Oggi 29 novembre , i 20 maggiori istituti econometrici internazionali (tutti privati, nessuno italiano) stimano a – 0,1% la crescita (negativa) del pil dell’Italia nel 2008 e a – 0,4% la stima per il 2009. Le mie previsioni sono che, se si tiene conto delle implicazioni della nuova ondata di terrorismo su consumi e investimenti (l’aumento dell’avversione al rischio frena la domanda), l’anno prossimo la contrazione potrebbe superare lo 0,5%.
Dobbiamo fasciarci la testa ed intonare geremiadi? Gli effetti sulle aspettative di individui, famiglie ed imprese sarebbero disastrosi: il 2009 potrebbe diventare anno di recessione pesante, non morbida, ed il fenomeno potrebbe protrarsi al 2010. Occorre, quindi, operare per una svolta di cui il decreto legge appena varato dal Governo è l’antipasto oppure il primo piatto (secondo il numero di pietanze in cui si vuole articolare la manovra di rilancio non inflazionistico ed in linea con i saldi di bilancio pubblico).
In primo luogo, occorre agire presto, anzi prestissimo, in materia tributaria. Siamo consapevoli dei vincoli entro cui si è costretti ad operare; sappiano che tali vincoli diventano più severi perché la crescita negativa riduce il gettito. Le misure essenziali per il rilancio sono due : a) una riduzione dell’Iva (come proposto il 25 novembre da Il Tempo anticipando la maggiore flessibilità in materia auspicata dalla Commissione Europea); b) agire con sgravi tributari mirati ai settori che operano con capacità inutilizzata (meccanica, elettronica, chimica). Tali sgravi non sono inflazionistici e possono essere effettuati senza mettere a repentaglio i conti pubblici. Si sarebbero potuti mirare con precisione se il Governo Prodi non avesse impedito l’aggiornamento della strumentazione tecnica necessaria (la matrice di contabilità sociale dell’Istat su cui applicare modelli computabilo). Meglio muoversi con una certa approssimazione che strapparsi i capelli e rotolarsi per terra in attesa di strumenti migliori. I piagnistei possono soltanto aggravare la situazione.
In secondo luogo, occorre prendere spunto dai numerosi provvedimenti previsti nel decreto legge come misure-tampone (dirette a fronteggiare l’emergenza) allo scopo d’accelerare la riforma degli ammortizzatori sociali e la revisione organica della fiscalità sulla famiglia (o tramite il “quoziente framiliare” o tramite deduzioni crescenti).
In terzo luogo, occorre porre fine a scioperi che penalizzano specialmente i ceti a reddito medio-basso e fanno ulteriormente slittare il Paese verso la recessione. A tale scopo, occorre un’intesa tra parti sociali sulla contrattazione e su cosa intendere per inflazione “programmata” (per i prossimi anni) e su come ricavarla. Non mancano metodi per farlo.
In quarto luogo, occorre l’abolizione degli enti poco utili o le cui funzioni possono essere affidate ad altri (le Province e non solo) per destinare le risorse umane e strumentali della Pa verso attività a più alto rendimento economico e sociale.
In quinto luogo, l’Italia deve fare sentire la propria voce tra quelle di chi chiede un ritocco al ribasso dei tassi direttori nell’area dell’euro.
La svolta è possibile. Dipende unicamente da noi.
sabato 29 novembre 2008
TRE POSSIBILI SOLUZIONI ALLA CRISI DELLE FONDAZIONI LIRICHE, Il Domenicale 19 novembre
Quella delle fondazioni liriche è una crisi annunciata. “Il Dom” vi ha dedicato una serie d’articoli sin 2005 ed un’analisi dettagliata nel numero del 22 novembre. Chi scrive aveva espresso in tempi non sospetti serie perplessità sulla normativa alla base dell’attuale assetto (Legge Veltroni) quando è stato varato circa 12 anni fa e ha documentato, anche sulla base della sua esperienza nella veste di Vice Presidente di un teatro lirico, gli effetti. Ne ha preannunciato gli ultimi sviluppi, in un breve saggio pubblicato sul periodico “Musica” nella primavera 2006. Quindi, nulla di nuovo sotto il sole. La diagnosi resta immutata: in un Paese dove non si fa politica della cultura musicale da circa 70 anni, le fondazioni liriche (di diritti privato) sono in uno stato comatoso: sono necessariamente fragili (prive di un “sottostante” culturale che dia loro un forte supporto pubblico) e sono travolte dalla più piccola crisi dei conti pubblici, anche di origine internazionale.
