Non siamo ancora al 1929, ed alle foto sui giornali ed alle immagini nei documentari d’attualità che mostravano banchieri in atto di gettarsi dalle finestre dei piani alti di grattacieli nei pressi di Wall Street. Tuttavia, le “news” dagli Usa e dal Nord Europa ci portano già informazioni di suicidi causati dalla crisi finanziaria internazionale in atto dall’estate del 2007 e, secondo le previsioni, destinata a durare almeno sino a tutto il 2009. Inoltre, dati da fonti statistiche ufficiali degli Stati Uniti ci dicono che, oltreoceano (dove, è noto, si ha la pistola facile), negli ultimi anni il numero di suicidi ha superato (ciascun anno) quello degli omicidi. Un’indagine pubblicata, in settembre, su una delle maggiori riviste di neuropsichiatria economica (D. Lester, K. Abe “Social Integration and Suicide/Homicide in Japan and the United States” , in “Psychiatric and Clinical Neurosciences”, Vl, 46, n. 4 pp. 849- 851) sottolinea come in Giappone (alto Paese ad elevato tasso di suicidio) le variazione regionali nei tassi regionali di suicidio sono, in gran misure, correlate a determinanti economiche , mentre negli Usa sono, in gran misura, conseguenza di fattori personali (quali il divorzio o la nascita di figli non voluti oppure affetti da malformazioni e sindromi varie).
E’ dal Giappone, per via dell’Australia, che arriva lo studio teorico più recente sull’economia del suicidio connesso a determinanti economiche e finanziarie: è il lavoro di Tomoya Suzuki “Economic Modelling of Suicide under Incombe Uncertainty; for Better Understanding of Middle-Aged Suicide” pubblicato in settembre nella rivista “Australian Economic Papers” , Vol. 47 N. 3, pp. 296-310. Tomoya Suzuki costruisce un modello formale (ossia matematico) il cui aspetto innovativo consiste nel tenere esplicitamente conto dell’incertezza relativa al reddito personale e familiare. Tale incertezza riduce, da un lato, l’utilità attesa (relativa alla propria vita futura, ed al proprio futuro flusso di reddito) di chi ha una forte avversione al rischio ma, da un altro, induce a differire la decisione sino a quando il reddito è diventato effettivamente molto basso. Quindi, l’incertezza economica ha due effetti contrapposti sul comportamento degli individui. Il modello di Tomoya Suzuki ha l’obiettivo di individuare i livelli di soglia, al di sotto dei quali le aspettative diventano di reddito o di consumi permanentemente “troppo” bassi da indurre al suicidio. La conclusione importante di politica economica è in favore di interventi a sostegno di redditi molto bassi, specialmente in una fase come l’attuale caratterizzata da grande incertezza economica e di forti fluttuazioni nelle aspettative di reddito.
L’aspetto più significativo del lavoro di Tomoya Suzuki è l’utilizzazione della “teoria delle opzioni reali” (elaborata principalmente da Avinash Dixit e Robert Pyndick nel libro “Investment under Uncertainty” Princeton University Press 1994) e sviluppata, da me e da P.L. Scandizzo in un libro in lingua italiana d’alcuni anni fa - “Valutare l’Incertezza”, Giappichelli 2003 - nonché in alcune analisi operative di politiche ed investimenti pubblici (ad esempio Bezzi e altri “Valutazione in Azione”, Franco Angeli 2005). La teoria delle opzioni reali valuta le decisioni sia degli individui e delle famiglie sia di soggetti giuridici (imprese, pubblica amministrazione, Governi) in quanto “finestre di opportunità” (positive e negative) che spesso aprono o chiudono altre “finestre di opportunità”. Sino, ovviamente, allo “strike” finale, ossia all’esercizio dell’opzione che brucia (o, secondo una terminologia più colloquiale, “uccide”) l’opzione medesima. Il suicidio può essere visto, sotto il profilo economico, come “l’ultima opzione”, esercitata la quale vengono “bruciate” (o “uccise”) tutte le altre. In una crisi finanziaria innescata in gran misura da derivati finanziari (o vari subprime impacchettati con altri titoli finanziari) che nelle “options” finanziarie hanno la loro origine, l’analisi economica del suicidio come “ultima opzione” appare particolarmente pertinente.
