La Cina – la notizia è filtrata sulla stampa americana ma se ne è avuto qualche cenno pure su quella europea – potrebbe non partecipare al G20 convocato per il 15 novembre nei pressi di Washington dal Presidente uscente degli Stati Uniti, George W. Bush. Oppure, la sua delegazione si limiterebbe a varcare l’Oceano ed a giungere nella costa orientale Usa per mere ragioni di cortesia. Gli Usa, l’Ue e gli altri riceverebbero tanti sorrisi, qualche inchino e forse qualche regalino in porcellana o seta (da portare a casa) ma nessun impegno su nessun fronte. Eppure, come abbiamo visto su Libero Mercato del 28 ottobre, dagli effetti dello tsumani finanziario sull’Asia, e sulla Cina in particolare, dipende la crescita dell’economia internazionale ed il grado di manovra (nel rispondere alla tempesta finanziaria) da parte degli altri Paesi più importanti del consesso mondiale.
Come spiegare l’atteggiamento di Pechino? Il vostro “chroniqueur” ha avuto colleghi cinesi per diversi anni in Banca Mondiale e nelle agenzie specializzate Onu, ha visitato più volte la Cina (sia per lavoro sia per diletto) e continua a seguire , con il cannocchiale, ciò che avviene nel Celeste Impero.
Al fine di comprendere perché la Cina non è entusiasta dell’appuntamento del 15 Novembre , ed anche di afferrare cosa sta avvenendo nei mercati asiatici (dal brusco crollo di lunedì 27 ottobre alla rincorsa agli acquisti, ed agli aumenti delle valorizzazioni azionarie, giovedì 30) occorre partire dall’ipotesi che, mediamente, la razionalità spesso estrema dei cinesi (un tratto di distinzione rispetto ai giapponesi, agli indo-cinesi ed alle varie nazioni dell’Asia centrale), pur assimilandoli agli europei ed agli americani, ha sovente sbocchi molto differenti da quelli prevalenti in Europa e negli Usa. Ci si deve, poi, rivolgere a studi analitici piuttosto che ad inchieste giornalistiche.
Scegliamo alcuni recenti dalla messe oggi prodotta da università ed istituti di ricerca specializzati. In primo luogo, rivolgiamoci alla Borsa. Richard Burdekin del Cleramont College (una delle università di maggior prestigio della costa occidentale Usa) e Luke Redfern del Credit Suisse hanno esaminato, con un rigoroso apparato econometrico, la Borsa cinese dal 2003 al 2007 (nel Robert Day School of Economics and Finance Research Paper n. 2008/6) al fine di cogliere quanto “i sentimenti” incidono nell’allocazione dei portafogli e nella scelta di comprare o vendere. L’analisi studia l’andamento delle azioni B (di s.p.a. straniere quotate a Shangai e Schenzhen), delle azioni H (di s.p.a. cinesi quotate a Hong Kong ed all’estero) e di Adr (American depository receipts quotati nelle varie piazze del Celeste Impero), derivati di titoli quotati a Wall Street ma trattati anche nelle Borse cinesi. Nel periodo in esame ha dominato il toro. Nonostante l’esame empirico dei “sentimenti” che lo hanno animato sia limitato e basato, in gran misura su dati indiretti, la conclusione è che essi siano stati la molla. Non è una riflessione banale: vuol dire che i cinesi hanno messo dietro le spalle prima di noi l’ipotesi dell’efficienza dei mercati finanziari, i cui teoremi vengono insegnati da circa 40 anni nelle università – ne sono stato a lungo colpevole pure io- , da quando Eugene Fama (Chicago) scrisse un fondamentale saggio . E’ interessante constatare come proprio la crisi finanziaria in atto abbia messo in serie difficoltà l’ipotesi non solo a livello accademico ma anche giornalistico: interessante a riguardo l’editoriale su “The Behavioral Revolution” di David Brooks sul “New York Times” del 29 ottobre. Per i cinesi (che non hanno mai celato di nutrire un senso di superiorità nei confronti degli occidentali) ciò significa che il loro grande popolo è arrivato alla Borsa dopo gli europei e gli americani ma ne ha afferrato aspetti fondamentali (i “sentiments” invece dell’”efficient market hypothesis”) prima degli altri. Da qui, l’interrogativo: cosa ci vogliono pretendere d’insegnare al G20?
Un altro aspetto importante è il funzionamento interno delle s.p.a. quotate cinesi. Lo esaminano Takao Kato e Cheryl X Long (ambedue di Colgate University) nello IZA Discussion Paper N. 3739. Hanno avuto accesso a dati davvero unici dal 1998 sui compensi dei manager e sulla struttura proprietaria. Tenendo conto che lo Stato ha di norma più di un dito nelle quotate e sui compensi dei loro dirigenti ed amministratori, concludono che le carriere sono organizzate come “tornei” con “premi” gradualmente crescenti; è un meccanismo astuto, ma nella stessa Cina ci si chiede se reggerà all’integrazione dei mercati. Anche perché – lo documento il lavoro della Banca mondiale World Bank Research Working Paper n. 4700 – sta comportando un aumento delle disuguaglianze e crescenti tensioni interne.
A questi aspetti, a cui si devono dare risposte verosimilmente all’interno del Celeste Impero prima di imbarcarsi in un processo di costruzione di un nuovo complesso di regole economiche e finanziarie internazionali, si aggiunge il nodo che i cinesi non sono affatto pronti a fare trasparenza sul “paniere” definito il 21 luglio 2005 alla base del tasso di cambio del Renminbi (mai come oggi nell’occhio del ciclone ed oggetto di attenzione da parte di molti Stati membri del G20), ma ancora oggi considerato “secreto di Stato”. Micheal Funk e Marc Gronwald dell’Università di Amburgo sono riusciti, in un lavoro inedito (si può richiederlo, a mio nome, a funke@econ.uni-hamburg.de) ad afferrare alcuni tratti salienti del paniere utilizzando un modello autoregressivo al variare del tempo (ossia una tecnica statistica abbastanza avanzata) ed a stimare il cambio-obiettivo a 7,42 Renminbi , un’informazione che non rallegra le autorità monetarie cinese (per le quali il riserbo è non un mito ma un Dio). Quindi, si chiedono, perché trovarsi nella piovosa Washington di metà novembre attorniati da tanti impiccioni?
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