A fronte della diagnosi essenzialmente immutata, del commissariamento di tre fondazioni su 13 (e dell’imminente commissariamento di una quarta), di manifestazioni e scioperi in tutti i teatri, le soluzioni diventano più urgenti. Esse non possono non tenere conto del “morbo di Baumol” (dal nome dell’economista, William Baumol, che negli Anni 60 ha scritto un fondamentale trattato sul settore): in un mondo di rapido progresso tecnologico, senza supporto pubblico (tramite sovvenzioni o sgravi tributari adeguati alle elargizioni filantropiche) la lirica muore (i teatri tedeschi hanno sovvenzioni che coprono mediamente il 90% dei costi e sono sempre pieni grazie ad un “sottostante” diffuso, popolare ed attivo). Per l’Italia, dove 400 anni fa è nato il teatro in musica, ciò vuol dire una perdita pesante di patrimonio nazionale. In sintesi, le soluzioni possibili sono le seguenti:
· Una revisione drastica della normativa sulle fondazione che comporti un ripensamento del loro status giuridico ed una riduzione del loro numero (eliminandone un paio o per eccessiva contiguità territoriale con altre o perché hanno masse artistiche- orchestra, coro- qualitativamente al di sotto della media di buoni teatri europei).
· Imporre per legge una gestione delle fondazioni restanti basata sul binomio cooperazione-competitizione. Cooperazione vuole dire dare vita ad un cartellone nazionale con forti risparmi negli allestimenti e nei cachet degli artisti ed evitare che ciascuna fondazione miri a stagioni simili a mini-festival autoreferenziali. Competizione vuole dire premiare le fondazioni che, in base ai risultati di biglietteria e le valutazioni tecniche di una commissione internazionale, sappiano coniugare consuntivi in pareggio ed alta qualità.
· Trasferire, nell’ambito del federalismo, alle Regioni “i teatri di tradizione”, i l”lirici sperimentali”, le “scuola d’opera” e simili. Gli eletti regionali decideranno se dare priorità al patrimonio lirico nazionale od alle fiere del carciofo gigante. Ed i loro elettori li giudicheranno.
Questo è naturalmente lo scheletro di un’architettura più complessa da elaborare, se i principi di base sono accettati, in collaborazione con Presidenti delle Regioni, Sindaci, sovrintendenti e sindacati. E ciò che sta facendo il Ministro Bondi.
A fronte della diagnosi essenzialmente immutata, del commissariamento di tre fondazioni su 13 (e dell’imminente commissariamento di una quarta), di manifestazioni e scioperi in tutti i teatri, le soluzioni diventano più urgenti. Esse non possono non tenere conto del “morbo di Baumol” (dal nome dell’economista, William Baumol, che negli Anni 60 ha scritto un fondamentale trattato sul settore): in un mondo di rapido progresso tecnologico, senza supporto pubblico (tramite sovvenzioni o sgravi tributari adeguati alle elargizioni filantropiche) la lirica muore (i teatri tedeschi hanno sovvenzioni che coprono mediamente il 90% dei costi e sono sempre pieni grazie ad un “sottostante” diffuso, popolare ed attivo). Per l’Italia, dove 400 anni fa è nato il teatro in musica, ciò vuol dire una perdita pesante di patrimonio nazionale. In sintesi, le soluzioni possibili sono le seguenti:
· Una revisione drastica della normativa sulle fondazione che comporti un ripensamento del loro status giuridico ed una riduzione del loro numero (eliminandone un paio o per eccessiva contiguità territoriale con altre o perché hanno masse artistiche- orchestra, coro- qualitativamente al di sotto della media di buoni teatri europei).
