Premessa Il 2008 è stato caratterizzato dal proseguire della crisi finanziaria ed economica esplosa nell’estate 2007. La crisi ha frenato, in tutto il mondo, i processi di privatizzazione in corso ed in numerosi Paesi (Usa e Gran Bretagna, in primo luogo) ha riportato la partecipazione dell’intervento pubblico al capitale d’intermediari finanziari, nonché l’estensione di aiuti di Stato a grandi imprese private di settori in difficoltà. Lo confermano, tra gli altri, il sito www.privatization.org, il rapporto annuale sulle privatizzazioni della Reason Foundation (Reason Foundation, 2008), e il periodico “Privatization Watch”. Non sono venuti a mancare solamente i flussi finanziari (specialmente il “private equity”) necessari a sostenere una strategia di privatizzazioni, ma è anche sorto il dubbio che, nonostante i benefici sotto il profilo e della crescita e dell’equità distributiva (analizzati nel “Rapporto” dell’anno scorso, Società Libera, 2008), tra le determinanti di fondo della crisi non ci fossero solamente o principalmente sistemi laschi di regolazione e di vigilanza dei mercati finanziari (e nazionali ed internazionale) ma anche nodi fondamentali nel funzionamento dell’economia capitalistica .
Nell’ultimo numero del 2008 della rivista della Columbia University “Capitalism and Society”, Edmund Phelps si chiede se alle radici del fenomeno dello scollamento tra finanza (alla ricerca d’utili sostenuti tramite un’ingegneria finanziaria sempre più complicata e sempre meno trasparente) ed economia reale non ci sia la scarsa integrazione tra micro e macro economia e la capacità stessa della professione di comprendere il funzionamento delle imprese (Phelps, 2008). Marx, Schumpeter e Keynes (Marx, 1976; Schumpeter; 2001, Keynes, 2006) avevano ragione, oppure torto,quando preconizzavano una riduzione del tasso di profitto e un sempre più pregnante intervento pubblico per sostenere l’economia? Per Marx e Schumpeter il passaggio al socialismo non sarebbe stato motivato da esigenze di giustizia sociale ma dall’incapacità del capitalismo di fornire un saggio di profitto adeguato a sostenere risparmi e, quindi, investimenti. Per Keynes, gli “animal spirits” – l’espressione è sua non d’Adam Smith- avevano la necessità di un certo grado di “socializzazione dell’investimento” (per mantenere un saggio di profitto privato tale da consentire il processo d’accumulazione. Con il termine “socializzazione dell’investimento”, Keynes non intendeva che il pubblico dovesse sostituirsi al privato ma una chiara ripartizione di compiti in modo che il primo potesse supportare il secondo.
All’inizio degli Anni 80, su incarico del Ministero del Bilancio e della Programmazione Economica, Maurizio Tenenbaum dell’Università La Sapienza di Roma ha condotto un’analisi della produttività marginale dell’investimento, pubblicata in un libro curato da Fabio Nuti (Muti, 1987). Il saggio esaminava l’investimento pubblico nel periodo 1950-80 con un metodo aggregato volto a quantizzare, ex post, le caratteristiche della funzione di produzione in Italia. Secondo lo studio, la spesa in conto capitale aveva una produttività-marginale dell’8-12% - parametro utilizzato per circa tre lustri come riferimento nella valutazione di piani e progetti a concorrere su finanziamenti pubblici. Il periodo analizzato da Tenenbaum copre in larga misura gli anni del “miracolo economico” (1945-1968) quando, secondo le analisi di Charles Kindleberger e Ferenc Janossy (Kindleberger,1993; Janossy 1973) l’investimento aveva rendimenti particolarmente elevati poiché attivava l’utilizzazione di capitale umano potenzialmente molto ben addestrato e molto produttivo, ma costretto ad una relativa improduttività dal 1936 alla fine della seconda guerra mondiale.
