Musica, “Semyon Kotko” ovvero il piccolo bolscevico sardo
Roma, 23 apr (Velino) - Quando l’intellighenzia italiana era marxista nelle sue varie forme e guise, nessuno osò eseguire e, ancor meno, mettere in scena alcuni dei lavori composti da Sergej Prokofiev quando rientrato in patria dopo 17 anni in occidente, dovette “disperatamente” produrre qualcosa che fosse effettivamente riconosciuto come “sovietico”. Aveva già dato un assaggio quando iniziò il suo lento e graduale ritorno in Russia, con la musica per il film “Il Luogotenente Kijé”, tratto da una novella di Yuri Nicolai Tinianov e diretto da Alexandr Fienzimmer. Il lavoro è una sferzante satira della burocrazia prussiana da cui Prokofiev trasse una brillante “suite” , raramente eseguita in Italia, ma che quest’anno si è ascoltata in gennaio a Roma al Parco della Musica (con i complessi dell’Accademia di Santa Cecilia diretti da Yuri Temirkanov) e a marzo al Bologna Festival (con l’Orchestra Mozart guidata da Claudio Abbado) – due esecuzioni, quindi, di grandissimo livello.
La vera opera “sovietica” di Prokofiev, concepita alla fine degli anni Trenta e messa in scena a Mosca nel giugno 1940 (pochi mesi prima il “committente”, Vsevolod Meyerhold, direttore nel 1939 del Teatro dell’Opera di Stato Stanivlasky della capitale sovietica era stato fatto passare per le armi, dopo un processo-farsa, da Stalin) è “Semyon Kotko” in scena al Teatro Lirico di Cagliari fino al 4 maggio. Il lavoro è tratto da un romanzo ( “Io, figlio del popolo lavoratore”) di Valentin Katayev. Negli ultimi mesi della Prima guerra mondiale, il proletario soldato Kokto torna nel suo villaggio ucraino, dove i ricchi (per così dire) kulaki tramano contro “i rossi” collaborando, più o meno apertamente, con i tedeschi. Kotko è innamorato della bella Sophia (figlia di un kulako) che lo ricambia. Il villaggio viene invaso da tedeschi che fanno stragi di contadini; il padre della fidanzata del buon Kotko diventa immediatamente un collaborazionista. Il ragazzo scappa in montagna per tornare, con i partigiani, proprio mentre Sophia sta per essere data in moglie, controvoglia, a un proprietario terriero. Alla fine tedeschi e collaborazionisti vengono sconfitti. De Amicis, in “Cuore”, include il racconto del “Piccolo tamburino sardo”. Visto e ascoltato a Cagliari, questo Seymon è un eroico piccolo bolscevico sardo. In un’isola che poche settimane fa ha allontanato il centro-sinistra dalla guida della Regione.
Nonostante l’intreccio, l’opera ebbe difficoltà a essere rappresentata. Meyerhold finì nelle grinfie del terrore stalinista e quando erano in corso le prove di scena, giunse notizia del patto Molotov-Ribbentrop: sarebbe stato quindi sconveniente mostrare i tedeschi non solo “cattivi” ma anche “trucidi” e “sadici”. Si penso, così, a una riscrittura del libretto sostituendo i tedeschi con i russi bianchi. Ma l’alleanza russo-tedesca fu di breve durata e il lavoro poté arrivare sul palcoscenico come pensato e composto. Piacque al pubblico ma la burocrazia staliniana lo bollò come “formalista”. Sparì sino al 1958 quando venne rappresentato a Brno, capoluogo di provincia di quella che era la Repubblica Cecoslovacca. Sulle scene russe arrivò solamente nel 1970 e in quegli anni arrivò anche per un paio di sere alla Scala, senza però lasciar traccia, nell’ambito di una tournée del Bolshoi.
Cosa dire dei suoi meriti artistici? Curiosamente, “Semyon Kotko” è oggi popolare nella Russia de-stalinizzata e de-sovietizzata, a ragione più della sua musica che del suo puerile libretto. Uno dei maggiori musicisti russi Sviatoslav Richter lo pone sul sentiero tracciato da Musorgskij: grande opera storico-popolare. Pure musicologhi ben saldati nella tradizione del Novecento storico occidentale, ad esempio Andrew Huth, affermano che la “potente scrittura orchestrale e vocale” di Prokofiev riscatta il libretto. Uno dei maggiori esperti italiani del compositore russo, Piero Rattalino, esprime perplessità. Prima di assistere all’esecuzione dell’opera a Cagliari, conoscevo “Seymon Kotko” tramite la registrazione Philips di un’esecuzione dei complessi del “Mariinskij” di San Pietroburgo guidati da Valery Gergiev e condividevo i dubbi di Rattalino.
Oggi, dopo la “prima” al Teatro Lirico cagliaritano, pur non avendo cambiato giudizio complessivo, ho la netta impressione che pur volendo comporre l’opera sovietica per eccellenza, Prokofiev fosse rimasto futurista e dadaista con lo sguardo verso l’avvenire. La partitura presenta, infatti, elementi d’interesse: le tecniche vocali spaziano dal parlato con notazioni ritmiche a melodie tradizionali con tutta una vasta gamma di soluzioni intermedie. Lo stesso realismo alla Musorgskij, nel modo in cui voci e orchestra si sovrappongono, ha toni e slanci innovativi. I censori staliniani se ne accorsero allora; la cultura musicale italiana può apprezzarlo oggi. La produzione in scena a Cagliari e successivamente a San Pietroburgo al “Mariinskij” che la co-produce, utilizza un impianto unico (in un’Ucraina devastata sino ad assomigliare a una discarica) dove si svolgono una trentina di rapidi quadri. La regia di Yuri Alexandrov pone molto l’accento su un recitazione con effetti speciali (incendi e combattimenti). Buona la concertazione di Alexander Vedernikov. Impossibile elencare la lunga schiera di cantanti, ben 25 solisti tra protagonisti a caratteristi, tutti ottimi attori. Occorre, tuttavia, ricordare come la Russia sfoggi una gamma di voci di tenore e di basso da fare invidia. È il lato migliore di un “Semyon Kotko” che sarebbe potuto restare nell’oblio se non ci interrogasse, con inquietudine, sulle ragioni per cui certe voci (specialmente i tenori), introvabili o quasi in Occidente, sono invece merce non tanto rara all’Est.
(Hans Sachs) 23 apr 2009 15:15
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