· Imporre per legge una gestione delle fondazioni restanti basata sul binomio cooperazione-competitizione. Cooperazione vuole dire dare vita ad un cartellone nazionale con forti risparmi negli allestimenti e nei cachet degli artisti ed evitare che ciascuna fondazione miri a stagioni simili a mini-festival autoreferenziali. Competizione vuole dire premiare le fondazioni che, in base ai risultati di biglietteria e le valutazioni tecniche di una commissione internazionale, sappiano coniugare consuntivi in pareggio ed alta qualità.
· Trasferire, nell’ambito del federalismo, alle Regioni “i teatri di tradizione”, i l”lirici sperimentali”, le “scuola d’opera” e simili. Gli eletti regionali decideranno se dare priorità al patrimonio lirico nazionale od alle fiere del carciofo gigante. Ed i loro elettori li giudicheranno.
Questo è naturalmente lo scheletro di un’architettura più complessa da elaborare, se i principi di base sono accettati, in collaborazione con Presidenti delle Regioni, Sindaci, sovrintendenti e sindacati. E ciò che sta facendo il Ministro Bondi.
MEHTA E PEDRISSA RIFANNO IL RING MITICO E MODERNO Il Domenicale 29 novembre
Pochi lavori per il teatro in musica sono legati al mondo, alla cultura ed alle trazioni germaniche come “L’Anello del Nibelungo” di Richard Wagner (in gergo, il “Ring”, un prologo- atto unico di due ore e mezzo e tre opere, o “giornate”, di circa 5 ore ciascuna) . Un allestimento italo-spagnolo sta fornendo una nuova chiave di lettura al monumentale lavoro. Le prime due opere (“Oro del Reno” e “La Valchiria”) sono state presentate a Valencia ed Firenze nel maggio-giugno 2007. Le altre due lo saranno questo autunno (“Sigfrido”) e la prossimo primavera (“Il Crepuscolo degli Dei”). Si parla già di una tournée internazionale – tale è la carica innovativa della messa in scena e la potenza musicale dell’edizione. L’allestimento è curata dal gruppo d’avanguardia catalano La Fura del Baus (con la regia di Carlus Pedrissa), la parte musicale dal Maggio Musicale Fiorentino guidato da Zubin Mehta che già circa 30 anni fa presentò un leggendario “Ring” nella città del Giglio con la regia di Luca Ronconi e scene e costumi di Pier Luigi Pizzi. Nel 2010 è possibile che l’intero ciclo nell’arco venga riproposto nell’arco di una settimana.
I nostri lettori conoscono l’afflato cosmico del “Ring”. Mentre gli allestimenti dell’ultimo mezzo secolo hanno privilegiato interpretazione socio-politiche (spesso di stampo marxista) o psico-intimiste (quella fiorentina del 1978-82), la Fura dels Baus offre una lettura modernissima del mito, senza intaccare una sola virgola del testo. Da 12 enormi schermi ad altissima definizione emergono immagini astratte e filmati invece realistici. Il visivo è costantemente in sintonia con l’azione scenica e con la parte musicale. In questa rappresentazione stilizzata, i cantanti devono essere non solo attori ma anche atleti: gli Dei recitano e cantano quasi sempre a mezz’aria sorretti da macchine sceniche post-moderne ispirate al teatro barocco, le figlie del Reno nuotano in vere vasche e vanno sott’acqua tra una nota e l’altra, il Dio del fuoco sfreccia in motorino sul palcoscenico, la grotta del nano Mine è un’enorme fabbrica altamente informatizzata. Un’interpretazione certamente ardita, che coniuga Disney (i disegni animati) con Spielberg (il pullulare di effetti speciali) ha fatto arricciare le sopracciglia ad alcuni ma ha avuto oltre un quarto d’ora di applausi dopo le 5 ore di “La Valchiria” ed altrettanto al termine di “Sigfrido”. E ha portato molti giovani a teatro (anche a motivo della politica di prezzi adotta - € 15 per chi ha meno di 26 anni) .
