La spesa pubblica si sta dilatando a causa della crisi finanziaria ed economica internazionale. Il fenomeno riguarda principalmente Paesi come gli Stati Uniti (dove tradizionalmente il settore pubblico non ha mai superato, in tempo di pace, un terzo del pil) oppure come la Gran Bretagna e molti Paesi neocomunitari con un alto grado di “finanziarizzazione” dell’economia e l’esigenza di vasti salvataggi di banche e finanziarie. Concerne relativamente meno Paesi come la Francia e l’Italia che hanno mantenuto una struttura economica ancorata al manifatturiero ma dove le pubbliche amministrazioni intermediano oltre il 50% del pil e sono affiancate da un vasto “capitalismo municipale” (in Italia, esso comprende circa 400 imprese con oltre 200.000 addetti ed un valore aggiunto pari mediamente all’1% del pil ma tale da sfiorare in alcune Regioni il 6% del reddito prodotto in loco).
Tra interventi anti-crisi e quelli per la ricostruzione post-terremoto, c’è allora il rischio di una nuova “sprecopoli”? Probabilmente sì: Arthur Okun, non certo un liberista, amava dire che “il secchio (della spesa pubblica) è sempre bucato” e non se ne possono evitare le perdite.
Okun scriveva alla metà degli Anni Settanta. Da allora abbiamo imparato che ci sono antidoti. Non per colmare tutti i buchi del secchio, ma almeno per minimizzarne la portata. Due sono particolarmente importanti. Il primo dipende quasi interamente dalle pubbliche amministrazione. Il secondo da tutti noi.
L’antidoto “interno” è un’attenta valutazione delle operazioni di spesa pubblica, facendo ricorso a metodi di facile apprendimento e diffusione, nonché molto trasparenti, come quelli dell’analisi dei costi e dei benefici (Acb) finanziari, economici e sociali – integrati (per le partite di spesa più complesse) da analisi anche econometriche degli impatti. Di recente, una rassegna condotta dalla Brookings Institution e dall’American Enterprise Institute ha ricordato come l’obbligo di Acb per le voci di spesa pubblica introdotto nel 1982 non è stato modificato da nessun cambio della guarda alla Casa Bianca od al Congresso ed ha contribuito al miglioramento della qualità dell’azione del Governo federale. In Italia, esiste da dieci anni una norma analoga (la legge 144/1999). Occorre chiedersi quanto è applicata e quanto disattesa. Occorre pure chiedersi perché stata in pratica sospesa la formazione di addetti del settore pubblico in queste materie, nonostante che alcuni dei nostri Ministeri abbiano condotto, all’inizio di questo decennio, analisi pioneristiche in collaborazione con la Banca mondiale. Se l’antidoto resta sulla carta, il veleno non può che espandersi. Con effetti nocivi per tutto l’organismo.
L’antidoto “esterno” è costituito dal “capitale sociale” che si sviluppa associando (oggi si utilizzerebbe il termine “mettendo in rete”) il “capitale umano” di individui, famiglie ed imprese. Un quarto di secolo fa, Robert Putman (Preside della Facoltà di Scienze Politiche all’Università di Harvard) misurò le differenze di “capitale sociale” nelle regioni italiane. Studi recenti (e l’esperienza di questi giorni della risposta delle popolazioni al sisma in Abruzzo) provano che l’Italia è ricca di “capitale sociale” , anche se non suddiviso uniformemente in tutta la Penisola e spesso non adeguatamente espresso. L’associazionismo – ha scritto il Premio Nobel Douglass C. North – è il modo più efficace per fare emergere dall’ombra il “capitale sociale” e dare ad esso una funzione di vigilanza, di controllo, di premio e di sanzione nei confronti di chi a livello politico e tecnico gestisce la spesa pubblica. Incoraggiare chi ha cultura, tradizione ed esperienza di associazionismo vuol dire operare nell’interesse di tutti.
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