Al termine degli Anni 80, seguendo un metodo differente da quello di Tenenbaum , arrivai, con l’economista finlandese Ernst Kula, a stimare un tasso di riferimento del 2,5-4,% (Kula, 1988; Pennisi, 1989) . Di recente, il servizio studi della Banca centrale europea (Alfonso, St Aubin, 2008) ha completato un’analisi che riguarda il periodo 1960-2005 – sui suoi esiti il “miracolo economico” conta relativamente poco. In secondo luogo, è un’analisi comparata che include 14 Paesi dell’Ue, il Canada, Giappone e Stati Uniti. In terzo luogo, utilizzando una metodologia VAR ; ha un contenuto informativo aggiornato e più utile di quelli condotti in passato. Infine, anche nei tassi di rendimenti medi (tanto “parziali”, del solo investimento pubblico, quanto “totali”, computando anche l’investimento privato attivato dalla mano pubblica). In Italia, Finlandia, Giappone e Svezia, i tassi di rendimento “parziali” dell’investimento pubblico risultano negativi. In materia di tassi di rendimento “totali”; il tasso dei rendimenti privati diventa più basso se associato al pubblico generalmente in tutti i Paesi (la sola eccezione è la Francia) e diventa addirittura negativo in Austria, Finlandia, Grecia, Portogallo e Svezia. Questa seconda conclusione solleva, ancora una volta, l’interrogativo di dove sta andando il tasso di profitto e se la sua contrazione non è un fenomeno di lungo periodo da contrastare con misure differenti da principalmente quelle macro-economiche e monetaria attuate, nei maggiori Paesi Ocse, nel 2008.
Ciò non implica necessariamente la desiderabilità od opportunità di un rallentamento nel processo di privatizzazioni ma, in linea con l’interpretazione dell’ipotesi keynesiana sulla necessità di un grado di “socializzazione dell’investimento”, una più chiara ripartizione tra investimento pubblico ed investimento privato (Godley, Papadimitriou, Zezza, 2008).
Un’analisi recente dell’Istituto Bruno Leoni (Istituto Bruno Leoni, IBL 2008) indica che, prendendo come parametro lo Standard&Poor MIB – un paniere pesato delle 40 SpA più rappresentative della nostra economia - il 39% circa dell’indice è costituito da SpA a forte azionariato o dello Stato o di Enti locali: Non solamente questa è una presenza della mano pubblica molto alta in comparti di mercato (poiché realizzati e gestiti da SpA quotate) ma comporta, secondo l’IBL, “gravosi impegni” afferenti ad una “fitta rete di partecipazioni” in una vasta gamma di settori economici, in gran misura direttamente di mercato. Una strategia di privatizzazioni, dunque, deve mirare ad una migliore ripartizione di compiti tra pubblico e privato.Nel nostro Paese, la crisi finanziaria ha morso meno che altrove (in buona misura, a ragione della relativa arretratezza del sistema bancario e finanziario e della più cogente regolazione vigilanza sugli intermediari che altrove), ma il rallentamento economico si annuncia lungo e pesante ed i margini di manovra di finanza pubblica sono molto limitati .
In questo quadro, questo capitolo esamina i pochi spiragli per la politica di privatizzazioni che si sono colti in Italia nel 2008. Gli spiragli sono stati pochi. In analogia con il Rapporto dello scorso anno (Società Libera, 2008), il capitolo analizza tre aspetti: il completamento della privatizzazione di Alitalia, i tentativi di privatizzazione dei servizi pubblici locali e alcune privatizzazioni relativamente modeste per dimensioni ma interessanti come spiragli di una strategia (quelle di Cinecittà Studios e di Tirrenia). L’economia del capitolo pone enfasi sul completamento della privatizzazione di Alitalia; ciò è giustificato sia per l’importanza strategica e le dimensioni dell’operazione sia per le lezioni che se ne possono trarre per altre operazioni.
La sofferta privatizzazione di Alitalia Le due precedenti edizioni del “Rapporto” hanno riassunto la complessa vicenda della privatizzazione di Alitalia nel 2006 e nel 2007 (Società Libera, 2007; 2008). Il “Rapporto 2008” terminava sull’allora prevedibile ipotesi di un accordo tra Alitalia ed AirFranceKml e metteva in risalto come, a conclusione di un processo per nulla lineare (Bang, 2007), tra la fine del 2007 e l’inizio del 2008, ci fossero due aspetti di rilievo: a) se, una volta concluso il negoziato aziendale, fosse necessario il nulla osta di un Governo nel pieno dei suoi poteri ; b) il futuro dello scalo di Malpensa , un aeroporto nato con grandi aspettative ma che ha sempre lasciato a desiderare (Boeri, Boitani, 2007). Nell’ambito di questo “Rapporto” non si vogliono ricostruire le cronache del processo di privatizzazione nel 2008. Tali cronache sono commentate altrove .
