamente. In questo senso andrebbe rivolto un invito al Festival Donizetti di Bergamo: predisporre nel tempo un mini-festival nel quale le tre “regine” possano essere gustate una dopo l’altra nell’arco di 1-2 settimane.
La partitura e il libretto di “Maria Stuarda” sono quelli che hanno subito maggiori rimaneggiamenti a causa sia della censura (Napoli ne vietò la messa in scena e Milano impose cambiamenti al testo), sia del mutamento di convenzioni nella struttura del melodramma (tra cui il passaggio dalla suddivisione da due a tre atti). “Maria Stuarda”, tra le “regine”, è anche la più breve e più compatta: poco più di due ore di musica rispetto alle tre richieste da “Anna Bolena” e “Roberto Devereux” . Nell’edizione in scena alla Fenice di Venezia sino al 3 maggio viene seguita l’edizione critica in due atti curata da Anders Wiklund che cerca, al meglio, di proporre quella che avrebbe dovuto essere la versione destinata a essere rappresentata al San Carlo nel 1834 (e che venne ascoltata unicamente alla prova generale). L’edizione critica accentua ancora di più il dramma a due voci femminili: un soprano in grado di passare dalle vette della coloratura al declamato nel ruolo della regina di Scozia e un mezzo “spinto” in quello della regina d’Inghilterra. Le due sovrane si contendono un tenore di grazia (il cui ruolo è peraltro limitato): è per il possesso del bel Leicester che Maria Stuarda viene inviata al capestro da Elisabetta. Questa è l’edizione ormai corrente: unicamente facendo riferimento ai teatri italiani, si è vista nel 2006 a Roma, nel 2007 a Macerata e alla Scala e poche settimane fa al Massimo Bellini di Catania.
L’allestimento in scena alla Fenice ha alcuni punti forti. In primo luogo, è una co-produzione con le fondazioni liriche di Trieste, Catania e Palermo, nei cui teatri si vedrà la prossima stagione: una forma di collaborazione importante in una fase di ristrettezze per tutti. In secondo luogo, la geniale regia di Denis Krief fa piazza pulita di stemmi cinquecenteschi, di palazzi di cartapesta, di foreste dipinte e di prigioni lugubri. Vi è una scena unica: un labirinto di granito che cambia di colore nei vari quadri per riflettere stati d’animo e atmosfera. Il labirinto è centrale alla poetica di Shakespeare e di Schiller e ben esprime il tormento sia di Elisabetta sia di Maria, per non citare anche il Leicester che ambedue desiderano. Inoltre, alla concertazione non ingombrante di Fabrizio Maria Carminati fanno riscontro tre interpreti d’eccezione.
Sonia Ganassi (che il prossimo 3 novembre verrà insignita, a Catania, del prestigioso “Bellini d’oro”) non scansa neanche un acuto del difficile ruolo di Elisabetta, nonostante sia al quinto mese di gravidanza. Fiorenza Cedolins, che debutta nei panni di Maria, dopo qualche incertezza nella prima parte ha raccolto un vero e proprio trionfo con tanto di “standing ovation”. Il suo ruolo è terrificante e si temeva che, dopo tante “Tosca” e “Butterfly”, potesse incontrare difficoltà. Ha invece mostrato di essere ancora un soprano assoluto di classe. Infine, nel ruolo di Leicester, Josè Bros dal timbro chiarissimo e delicato. Di norma, il suo punto debole è la recitazione (si ricorda una “Favorite” in cui fu sensuale quanto un manico d’ombrello). A Venezia, invece, Krief riesce a renderlo un credibile “oggetto” di contesa tra le due primedonne.
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