Lo Stato sociale (ossia, previdenza e sanità pubbliche, politiche attive del lavoro, ammortizzatori nei confronti della disoccupazione involontaria, servizi e assistenza sociale) potranno sopravvivere alla post-globalizzazione? È un interrogativo, che legittimamente e giustificatamene, molti si pongono in queste settimane in cui, per parafare il presidente Usa Barack Obama, si intravedono “barlumi” di uscita (tra un anno circa) dalla crisi economica e finanziaria che travaglia l’economia internazionale. Una domanda analoga veniva posta alcuni anni fa, allora ci si chiedeva se lo stato sociale potesse sopravvivere alla globalizzazione.
Per lustri si sono confrontate due visioni: una “difensiva”, secondo cui (rispetto all’integrazione economica internazionale) si sarebbero dovuti difendere alcuni “diritti quesiti” di base dello Stato sociale; una “propositiva”, o, in alcune dizioni “aggressiva”, secondo cui chi ha a cuore le fasce deboli avrebbe dovuto trovare percorsi, strumenti e istituti atti a far sì che chi si trovava ai livelli più bassi di reddito e di consumo traesse i maggiori vantaggi dall’integrazione economica internazionale. All’inizio degli Anni Novanta, la stessa conferenza dell’Organizzazione internazionale del lavoro spezzò una lancia a favore di una “concertazione” “positiva” o “aggressiva” – quella da me preferita anche per il principio molto banale secondo cui in un mondo in cui tutti corrono, camminare vuol dire stare fermi e remare contro-vento è la premessa per andare a picco.
Le due visioni dei nessi tra post-globalizzazione e stato sociale sono stati di recente messi a fuoco in un dibattito internazionale che ha visto schierati, da un lato, Has-Werne Sinn (uno dei più autorevoli economisti tedeschi) e, dall’altro, Dennis Snower, Alessio Brown, e Christian Merkel, i quali, nonostante le loro differenti origini lavorano presso università ed istituti di ricerca della Repubblica federale. Un dibattito, quindi, tra esperti differenti ma tutti plasmati dalla cultura dell’economia sociale di mercato. In sintesi, Sinn vede l’integrazione economica internazionale (anche rallentata dalla crisi o frenata da contraccolpi) come un processo di specializzazione in cui aumentano le differenze di reddito sia verticalmente (tra livelli più altri e più bassi di professionalità) sia orizzontalmente (tra aree geografiche); lo Stato sociale rende (ai paesi che ne applicano uno estensivo) più costoso partecipare all’integrazione internazionale. Si verifica un vero e proprio”bazar” (è suo il termine) in cui imprese, e anche individui e famiglie, possono scegliere la tipologia di stato sociale che meglio confà a ciascuno: la delocalizzazione e la “fiera delle tasse” (per mutuare il titolo di un libro di Giulio Tremonti di una decina di anni fa) sono esempi di questo “bazar” in cui si può essere vincenti unicamente con una minore pressione tributaria, con sindacati più consapevoli delle implicazioni dell’internazionalizzazione e con orari di lavoro effettivi più lunghi. In breve, una strategia “difensiva”.
Contrapposta la visione di Snower, Brown e Merkel: la chiamano “una grande riorganizzazione”. Partono dalla considerazione secondo cui dalla metà degli Anni Novanta, gli imprenditori hanno preso progressivamente contezza del nesso tra nuove tecnologie, sistemi di logistica e opportunità commerciali. La produzione e la distribuzione si stanno riorganizzando profondamente puntando su tre caratteristiche: a) la scomposizione geografica della catena del valore; b) l’importanza crescente delle relazioni interpersonali e c) la sempre maggiore eterogeneità, versatilità e flessibilità del lavoro. Ciò rischia di creare una nuova categoria di “perdenti” se lo Stato sociale non viene ripensato, e riorganizzato, per tenere adeguatamente in conto le nuove caratteristiche di produzione e di distribuzione. Ciò comporta uno Stato forte e autorevole che dia a lavoratori e fasce deboli gli strumenti per diventare essi stessi i vincitori ogni qual volta aumentano le probabilità che diventino i perdenti. Ciò implica un drastico cambiamento di paradigma: nello Stato sociale tradizionale degli ultimi cinque decenni, le professionalità vengono definite e classificate e il ruolo dello Stato è quello di tutelarle (con stabilizzatori automatici) al verificarsi di shock, mentre in quello del futuro lo Stato ha il compito di rendere gli individui adattabili e versatili in modo che possano essere i protagonisti del processo di trasformazione.
Snower, Brown e Merkel delineano meccanismi specifici (“welfare accounts”, “vouchers di supporto sociale”, e “benefit transfers”, trasferimenti di benefici in grado di ridistribuire gli incentivi a favore dei meno avvantaggiati). Alcuni di questi meccanismi hanno trovato, in varie forme e guise, terreno d’applicazione, almeno parziale, in Italia: il sistema previdenziale contributivo, la social card, la vasta gamma di rapporti di lavoro previsti dalle legge Biagi, il riordino della formazione professionale con accento sul life-long learning.
Una concezione avveniristica dello “Stato sociale” del futuro? Probabilmente sì. Almeno sino a quando la macchina amministrativa non si pone in grado di fare fronte alla sfida. Tuttavia, ha due aspetti che meritano di essere sottolineati: a) massimizza l’apporto che le nuove tecnologie della comunicazione e dell’informazione possono dare allo stato sociale; b) esalta, al tempo stesso, il ruolo e dell’individuo (a cui lo Stato deve offrire una gamma di opportunità) e dello Stato (che deve cogliere nell’integrazione economica internazionale l’opportunità per nuovi compiti più innovativi e meno burocratici di quelli del passato). Merita, quindi, un dibattito approfondito.
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