La prima italiana di “Der Vampyr” di Heinrich Marscchner a Bologna il 15 novembre ed il nuovo allestimento del “Siegfried” di Richard Wagner a Firenze (il debutto è il 20 novembre) sono uno spunto per sollevare un interrogativo interessante. Perché mentre il teatro in musica tedesco e francese della metà dell’Ottocento gronda di sangue e sesso ed ha spesso il sentore dei “fattacci” dei bassifondi, tutto ciò manca al melodramma italiano (tanto a quello verdiano quanto in quello “padano”, ossia la fase di transizione tra Verdi, da un lato, e “la nuova scuola” ed il “verismo”, dall’altro). “Der Vampyr” – come si comprende dal titolo- gronda di sangue dalla prima all’ultima nota. In “Siegfried”, un vecchio tenta di uccidere il proprio figlio adottivo e viene ucciso da quest’ultimo, il quale, per di più, spezza la lancia e sta per ammazzare il proprio nonno naturale prima di copulare con la propria zia (l’orgasmo dura circa 45 minuti). Nella “tragédie lyrique” francese, il truculento abbonda: “Medée” scanna i propri figli per colpire il proprio amante (padre di questi ultimi). Le opere francesi tratte dalle “pièces à sauvatege” del periodo post-rivoluzionarie sono impregnate del Terrore dei giacobini. Il “grand opéra” cerca temi nella notte di San Bartolomeo e nelle guerre di religione del quattrocento (si pensi a “Les Hugonots” e “Le Prophète” di Meyerbeer.
Al confronto anche i melodrammi più trucidi di Verdi (“Rigoletto”, “Il Trovatore”, “La Forza del Destino”) sembrano pensati per recite collegiali per educande. Tratto il primo da un testo francese (di Hugo) e gli altri due da romanzi spagnoli vengono addolciti rispetto all’originale . non si accentua il “grand guignol” come fanno, invece, librettisti e musicisti francesi e tedeschi. L’eros è assente (l’ultima opera erotica è il rossiniano “Le Conte Ory” prima che alla fine del secolo l’eros si veda di nuovo sulle scene torinesi con la pucciniana “Manon Lescaut”). La spiegazione principale sta nel rigore della censura austro-ungarica e borbonica : le opere più “osées” di Verdi – “Il Trovatore” ed “Un Ballo in Maschera”- debuttarono al Teatro Apollo di Roma sia perché la censura papalina non era sorda al “suonar di quel metallo” sia perché nel Regno del Papa Re si era meno puritani che nel resto della Penisola. Ancora più pudico il “grand opéra” padano: la scorsa estate recensendo “Cleopatra” di Lauro Rossi abbiamo visto come la regina egiziana venisse rappresentata come una brava borghese . tradita dall’amante che convola ad un matrimonio d’interessi. Inoltre il melodramma verdiano si rivolgeva ad un pubblico forse anticlericale (per la “questione romana”) ma di certo piuttosto bigotto come descritto, ad esempio, in due libri recenti di studiosi anglosassoni “After the Golden Age” di Kenneth Hamilton e “The Great Transformation of Musical Taste” di William Weber. Insomma, il Risorgimento pudibondo, pure se puttaniere, dipinto molto bene da Luchino Visconti in “Senso” ed “Il Gattopardo”. A fine Ottocento, tuttavia, “Manon Lescaut” di Puccini e “Cavalleria Rusticana” di Mascagni spazzano via tutti questi fariseismi. E nel “verismo” abbiamo sangue e budella a volontà.
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