Nelle prime settimane d’aprile 2008, il CdA e l’azionista di maggioranza dell’Alitalia iniziano una trattativa in esclusiva con AirFrance-Klm. Ricorsi giudiziari danno esito negativo. La proposta “definitiva e vincolante” di AirFrance-Klm è stata ben inferiore a quanto atteso sulla base dell’offerta preliminare di tre mesi prima: l’offerta finale valutava il 100% delle azioni di Alitalia- Linee Aeree SpA a circa 140 milioni di euro, accettava di comprare i bond convertibili per circa 610 milioni di euro e prevedeva una ricapitalizzazione per un miliardo di euro. Sarebbero risultati in “esubero” oltre un quarto dei dipendenti della capogruppo e delle SpA “in-house” ad essa facenti capo. Mentre CdA e azionista di maggioranza sostenevano, libri alla mano, che o si sarebbero celebrate le nozze tra Alitalia e AirFranceKlm oppure Alitalia avrebbe dovuto fare ricorso ad una procedura fallimentare, i sindacati (senza il cui assenso AirFrance-Klm non avrebbe azzardato un accordo), prima protestano, poi presentano un contro-piano e, al rigetto sdegnato della controparte, si dividono in vari gruppi in rissa tra loro. Il leader dell’opposizione invoca altri possibili interessati a farsi avanti. Una società di consulenza di Milano si mette al lavoro per individuare un’alternativa a AirFrance-Klm. Presumibilmente, si pensava, ci vuole un partner industriale straniero (ma il più probabile, Lufthansa, aveva fatto sapere che non intendeva avere a che fare con uno dei potenziali partner italiani). In ogni caso, a metà aprile, tre elementi apparivano assodati: a) la necessità di tempi tecnici per studiare la documentazione e preparare una propria proposta (e dubbi giuridici sulla possibilità di aprire una nuova trattativa ove, preliminarmente, quella con AirFrance-Klm non fosse formalmente chiusa); b) una situazione posizionale ed informativa di AirFrance-Klm molto più solida di quella dei settori del sindacato che si opponevano all’accordo e di altri potenziali partner stranieri; b) la crescenti difficoltà di liquidità d’Alitalia, aggravate dal forte calo delle prenotazioni a ragione dell’incertezza sul futuro dell’azienda. Il Governo Prodi approvava, in uno degli ultimi CdM prima delle elezioni, un “prestito-ponte” a condizioni di mercato ed il Governo Berlusconi, appena insediato, poneva “la questione Alitalia” (ossia della privatizzazione della compagnia) tra le priorità.
Il “prestito ponte” era approvato speditamente e dal Parlamento e dalle autorità europee. Il 28 giugno all’assemblea della SpA veniva presentata una relazione sconfortante : il bilancio consuntivo al 31 dicembre 2007 mostrava una crescita di 15 punti percentuali dell’indebitamento con un’esposizione sempre più acuta nei confronti dei fornitori e delle banche (Alitalia, 2008). Contemporaneamente, giungevano sulla stampa internazionale (ed italiana) analisi scoraggianti in materia degli effetti della crisi finanziaria ed economica mondiale sul trasporto aereo mondiale: una flessione del 12% prevista per il 2008 rispetto ai livelli del 2007 e, quindi, un accentuarsi del consolidamento – in Europa in gran misura già completato dal raggruppamento del trasporto aereo in tre poli (AirFrance-Klm, Lufthansa, British Airways), ciascuno in fase di complemento d’alleanze o d’acquisizioni, contornato di una rosa di compagnie “low cost” (Pavaux, 2008). In questo quadro, Il CdA di Alitalia e l’amministratore delegato rassegnavano le dimissioni. Ai primi di luglio, la svolta: l’annuncio di una “New Co” in formazione (avrebbe preso il nome di Cai – Compagnia aerea italiana) dove concentrare le attività dell’ex- compagnia di bandiera con potenziale di risanamento e di sviluppo e della liquidazione delle altre attività dell’ Alitalia- Linee Aeree SpA.