Tuttavia, le origini della teoria economica del suicidio non sono collegate con l’introduzione delle opzioni reali nell’analisi economica. La prima teoria economica del suicidio è stata formulata da un economista liberale e credente, Gary Becker (l’autore che più di altri ha studiato il capitale umano e l’economia della famiglia in un’ottica cristiana e di libera scelta di mercato), in un saggio del 1968 (“Crime and Punishment: An Economic Approach”, Journal of Political Economy, March-April 1968 pp. 169-217). Becker e soprattutto due suoi allievi (R. Hamermesh, D and N. Soos “An Economic Theory of Suicide”, Journal of Political Economy February 1974 pp. 83-90) sviluppano in poche pagine ed utilizzando in gran misura una metodologia e tecnica d’analisi economica molto diffusa (l’analisi costi benefici degli investimenti) una teoria economica del suicidio molto compatta e fondata sull’ipotesi di completa razionalità economica (ossia non ci sono elementi emotivi o psicologici nell’incidere sulla decisione): si decide di mettere fine alla propria esistenza umana quando il valore attuale netto della propria vita futura è pari a zero o, comunque, ad un livello estremamente basso. Dixit e Pyndick, applicando al suicidio la teoria delle opzioni reali, scavano, da un lato nella sua iper-razionalità (in pochissimi casi estremi), e, nell’altro, nei “fallimenti della razionalità”. In un contesto d’incertezza, il valore di restare in vita è, senza dubbio, - argomentano- . molto alto poiché il quadro complessivo può cambiare, da un momento all’altro e nelle direzioni più impensate: quindi, vale l’opzione di attesa (a premere il grilletto) dato che primo o poi “qualcosa può migliorare”. “Le circostanze – scrivono Dixit e Pyndick – devono essere molto più nere di quelle del teorema di Hamermesh-Soos per giustificare di premere il grilletto”; il valore attuale netto della vita futura deve essere calcolato non a zero ma ben al di sotto di zero (e tale da precludere qualsiasi “opzione di attesa” tale da poter prospettare anche una bassissima possibilità che, prima o poi, le cose cambieranno in meglio). E’ interessante notare che la letteratura sulle opzioni reali ed il suicidio come “ultima opzione” danno una forte giustificazione economica a prescrizioni non-economiche quali quelle religiose o sociologiche che vietano il suicidio: sono un antidoto ai “fallimenti della razionalità” . Aumentano, infatti, il costo percepito di premere il grilletto ed abbassano, quindi, i livelli di soglia (relative alle aspettative di valore di vita futura) al di sotto dei quali il suicidio può essere considerato razionale. Un aspetto interessante è in che misura le prescrizioni religiose o sociologiche frenano i suicidi. Un lavoro empirico stimolante è quello pubblicato alcuni anni fa da David Marcotte, professore di politica pubblica all’Università del Maryland a Baltimora , nel saggio “The Economics of Suicide Revisited” ( “Southern Economic Journal”, 2003 Vol. &9 pp. 628-643): negli Usa , all’inizio del XXI secolo si verificavano ben 1760 tentativi di suicidio al giorno ma soltanto il 20% andavano, per così dire, a buon fine. A frenare l’”ultima opzione” sono spesso le prescrizioni religiose o sociologiche che illuminano sui “fallimenti di razionalità”, specialmente in tema di “opzione di attesa”. L’America della “Christian Coaltion” protestante e dell’avanzata del cattolicesimo di oggi è molto differente da quella dei “Roaring Twenties” che culminarono con la crisi del 1929.
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