sabato 4 aprile 2009

KORNGOLD E QUELLA “CITTA’ MORTA” CHE (S)VELA IL TRIONFO DELLA VITA, Il Domenicale del 4 aprile

KORNGOLD E QUELLA “CITTA’ MORTA” CHE (S)VELA IL TRIONFO DELLA VITA

Die Tode Stadt (“La città morta) di Erich Wolfang Korngold sarà in scena al Teatro Massimo di Palermo dal 16 al 23 aprile in un allestimento di Pier Lugi Pizzi che ha debuttato a Venezia a fine gennaio. Quasi in parallelo Die Tode Stadt è al Covent Garden di Londra nella messa in scena curata da Willy Decker per il Festival di Salisburgo del 2004 e che da allora è entrata in repertorio alla Staatsoper di Vienna ed è stata vista in numerosi altri importanti teatri europei (quali Barcellona e Madrid). Altri allestimenti recenti si possono vedere in teatri tedeschi, americani e dell’Europa centrale.
Come mai una tale diffusione di un lavoro pressoché unico di un compositore che aveva appena compiuto 23 anni all’epoca del debutto mondiale (che avvenne, in grande spolvero, contemporaneamente a Amburgo ed a Colonia il 4 dicembre 1920 poiché il potentissimo Richard Strauss, in polemica con il padre del giovane autore -Julius Korngold, uno dei più influenti critici musicali - aveva sbarrato le porte dell’Opera di Vienna a cui era destinata)? Il “Dom” ha già trattato del dramma in musica di Korngold il 18 marzo 2006 (Matteo, per cortesia verifica l’esattezza della data) in occasione della prima tornata delle rappresentazioni viennesi nell’allestimento di Decker (da allora, nella capitale austriaca, viene ripreso ogni anno) che, per pura coincidenza, avvenivano in parallelo con una mostra di ben 600 opere di Egon Schiele, il pittore “maledetto” che fu uno dei protagonisti della “Secessione”, il movimento artistico che all’inizio del Novecento partì dall’Austria per influenzare numerosi Paesi europei. Allora concludevo chiedendo: “Qualche riferimento anche per noi? Tra Schiele che tra le sue ossessioni viene portato via dalla spagnola ed il Paul di Korngold che volta le spalle alle medesime ossessioni per andare dalla “città morta” al “trionfo della vita”, c’è una scelta netta. Su cui riflettere in questo primo scorcio di 21simo secolo che ha tante assonanze con quello di cento anni fa.”
Oggi i riferimenti sono molto più evidenti di quanto non lo fossero tre anni fa. E su di essi vale la pena soffermarsi sotto il profilo socio-economico non solamente musicologico. E’ tanto più necessario poiché il principale periodico italiano di musica lirica (L’Opera) , nel recensire il debutto dell’allestimento di Pizzi, ha scritto che dall’inizio degli Anni Trenta il lavoro è virtualmente sparito in quanto “retrospettivo e passatista”. Occorre precisare che il lavoro è sparito negli Anni Trenta (e nella prima parte degli Anni Quaranta) in quanto considerato “musica degenerata” dal regime nazista; Korngold, emigrato in America e diventato uno dei più acclamati autori di musica da film (vincitore di ben due Oscar) , non riuscì a farlo rappresentare negli Usa in quanto giudicato “osceno” (al pari del “Wozzeck” di Berg e de “Il re di Candaule” di Zemlinsky ). L’opera, però, riprese il proprio cammino in Germania (sia dell’Ovest sia dell’Est) sin dall’inizio degli Anni Cinquanta. Frequentemente rappresentata in molti Paesi dell’Europa centrale ed orientale (ad esempio a Budapest), entrò negli Anni 70 nel repertorio della New York City Opera (ossia quasi ogni anno c’era una ripresa al Lincoln Center) ; con le tournée annuali della City Opera viaggiò per tutti gli Stati Uniti (la vidi all’Opera House del Kennedy Center di Washington) anche perché diventata un “cavallo di battaglia” di due “divi” della lirica degli Anni 70, René Kollo e Carol Neblett. Scarse- le sue fortune in Italia: la “prima “ italiana risale al 1996, quando inaugurò la stagione del “Massimo Bellini “ di Catania in un’edizione che puntava sull’erotismo decadente; dopo pochi mesi, nell’estate 1997, era il titolo principale del Festival dei Due Mondi a Spoleto in una messa in scena ispirata a “La donna che visse due volte” di Hitchcock (che non centrava il cuore del lavoro). Non sono mancate edizioni discografiche di pregio (quali quelle dirette da Erich Leinsdorf, da Leif Segerstam e da Donald Runnicles) in commercio.