A fine agosto viene presentata la soluzione proposta dal Governo per sciogliere nodi ormai decennali (Consiglio dei Ministri, 2008). Le caratteristiche essenziali dell’operazione sono la privatizzazione delle parti potenzialmente redditizie di quella che fu la compagnia di bandiera tramite la cessione della partecipazione maggioritaria dello Stato ad una ventina d’imprese italiane, la soluzione dei problemi finanziari ed industriali di AirOne (la cui flotta, i cui slots ed il cui personale vengono ceduti alla nuova compagnia), una serie di garanzie per gli investitori (sia le imprese coinvolte nella nuova intrapresa, sia i detentori dei bonds convertibili, sia i piccoli azionisti), ammortizzatori sociali per i lavoratori in esubero (allora stimati in 7000), la creazione di una “bad company” da commissariare per liquidare le attività in perdita strutturale). L’operazione richiede modifiche sia della normativa sul commissariamento delle aziende in crisi sia deroghe alle leggi anti-trust.
Il nuovo Esecutivo si trovava ad un bivio: o una soluzione (per quanto complessa) come l’attuale (e le sue possibili varianti) o il fallimento di Alitalia. La seconda avrebbe rappresentato la perdita di almeno 20.000 posti di lavoro ed avrebbe comportato un percorso ancora più difficile per individuare investitori (italiani e stranieri) e forse trascinato con sé anche AirOne e Meridiana.
Tra i tanti metodi per analizzare la soluzione scelta, il più semplice è quello dell’analisi costi-benefici. Non avendo a disposizione dati sui flussi di cassa delle varie alternative progettuali non si può fare che un’analisi qualitativa. Non esiste un’unica tipologia d’analisi costi benefici ma almeno tre (cambiano obiettivi dell’analisi, voci contabili, valori) (Pennisi, Scandizzo, 2003). In primo luogo, l’analisi costi-benefici “politica” esamina il problema dal punto dei politici ed utilizza come unità di misura i voti. E’ indubbio che la soluzione prescelta comporti benefici cospicui alla maggioranza che può affermare di avere trovato un modo per superare il vicolo cieco, di avere promosso tanto la privatizzazione (pure se in condizione di monopolio tecnico) quanto l’italianità della compagnia, di avere già individuato un partner industriale internazione e di avere minimizzato gli esuberi complessivi. Unica critica seria quella di Andrea Boitani e Carlo Scarpa (Boitani-Scarpa, 2008); in essa si enfatizzano, correttamente, i rischi che si socializzino i costi e si privatizzino i benefici, nonché quelli della posizione dominante sulla tratta Roma-Milano sino al pieno funzionamento dell’alta velocità ferroviaria.
In secondo luogo, ai rilievi di Boitani e Scarpa (analoghi a quelli formulati il da Francesco Gavazzi- Giavazzi 2008) può dare una risposta l’analisi costi-benefici finanziaria. In tale analisi, le voci contabili sono quelle della normativa in vigore per la finanza aziendale ed i valori sono i prezzi di mercato. I soggetti sono , in forma stilizzata: a) le imprese che investono nella nuova compagnia; b) i creditori delle ex-Alitalia ed AirOne; c) i lavoratori che resteranno nella nuova compagnia e quelli che verranno dichiarati in esubero ; d) i contribuenti ed, infine, e) l’Ue. A prima vista, e nelle dichiarazioni ufficiali, ci guadagnerebbero tutti. Ciascuno, però, ha obiettivi e libri contabili differenti. I ricavi di ciascuno possono rappresentare perdite per qualcuno degli altri. Il costo reputazionale è in ballo soprattutto per l’Ue e le sue regole in materia d’aiuti di stato e d’antitrust. I costi finanziari in palio sono in capo (come sempre) ai contribuenti. Le imprese investitrici sanno che non vedranno un utile per tre-cinque anni. Salvaguardie sono previste per i piccoli azionisti e detentori d’obbligazioni. Per i lavoratori è prevista cassa integrazione straordinaria e mobilità lunga per accompagnare molti di loro fino alla pensione. Parte saranno finanziate con fondi già in essere nel bilancio dello Stato (ma destinati ad altri scopi). Una proporzione non indifferente finirà a carico dei contribuenti. A questo nodo si riferiscono Boitani, Giavazzi e Scarpa quando parlano della “socializzazione delle perdite”. E’ un “rischio calcolato” nella consapevolezza che l’alternativa (il fallimento) sarebbe stata più onerosa per tutti. Un’analisi costi benefici estesa alle “opzioni reali” (ossia ai “titoli” dei vari soggetti, alle loro “facoltà”, non “obbligo”, di decidere in un modo o nell’altro) e l’utilizzazione di strumenti come le “simulazioni di Montecarlo” per la valutazione del rischio potrebbero permettere una comprensione migliore di questo aspetto (Pennisi, Scandizzo, 2003). Il Ministero dell’Economia e delle Finanze ha la strumentazione per effettuare tale analisi (Bezzi, 2005) ma inviti in questo senso, non hanno avuto esito (Pennisi, 2008).
