Da alcuni mesi si avvertono i segni di una contrazione non solo del commercio mondiale (per l’anno in corso l’Organizzazione mondiale del commercio, Omc, prevede una riduzione in valore del 9% dell’export globale) ma anche degli altri indicatori d’integrazione economica internazionale. Si è prosciugato il “private equity“ internazionale, in caduta a picco gli investimenti diretti all’estero, frenano anche le migrazioni. Diciassette dei 20 Paesi del G20 hanno posto barriere protezionistiche agli scambi. Tornano i controlli valutari. E’ probabile che quando, con il dovuto distacco, gli storici economici si occuperanno di questi lustri porranno probabilmente il 2008 come l’anno dell’inizio “convenzionale” della deglobalizzazione . Se ve vedono i segni concreti e si stanno corrggendo, ove non capovolgendo, le affermazioni banali sulle implicazioni (sull’economia reale) del tormentone sulle piazze finanziare e comprendere come quanto avviene, ormai da anni, sui mercati finanziari è, piuttosto, conseguenza di disfunzioni dell’economia reale. Lo dicono proprio gli esperti della moneta a dirlo: ad esempio, Paul Tucker del Monetary Policy Committee (il direttorio) della Bank of England in un saggio recente sottolinea che: a) è la prima volta che una crisi di questa portata avviene in periodo di pace; b) una delle sue determinanti è il “Social Contract” (noi lo chiameremmo giornalisticamente l’inciucio) tra banche centrali ed autorità politiche per fare fronte a problemi economici sistemici. Tale “Social Contract” ha dato priorità all’innovazione finanziaria, senza, però, definire regole congrue. Sino a quando è giunta l’implosione – una rarità in tempo di pace e dopo che, in seguito alla depressione degli Anni 30, le autorità di politica economica hanno appreso a gestire domanda aggregata con strumentazione tale, in certi casi, di consentire pure il “fine tuning” (virtuosismo).. Considerazioni simili si leggono in una raccolta di saggi, a cura di Gian Giacomo Nardozzi, in uscita per i tipi della Luiss University Press: “Asset Prices and Monetary Policy Rules: Shall we Forsake Financial Markets Stabilization?” (Prezzi delle attività economiche e regole di politica monetaria: dobbiamo rinunciare alla stabilizzazione dei mercati finanziari”?). Il titolo della raccolta è eloquente: ci induce a guardare con maggiore attenzione all’economia reale.
Anche si, per utilizzare il lessico del Presidente Usa Barack Obama, si intravedono “barlumi” di ripresa, la più recente tornata di previsioni econometriche (18 aprile 2009) non è ottimistica:i 20 maggiori centri privati di analisi macro-econometrica (non ce ne è neanche uno italiano) stimano, per l’anno in corso, contrazione del 2,7% per gli Usa, del 3,4% per l’area dell’euro, del 3,5% per la Gran Bretagna e del 6,5% per il Giappone. Lenta e graduale la ripresa ora preconizzata per 2010 (secondo stime che gli istituti stessi chiamano preliminari): 1,4% per gli Usa, 0,2% per l’area dell’euro, ,0, 3% per la Gran Bretagna e 0,4% per il Giappone. Non si tratta unicamente di dati “congiunturali”, ossia di breve periodo, una nottata intensa ma non lunga da cui, messa una pezza alla crisi finanziaria, ci si sveglierebbe e ci si rimetterebbe a correre. Un’analisi di documenti tecnici (apparentemente solo per gli “addetti ai lavori”) sul commercio internazionale evidenzia che è cambiata l’elasticità degli scambi mondiali di manufatti alle variazioni del pil: dopo essere stata, nel corso degli Anni 90, attorno a 2,5 (ossia gli scambi mondiali aumentavano di 2,5 punti percentuali quando il pil cresceva di un punto percentuale), risulta in questo primo scorcio di XXI secolo inferiore a 2 e pare tenda ad approssimarsi a 1. In parole povere, e senza tanti tecnicismi, ciò vuole dire che il meccanismo tradizionale di propagazione della crescita si sta indebolendo. E lo sta facendo molto rapidamente.