Tratto da un romanzo (Bruges, la morte) di fine Ottocento di Georges Rodembach, in tre atti (inizialmente sarebbe dovuta essere un atto unico) il lavoro è imperniato sulla visione onirica di un giovane vedovo, Paul, che, a Bruges (“La città morta”), vive solo nella contemplazione della moglie deceduta, del suo ritratto, delle sue trecce. Al suo migliore amico (Franz) che vuole scuoterlo , racconta di avere incontrato una donna fisicamente identica alla morta (da qui il riferimento a Hitchcock); ne consegue una lunga visione (due terzi dell’opera), tra sogno e realtà, fortemente erotica (da feticismo, a onanismo, a sesso di gruppo) sino allo snodo finale: Paul strangola, nel sogno, la ragazza con le trecce della moglie defunta, ed al risveglio lascia “Die tode Stadt”. Il titolo originario a cui Korngold aveva pensato puntava su questa conclusione positiva: “Il trionfo della vita”.
Occorre chiedersi cosa è e cosa vuole dire Bruges “la città morta”. Non è un luogo od un’epoca puntuale come spesso indicato dalla critica, facendo riferimento al romanzo di Rodembach – si vedano, per restare in Italia, i saggi di Elvio Giudici e di Mario Tedeschi Turco. Indubbiamente, il decadentismo erotico della fine della prima grande globalizzazione (1870-1910) incisero non poco sul giovane Korngold. “Bruges”-. se rappresenta un luogo- non è la città del Belgio ma – come ha scritto di recente Eduardo Bernarroch commentando le rappresentazioni londinesi – la Vienna sconfitta del primo dopo-guerra dove l’atmosfera era dominata dalla caduta della dinastia degli Asburgo. E’ uno stato dello spirito – quello della fine d’un’epoca e dei tratti ancora incerti di quella che sta venendo. E’ una “città morta” (che si conclude, però, con “il trionfo della vita”) perché si è in mezzo ad un guado: si è lasciata la vecchia sponda, ormai sparita tra notte e nebbia, ma non si scorge ancora il nuovo approdo).

La scrittura orchestrale richiede un grande organico ed un ensemble ridotto in scena, nonché una macchina per il vento. Viene utilizzata ogni possibile sfumatura timbrica. La tonalità in Fa diesis maggiore si sviluppa in una serie di modulazioni continue, unitamente ad una serie di accordi paralleli ed il “ripieno tonale” appreso da Debussy. Il centro drammatico e musicale è un “blocco”, la canzone di Marietta (Glück, das mir Verblieb) che, dando a Paul lo struggente ricordo dell’amata, collega l’inizio e la fine del sogno. Una scrittura che guarda al passato? Era tanto moderna e rivolta al futuro che sconvolse Giacomo Puccini il quale ascoltò il giovane Korngiold eseguirla al pianoforte. Secondo alcuni biografici del lucchese, l’effetto fu tale che comportò in pratica l’interruzione della composizione di “Turandot”. Non solo Richard Strauss invidiò il ragazzo Korngold per avere composto, in parallelo con lui e senza che l’uno sapesse dell’altro, una musica così affine a Die Frah ohne Schatten – il grande inno alla vita pensato nel bel mezzo della prima guerra mondiale.

L’attualità del lavoro è la determinante della sua diffusione in questo primo scorcio di 21 secolo. Oggi sembra ancora più vicino a noi di quanto non lo fosse tre anni: la crisi finanziaria ed economica internazionale – l’edizione in scena a Francoforte di “Arabella”di Strauss (come illustrato sul “Dom” del 28 febbraio ) sposta l’azione dalla fine della guerra austro-prussiana ai giorni nostri della fine della finanza a go-go- accentua il senso di “la città morta” come luogo dello spirito per chi non ha orpelli di certezze o come Paul li ha persi e nel ritrovarli scopre “il trionfo della vita”.

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