Ed il vulnus reputazionale per l’Ue? La valutazione compete agli organi dell’Unione- in primo luogo alla Commissione Europea. Non sono mancati casi, anche recenti, in cui l’Ue ha consentito deroghe più o implicite (in megafusioni francesi e nello stesso accordo che ha dato vita a AirFrance-Klm). La Commissione Europea ha valutato con ponderazione questi rischi ed approvato l’operazione.
Più complessa, l’analisi dei costi e dei benefici economici e sociali. Entrano in ballo gli obiettivi (di crescita e di distribuzione del reddito) dell’Italia in quanto collettività di uomini, donne, famiglie, imprese, Stato. Si deve dare un valore a voci come la capacità tecnologica, alla maggiore ed alla minore autonomia nei cieli, all’internazionalizzazione, all’occupazione produttiva, alla coesione sociale. Non è impossibile effettuare tale analisi; ci sono le professionalità, ma richiede tempo e risorse finanziarie. A prima vista sembra che le somme (quanto tirate) possono essere positive.
• Da settembre, è iniziata una lunga e complessa trattativa con i sindacati, con interventi del Governo per mediare. A fine 2008, si è giunti ad un accordo. La Cai, che nel frattempo riprendeva il nome ed il logo di Alitalia, era pronta al decollo, in programma il 13 gennaio. Sono stati contrappuntati dalle resistenze corporative di categorie che hanno sempre visto come la funzione di Alitalia non fosse il trasporto aereo ma la tutela di diritti (e privilegi) dei propri dipendenti. Ciò ha fatto perdere punti alla compagnia in una fase in cui la crisi ha reso la concorrenza più agguerrita. Nei primi 11 mesi del 2008, il traffico aereo europeo ha subito una flessione complessiva dell’1% (ma ben del 9% se si raffronta il novembre dell’anno che sta per terminare con il novembre 2007). Molte compagnie hanno perso quote del mercato mondiale: quella dell’Alitalia ha subito un tracollo del 47,5% : dal 6,4% nel novembre 2007 al 3,4% nel novembre 2008- mentre Lufthansa, AirFrance-Klm, e British Airways ne hanno guadagnate rispettivamente del 4,5%, dell’1,2% e dell’1,5%. La nuova compagnia parte indebolita .
Le informazioni sulle rotte in vigore dal 13 gennaio, mostrano un triangolo: Roma, Milano, Catania. Le sei “basi regionali” hanno una valenza amministrativa e tecnica, ma, sotto il profilo della strategia a lungo termine, i punti-chiave sono tre: Roma, Milano e Catania. Tutti gli altri scali perdono qualcosa mentre Roma, Milano e Catania qualcosa guadagnano. Fiumicino diventa il vero hub per rotte internazionali ed intercontinentali. Catania mantiene tutte le 138 frequenze settimanali del vecchio piano operativo (a spese di Palermo, Bari, Palermo e Lamezia) e diventa il ponte verso il Medio Oriente, l’Africa ed anche l’Estremo Oriente (per percorsi differenti da quello polare). Milano perde sull’intercontinentale a Malpensa ma Linate mantiene una posizione strategica ed, anzi, l’accresce. Da quando è stato progettato l’aeroporto nei pressi di Busto Arsizio, gli amministratori della Lombardia (e la stessa società civile) non hanno accettato la conseguenza logica: ridimensionare Linate destinando lo scalo ai voli su e da Roma ed al “low cost”. Hanno, invece, tentato di alzarlo di categoria: farlo diventare un “Milan City Airport”, analogo al National Airport sulle rive del Potomac ad un quarto d’ora di taxi dalla Casa Bianca e dal Campidoglio di Washington. Il vero scontro, si badi bene, non è mai stato tanto tra Malpensa e Fiumicino quanto tra il partito favorevole allo scalo nel varesino e quello della promozione di Linate ad un rango più elevato nella famiglia degli aeroporti. Le tensioni tra i sostenitori di Malpensa (allora allo stadio di progetto) e quelli del “Milan City Airport”, hanno messo in fuga gli olandesi di Klm – pronti a pagare una penale ad Alitalia ed a gettarsi nelle braccia di AirFrance . Dopo la creazione della Lufthansa Italia (nell’autunno 2008) con collegamenti tra Malpensa a numerose città europee e, quindi, all’intercontinentale, è chiaro che il partito del “Milan City Airport” ha avuto (per ora) il sopravvento e che la nuova Alitalia guarda altrove. Pur se non si possono escludere cambiamenti , anche drastici, di strategia.
