martedì 25 novembre 2008

SE SIEGFRIED E' COSTRETTO A RICORRERE AL VIAGRA Il Velino 25 novembre

- “Siegfried” è forse tra le opere del “Ring” wagneriano, la più difficile da allestire. E’ la più breve delle tre “giornate”, pur se con le sue tre ore e mezza, supera di gran lunga la durata del “prologo”, l’atto unico “Das Rheingold”. Comporta una complicata produzione scenica con draghi, nani e, come protagonista, un fanciullo quasi imberbe, coperto solo di pelli (nonché in una lunga scena, quella del bagno nel sangue del drago, totalmente ignudo) ma con la voce da heldentenor (tenore eroico) che anche i migliori tenori acquistano in piena maturità. Ben Heppner, uno dei maggiori tenori wagneriani viventi, ha debuttato nel ruolo a 54 anni a Aix-en-Provence l’estate scorsa e lo replicherà al Festival di Pasqua a Salisburgo tra qualche mese. Ancora più ardue di quelle sceniche, le difficoltà musicali. Con voci quasi interamente maschili nei primi due atti, è opera densa di descrizioni (la foresta e i suoi misteri) che può essere interpretata (si riascolti la versione diretta da Karajan) quasi come un dramma pastorale o una commedia nera in stile fratelli Grimm. Ma che ha forti pulsioni eroiche (si riascolti Furtwangler o Kemp) pur nei toni talvolta di un idillio quasi intimista (nelle letture di Solti, Boulez e Bohm). Inoltre, c’è uno stacco netto tra i primi due atti e gran parte del terzo dove domina l’incredibilmente libidinosa (per metà Ottocento) scena finale. Del resto trascorsero 12 anni prima che, completato il resto, Wagner compose questa parte conclusiva.
La vulgata attribuisce la pausa alla convinzione, rivelatasi errata, che il “Ring”, pur se portato a termine, non avrebbe mai visto un palcoscenico, per ragioni sia di costo sia di innovazione drammatica e musicale. L’analisi della struttura del terzo atto e in particolare dell’ultima scena mostra, invece, che per trovare note e accordi, Wagner sarebbe dovuto scendere nell’eros e thanatos di “Tristan und Isolde”, caratterizzato da una scrittura quasi interamente cromatica con accenti tali da anticipare la dodecafonia. E risalire nell’esplosione di gioia di vita e di tolleranza tutta diatonica dei “Meistersinger”. L’ultima scena di “Siegfried” ha un impasto cromatico su una struttura diatonica, inconcepibile prima delle due opere pensate e composte nei 12 anni di interruzione del “Ring”. Ucciso il drago, bagnatosi nel suo sangue, conquistato l’anello che dona l’onnipotenza, spezzata la lancia allo stesso re degli dei, attraversato un muro di fiamme, il giovane Siegfried si trova davanti a qualcosa che non ha visto prima: una donna addormentata (Brunhilde). Si accorge della differenza quando le apre la corazza. Ha, per la prima volta nella sua vita, paura. Al ragazzo in procinto di diventare uomo, Brunhilde spiega la differenza tra generi e gli insegna cosa è l’amore e come lo si fa.
Quindi, 45 minuti di eros pieno di gioia culminante in un orgasmo finale in fortissimo “do”, proprio mentre in quegli stessi anni il melodramma in Italia, il grand opèra in Francia e il nazionalismo perbenista in Russia scacciavano l'eros, con un ostracismo durato oltre mezzo secolo, sia dal teatro in musica che dal teatro tout court. Per quei 45 minuti ci voleva una musica ardita e innovativa che sarebbe riapparsa solo nel secondo atto del “Parsifal”. Va ricordato che l’eros era di fatto scomparso dai teatri con il rossiniano “Le Conte Ory”. Lo stesso Wagner avrebbe ripreso l’argomento, prima che nel “Parsifal”, nel primo atto di “Gotterdamerung” (“Il Crepuscolo degli Dei”) dove si assiste addirittura a uno scambio di coppie in cui uno dei partner, Brunhilde, non è consenziente. La musica, però, enfatizza il dramma della violenza alla semi-divina valchiria diventata donna; non l’eros, tanto meno l’eros gioioso del finale di “Siegfried”, un vero e proprio inno alla sacralità della copula, molto più lunga e più trascinante di quella con cui si apre “Der Rosankavalier” (l’orgasmo della trentatreenne Marie Therese e del diciassettenne Octavian).
Cosa dire dell’allestimento co-prodotto dai teatri di Firenze e di Valencia? Innanzitutto, va ricordato che le prime due parti del “Ring”, presentate nel 2007, hanno meritatamente ottenuto il “Premio Abbiati” e che la conclusione “Gotterdamerung verrà presentata in primavera. In secondo luogo, va sottolineato che l’allestimento del gruppo catalano La Fura dels Baus (regista Carlos Pedrissa) è affascinante e tiene il pubblico inchiodato per oltre cinque ore intervalli compresi. In dodici schermi si succedono immagini che accompagnano il testo alla musica con effetti alla Spielberg o ai disegni animati alla Disney. Un accenno va inoltre fatto alla direzione musicale di Zubin Mehta: un “Siegfried” quasi intimista, nonostante la spettacolarità dell’allestimento, in cui la bacchetta è guidata dalla riflessione filosofica e i tempi sono leggermente dilatati. Il cast si può dire che è mediamente buono. Negativa, tuttavia, la scena sessuale del giovane Leonid Zakhozhaev nel ruolo impervio del protagonista: abbigliato con freccette multicolori come un hippy fine anni Sessanta, goffo nei movimenti e privo del volume e della capacità di ascendere a tonalità alte che richiede la partitura. Non lo aiuta di certo Jennifer Wilson, una Brunhilde formato armadio guardaroba e dal volume straripante. Nel duetto “Siefgried” pare dover ricorrere al Viagra per evitare una brutta figura.

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