Altro indicatore di rilievo è il vero e proprio crollo degli investimenti diretti all’estero: pur tenendo conto delle scorrerie dei “fondi sovrani” dei “nouveaux riches” dell’economia mondiale, dall’inizio del secolo il flusso di investimenti diretti (non in portafoglio) all’estero è quasi dimezzato rispetto all’ultimo decennio del secolo scorso.
Dopo il fallimento della trattativa multilaterale sono in corso due tendenze piene di insidie (per l’integrazione economica internazionale) : il rafforzarsi di mercati comuni o zone di libero scambio regionali ed il moltiplicarsi di accordi commerciali bilaterali. Il pullulare di accordi bilaterali – sostiene, in un saggio fresco di stampa, Jeffrey Schott dell’Institute of International Economics – minaccia di frammentare il commercio o almeno di ingabbiarlo in una ragnatela simile ad un labirinto.
Le esperienze del passato insegnano che le de globalizzazioni, se lasciate a sé stesse, non portano nulla di buono: sono spesso state i prolegomeni di guerre di vasta entità: la prima grande deglobalizzazione 1870-1910 si chiuse con due colpi di pistola a Sarajevo. Forse, il conflitto armato risultante dalla deglobalizzazione è già iniziato; il terrorismo ed i suoi college, ormai sparsi in tutto il mondo (anche in Italia) sono le sue avanguardie. Lo avverte uno dei maggiori economisti americani, Martin Feldstein, alla guida del Comitato dei Consiglieri Economici della Casa Bianca per due Amministrazioni e Presidente (una carica elettiva quadriennale), per quattro lustri, del National Bureau of Economic Research (Nber), l’equivalente Usa di un Cnr per la disciplina economica.
Chi sono gli alleati della deglobalizzazione? Non sono certo i rumorosi “no global”. Hanno la , capaci di organizzare manifestazioni ma non di invertire tendenze. I veri alleati della deglobalizzazione sono quelli che, ai tempi del Kennedy Round (ossia nella seconda metà degli Anni Sessanta, ossia alla metà degli Anni Sessanta, Mario Casari (Università di Padova, uno dei più acuti studiosi italiani di economia internazionale dell’epoca) chiamava i ”barracuda-esperti”, sovente alti funzionari molto vicini a settori produttivi intrinsecamente protezionisti, nonché a sindacati anch’essi sempre più ostili, in sostanza, alla globalizzazione anche quando, a parole, se ne professano favorevoli. Una schiera vasta e composita che si nutre delle imperfezioni e delle disfunzioni del mercato- e delle rendite che esse comportano.
La settimana scorsa, su questo “magazine”, abbiamo ricordato come per un mercato forte, plurale e leale, è necessario uno Stato forte con regole chiare e semplici, ma rigorose. Tale Stato forte è mancato – lo sottolineano gli storici economici – quando la deglobalizzazione del primo decennio del secolo scorso ha portato alla prima guerra mondiale, le cui ferite hanno generano le seconde. Non è stato adeguatamente comprese come il progressivo indebolimento dello Stato sia stata una delle determinanti che hanno innescata la crisi in corso. Lo avverte Alberto Alesina, Preside della Facoltà di Economia dell’Università di Harvard (ed uno dei pochi italiani in odore di Nobel): sino alla metà degli Anni 80 il processo d’integrazione economica internazionale è stato pilotato da Stati forti e consapevoli dei necessari riequilibri ed ammortizzatori interni (ad esempio, l’accordo del Plaza del 1985 sui tassi di cambio e le politiche di crescita); dal dopoguerra alla metà degli Anni 80, il mondo è stato catterizzato, al tempo stesso, da una rapida crescita e da una riduzioni delle disparità tra ricchi e poveri; negli ultimi venti anni, invece, alla globalizzazione ed alla finanziarizzazione apparentemente senza regole ha corrisposto un aumento delle diseguaglianze.
Se gli Stati non intervengono a governare i processi , la deglobalizzazione minaccia una frammentazione di danni per tutti. La Storia non si ripete meccanicamente, ma chi non ne apprende le lezioni può pagare lo scotto, sempre alto, dell’ignoranza.
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