La geografia delle rotte e l’accordo concluso con AirFrance-Klm il 9 gennaio 2009 mostrano che Fiumicino diventerebbe una punta più importante delle altre due punte italiane: le altre due sono Charles de Gaulle a Roissy (nei pressi di Parigi) e Schiphol (alle porte d’Amsterdam). AirFranceKlm ha il 25% delle azioni della nuova azienda, diventando in pratica l’azionista di riferimento, con tre componenti del CdA (e due nel comitato esecutivo). Non si sa che alcuni soci italiani stanno negoziando un patto parasociale con AirFranceKlm per dare un “nocciolo duro” all’impresa o se invece si stanno coalizzando tra di loro (sempre tramite un patto parasociale) per mantenere una maggioranza italiana o comunque un contrappeso ai franco-olandesi.
Ciò vuol dire che si torna alla situazione dei primi mesi del 2008 quando AirFrance-Klm stava per acquisire Alitalia? Oppure che AirFrance-Klm acquisisce il controllo della compagnia nel gennaio 2009 ad un costo inferiore a quello che era disposta a pagare nell’aprile 2008? E’ difficile valutarlo.
Una chiosa finale. Quella di Alitalia è senza alcun dubbio una “delayed privatization”, “una privatizzazione ritardata”, che si sarebbe dovuta portare a termine almeno tre lustri prima della sua conclusione. Un’analisi del servizio studi della Banca d’Italia passa in rassegna le denazionalizzazioni in 21 Paesi ad alto reddito medio di grandi dimensioni nel periodo 1977-2002: la frammentazione politica ostacola le decisioni relative alle privatizzazioni, specialmente quando si hanno Governi di coalizioni , composti da numerosi partiti, e sistemi elettorali proporzionali. La vicenda Alitalia conferma questo risultato; per renderla possibile, la SpA doveva essere boccheggiante ed il sistema politico semplificato. Ciò è molto più pertinente, al fine delle altre privatizzazioni da realizzare in Italia, che vagheggiare scenari controfattuali su cosa sarebbe potuto avvenire se ….. Un campo in cui gli economisti non solo particolarmente ferrati.
La saga dei servizi pubblici locali Nei due “Rapporti” precedenti di Società Libera (Società Libera, 2008 e 2007) è stato esaminato lo sviluppo di un vero e proprio “capitalismo municipale” (Bianco e Sestito, 2007) ed i tentativi effettuati dal Governo in carica nel 2006-2007 per giungerne ad una privatizzazione, almeno parziale. Tali tentativi, non sono andati in porto, principalmente a ragione della forte opposizione sia a livello locale – ossia dai titolari del “capitalismo municipale” – sia di settori della stessa coalizione di maggioranza. Anzi, sono sorte nuove “utility” plurifunzionali e di grandi dimensioni, come A2A, di cui vari Comuni hanno la maggioranza azionaria.
La privatizzazione dei servizi pubblici locali era presente nei programmi elettorali con i quali l’attuale maggioranza si è presentata al corpo elettorale. Rientrava nelle “sette missioni” del Governo ma non con la priorità anche temporale d’altri aspetti del programma. Occorre rilevare che ciò corrispondeva, in linea di massima, agli umori della società civile quali rilevati dal barometro di uno dei più noti centri d’analisi sociologica (Censis, 2008) Era, in ogni caso, una riforma da essere realizzata successivamente al varo del federalismo, se non altro perché di competenza di enti (principalmente i Comuni) già dotati di un vasto grado di autonomia, destinato a crescere ulteriormente nell’ambito del progettato nuovo assetto federale dell’Italia.
