Luce alla fine del tunnel?
Stiamo cominciando a vedere la luce alla fine del tunnel della crisi finanziaria esplosa nell’estate 2007, ma da alcuni già anticipata nel lontano inverno del 1999? Forse anche a ragione dell’atmosfera pasquale (molto sentita negli Stati Uniti, specialmente in un anno come l’attuale in cui – rara coincidenza – la ricorrenza cristiana e quella ebraica cadono negli stessi giorni), il Presidente Barack Obama ha parlato di non meglio specificati “barlumi”.
Questi timidi segnali positivi consisterebbero nell’ipotetico superamento del “punto di svolta” inferiore della crisi, di cui si inizierebbe ad intravedere la fase finale e la possibile ripresa. Quasi in contemporanea a questi annunci pasquali, tuttavia, due banche americane, una piccola ed una media, hanno portato i libri in tribunale; sono così saliti a 23 nel 2009 - a 51 dal 2007 - gli istituti di credito che hanno fatto fallimento.
Nuovi strumenti per i salvataggi
Per arrestare una crisi che ha raggiunto le dimensioni di un’epidemia, il governo americano starebbe pensando ad uno strumento in parte analogo ai cosiddetti “Tremonti bonds” di cui si è parlato in Italia e ai “Liberty Bonds” lanciati negli Usa addirittura al tempo della prima guerra mondiale: si tratterebbe dei “fondi per il salvataggio” delle banche (bailout funds), che verrebbero gestiti dalle finanziarie in miglior stato di salute e con la garanzia, almeno parziale, del governo federale. Le finanziarie emetterebbero obbligazioni per far sì che chi lo desidera (individui, famiglie ed imprese) possa partecipare ad operazioni alimentate con il gettito fiscale e, quindi, a carico di tutti i contribuenti. I “bonds” per i “salvataggi” pagherebbero rendimenti relativamente elevati, ma comporterebbero rischi maggiori dei titoli di Stato del Tesoro, ragion per cui entrerebbe in gioco una, almeno parziale, garanzia federale.
L’idea ha suscitato forti perplessità negli economisti del settimanale on line The Economists’ Voice, mm-10497-6634875@bepress.com. Uno dei loro mâitre-à-penser, il Nobel Joseph Stiglitz, scrive che si tratta di un “nuovo stratagemma per privatizzare utili e socializzare perdite”. Le prospettive (peraltro ancora eventuali) dei “bailout funds” e dei nuovi “bonds” sarebbero uno degli elementi della ripresa delle borse in corso da metà marzo, e che la stampa europea ancora stenta a riconoscere: nella quattro settimane prima di Pasqua, Piazza Affari ha recuperato il 34%, il DJ Eurostoxx 50 (uno dei più seguiti indici europei) il 21% e lo S&P500 di Wall Street il 22%. Soprattutto, mentre negli ultimi mesi erano i titoli energetici e delle telecomunicazioni a tirare (oppure solamente a tenere), adesso sono anche le azioni bancarie, nonostante la crisi di fiducia nel settore, a mostrare segni incoraggianti di ripresa.
Non solo macroeconomia
Si commetterebbe un errore di prospettiva, però, a porre troppo l’accento sugli andamenti delle borse e sui titoli bancari in un periodo di tempo ridotto come quello di quattro settimane. Un lavoro appena completato dalla Banca mondiale ( World Bank Policy Research Working Paper No. 4807) passa in rassegna le determinanti finanziarie e macro-economiche della crisi, sottolineando le tensioni tra obiettivi e politiche a breve e medio-lungo termine, nonché le difficoltà a leggere gli indicatori appropriati per prendere il polso alla crisi. Una serie di saggi sull’ultimo fascicolo di The Journal of Economic Perspectives dedicato alle fasi iniziali della crisi, mette in risalto come le determinanti principali siano micro-economiche e quindi, suscettibili di essere influenzate da politiche pubbliche monetarie e di bilancio.
Gli indicatori che meglio riescono a catturare gli aspetti micro e macro della crisi, fornendo indicazioni di dove si stia andando, sono quelli del commercio internazionale, che sta subendo la più forte contrazione degli ultimi decenni (prevista tra il 7% ed il 9% nel solo 2009). I dati più recenti relativi ai 15 maggiori paesi esportatori confermano il tracollo: nel febbraio scorso l’eximport dei 15 ha segnato un valore di ben un terzo inferiore a quello dello stesso mese del 2008.
Un saggio di Barry Eichengreen e Kevin 0’ Rourke, “A Tale of Two Depressions”, evidenzia come il fatto stesso che il tracollo del commercio sia stato più veloce oggi che nel 1929-30, sia un indicatore di un potenziale più rapido di ripresa dell’economia reale, sempre che non si cada nelle facili tentazioni del protezionismo. I dati più recenti mostrano che il programma espansionista attuato in Cina sta dando i suoi frutti: nonostante la caduta complessiva per i 15, l’export di Australia, Corea del Sud e Taiwan sta galoppando (alla volta della Cina) e le stesse esportazioni americane danno segni di ripresa (rispetto ai tre mesi precedenti). Un segnale timido, ma incoraggiante.
Giuseppe Pennisi insegna economia internazionale e poltica economica europea all'Università Europea di Roma ed all'Università di Malta
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