Ciò nonostante, quasi di soppiatto (tramite un emendamento al disegno di legge di conversione del decreto sulle misure urgenti per l’economia varato poche settimane dopo l’insediamento del nuovo Esecutivo) è stata realizzata quella che alcuni organi di stampa hanno chiamato “una privatizzazione silenziosa” . In effetti, anche se la norma definitivamente approvata (art. 23 bis della Legge 133/2008) non contiene nessuna privatizzazione specifica, essa fornisce un grimaldello (ed un percorso) per privatizzare i servizi pubblici locali. Contiene l’indicazione di una scelta in favore della modalità di selezione del gestore del servizio a seguito dell’espletamento di “procedure competitive ad evidenza pubblica”. In deroga a tale modalità ordinaria di affidamento di servizi pubblici, in relazione a fattispecie che, “a causa di peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento, non permettono un efficace e utile ricorso al mercato”, “l'affidamento può avvenire nel rispetto dei principi della disciplina comunitaria”. Le espressioni sono piuttosto generiche. Ciò non rende agevole ricondurre la fattispecie della SpA mista pubblico-privata nell'ambito della modalità ordinaria o eccezionale di affidamento. Tuttavia, anche alla luce di prime indicazioni (ad esempio, la comunicazione del 16 ottobre 2008 dell'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato), si lascia preferire l'interpretazione che tende a ricondurre SpA mista nell'ambito di “procedure competitive ad evidenza pubblica”, sempre che la scelta del socio privato sia fatta in ragione del servizio oggetto d’affidamento, secondo il modello della cosiddetta gara "a doppio oggetto" Tra le modalità eccezionali rientra, invece, l'affidamento a società "in house". E’ senza dubbio auspicabile un chiarimento - ad esempio una legge interpretativa -, per rendere univoca l'interpretazione.
Per entrare nella sostanza del problema occorre chiedersi se ci sono le condizioni economiche e sociali per utilizzare il grimaldello. Gli ostacoli alla privatizzazione dei servizi pubblici locali riposano in gran misura sull’argomento che la privatizzazione rischia di rendere tali servizi (specialmente quelli scarsi come l’acqua) poco accessibili alle fasce più basse di reddito e di consumi. Un’analisi di varie università Usa, basata principalmente sulle privatizzazioni di servizi pubblici locali in America Latina, afferma che questa “credenza” è “propaganda lontana dalla realtà (Di Tella, Galiani, Schargrodsky, 2008). Due analisi puntuali relative specificatamente all’Italia (Miniaci, Scarpa, Valbonesi, a) e b), 2008) esaminano la spesa delle famiglie nel 1998-2002 sulla base dell’Indagine Istat sui Consumi delle Famiglie; concludono che le riforme già introdotte nel settore dei servizi di pubblica utilità (specialmente in materia di acqua e di energia), e delle tariffe ad essi attinenti, non hanno gravato sui ceti deboli.
Non solamente il percorso sarà verosimilmente lungo ma resta il dilemma se è prioritario privatizzare o liberalizzare. Una privatizzazione senza liberalizzazione consente ai nuovi titolari dell’impresa di servizio pubblico di catturare rendite di posizione. In molti casi, la liberalizzazione non solo deve precedere ma è un’efficace alternativa alla privatizzazione (Shaij, 2008). Questa scuola di pensiero ha una propria base analitica esperienza, e nell’esperienza Ocse (di recente rivisitata in uno studio della Banca d’Italia- Barone, Cingano, 2008) ed in quella dell’Ue nonché in valutazioni effettuate da singoli Paesi ed in una rassegna recente commissionata dalla Verlag Bertelsmann Stiftung (Frick, Ernst 2008; National Normenkontrollat, 2008). Per la politica economica, dunque, la liberalizzazione deve avere la priorità (almeno in termini di scansione temporale).
Altre privatizzazioni Tra le altre privatizzazioni del 2008, senza avere la pretesa di fare una rassegna esaustiva, significative quelle di Cinecittà Studios SpA e della Tirrenia. Cinecittà Studios ha un capitale sociale è 35 milione di euro. La procedura è stata iniziata dalla capogruppo, Cinecittà Holding, una SpA a intero capitale pubblico che controlla, oltre agli studi, anche altri aspetti della cinematografia, con una richiesta di manifestazione d’interesse per pacchetti d’azioni dell’impresa. La denazionalizzazione è parte di un progetto più ampio con la creazione di un Centro Nazionale per la Cinematografia dove concentrare le attività a carattere non commerciale (cineteca nazionale, centro sperimentale) del settore (Mele, 2008). Lo Stato si disimpegnerebbe da quelle chiaramente industriali e commerciali, pure da quella Cinecittà il cui nome è un’icona per la storia dell’arte cinematografica non solo in Italia ma nel mondo. Ora Cinecittà, o più precisamente i suoi studi cinematografici, dovranno competere sul mercato internazionale. Potranno fruire come unico incentivo di sgravi tributari approvati con la legge finanziaria 2008 ed assolutamente in linea con la normativa europea. Molti imprenditori del campo sono pronti a rispondere positivamente all’invito ed a manifestare il proprio interesse; si parla, tra i potenziali concorrenti, dei Gruppi Abete e Della Valle, Aurelio De Laurentis e Haggiag.
Non è questa la sede per entrare negli aspetti tecnici. Sono importanti le dimensioni di politica economica, tenendo presente il vecchio detto in cui si comprende meglio un bosco studiandone un albero che ammirandone una foto digitale presa da un elicottero. La privatizzazione di Cinecittà Studios in una fase di grave crisi internazionale vuol dire che la politica economica italiana riesce a tenere la barra ritta: evitare di trasgredire le regole europee ma portare avanti il programma di liberalizzazionii. E’ anche prova di vitalità dell’industria della creatività (di cui il cinema è un comparto importante), spesso data per morta e seppellita oppure con le mani tese alla ricerca dell’obolo dei contribuenti.
Altra privatizzazione di cui parlano unicamente gli “addetti ai lavori” e la loro stampa specializzata è quella della Tirrenia (de Fourcade, 2008). E’ un altro caso di “delayed privatization” (Bortolotti, Pinotti 2008) al pari di quello dell’Alitalia. E’ strategicamente importante che, proprio mentre infuria la crisi dei mercati, il Governo abbia ripreso in mano un “dossier” (che sembrava destinato a raccogliere centimetri di polvere), e che la Fintecna, la holding a cui Tirrenia fa capo, abbia avviato la gara per la scelta dell’advisor.
Conclusioni A livello internazionale, il gran rientro in scena delle società a partecipazione statale, anticipato nei precedenti “Rapporti” (Società Libera, 2007 e 2008), si è rafforzato nel periodo preso in esame. Non è possibile affermare se si tratta di un fenomeno temporaneo, connesso ad una crisi finanziaria ed ad una recessione tali di esaurirsi nell’arco di pochi anni, oppure di una tendenza a più lungo termine determinata dal declino del tasso di profitto e dall’esigenza di un intervento pubblico pregnante (e di una più chiara ripartizione tra questi ed il privato). L’Italia sta subendo, come il resto del mondo, degli effetti della crisi, ma è riuscita a trovare alcuni spiragli che hanno portato alla sofferta privatizzazione di Alitalia, alla normazione di una procedura per la privatizzazione (almeno parziale) dei servizi pubblici locali e per l’avvio di alcune privatizzazioni strategiche.
Resta ancora da fare. E’ difficile, però, pensare che nell’attuale situazione dei mercati internazionali, si possa progettare la privatizzazione di Eni, Enel, Poste, Finmeccanica, Ferrovie , sempre che non si consideri tale l’eventuale cessione di quote azionarie dallo Stato italiani a Stati dell’Estremo e del Medio Oriente tramite “fondi sovrani” (Chahaochharia V., Laeven L, 2008).
Un campo sul quale l’attenzione, a livello nazionale, è relativamente poca è quello delle dismissioni del patrimonio immobiliare dei Comuni; nonostante la semplificazione dell’iter, a fine 2008 le alienazioni erano in netto calo rispetto a 12 mesi prima. Ci sono ragioni giuridiche: un complicato contenzioso tra Comuni e alcune Regioni (e l’attesa che sia risolto dalla Corte Costituzionale). C’è anche la ricerca di nuove modalità di gestione da parte dell’azionista pubblica). C’è il calo di potere d’acquisto delle famiglie, sia effettivo sia temuto per il protrarsi ed aggravarsi della crisi finanziaria ed economica e la possibilità perdite di occupazione e, quindi, di reddito. L’evoluzione nel 2009 verrà seguita con attenzione nel prossimo “Rapporto”.
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* Professore emerito alla Scuola superiore della pubblica amministrazione, professore all’Università Europea di Roma ed all’Università di Malta
BIBLIOGRAFIA
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