Di rilievo l’esecuzione musicale. Mehta offre un “Ring” molto differente da quello (fortemente drammatico) che lui stesso ha diretto a Firenze nel 1979-82. E’ un “Ring” di riflessione filosofica (quasi alla Sinopoli) con i tempi leggermente dilatati: ne “L’oro del Reno”, Mehta è di un lirismo trasparente, in “La Valchiria” di una tenerezza struggente, in “Sigfrido” coniuga la fiaba crudele (dei primi tre quarti) con eros appassionato nella seconda parte del terzeo atto. L’orchestra conferma di essere la migliore di un teatro italiano. Le prime due opere richiedono circa 30 solisti, “Sigfrido” solamente otto: la compagnia è mediamente buona, ma non eccelsa. Alcuni solisti molto conosciuti in Italia (Franz-Joseph Kapellmann, Peter Seiffert, Matti Salminen) ma anche molti giovani (a ragione delle acrobazie previste dalla regia). Spiccano Juha Usitato (il Re degli Dei) e Jennifer Wilson (la sua figlia preferita). Delude, invece, Leonid Zakhozhaev , protagonista della terza opera; il ruolo di Sigfrido adolescente è indubbiamente terrificante a ragione dello sforzo che richiede, ma Zakhozhaev non ha la stoffa di un “tenore eroico”- buono nei legati ha difficoltà negli acuti ed ha un volume adatto a sale relativamente piccole- nel duetto finale di “Sigfrido” viene schiacciato dal volume, e dalla mole, di Jennifer Wilson. Ci si domanda se riuscirà a reggere efficacemente la parte di Sigfrido maturo ne “Il Crepuscolo degli Dei” il cui debutto è atteso tra qualche mese, sia a Valencia sia a Firenze.
I nostri lettori conoscono l’afflato cosmico del “Ring”. Mentre gli allestimenti dell’ultimo mezzo secolo hanno privilegiato interpretazione socio-politiche (spesso di stampo marxista) o psico-intimiste (quella fiorentina del 1978-82), la Fura dels Baus offre una lettura modernissima del mito, senza intaccare una sola virgola del testo. Da 12 enormi schermi ad altissima definizione emergono immagini astratte e filmati invece realistici. Il visivo è costantemente in sintonia con l’azione scenica e con la parte musicale. In questa rappresentazione stilizzata, i cantanti devono essere non solo attori ma anche atleti: gli Dei recitano e cantano quasi sempre a mezz’aria sorretti da macchine sceniche post-moderne ispirate al teatro barocco, le figlie del Reno nuotano in vere vasche e vanno sott’acqua tra una nota e l’altra, il Dio del fuoco sfreccia in motorino sul palcoscenico, la grotta del nano Mine è un’enorme fabbrica altamente informatizzata. Un’interpretazione certamente ardita, che coniuga Disney (i disegni animati) con Spielberg (il pullulare di effetti speciali) ha fatto arricciare le sopracciglia ad alcuni ma ha avuto oltre un quarto d’ora di applausi dopo le 5 ore di “La Valchiria” ed altrettanto al termine di “Sigfrido”. E ha portato molti giovani a teatro (anche a motivo della politica di prezzi adotta - € 15 per chi ha meno di 26 anni) .
Di rilievo l’esecuzione musicale. Mehta offre un “Ring” molto differente da quello (fortemente drammatico) che lui stesso ha diretto a Firenze nel 1979-82. E’ un “Ring” di riflessione filosofica (quasi alla Sinopoli) con i tempi leggermente dilatati: ne “L’oro del Reno”, Mehta è di un lirismo trasparente, in “La Valchiria” di una tenerezza struggente, in “Sigfrido” coniuga la fiaba crudele (dei primi tre quarti) con eros appassionato nella seconda parte del terzeo atto. L’orchestra conferma di essere la migliore di un teatro italiano. Le prime due opere richiedono circa 30 solisti, “Sigfrido” solamente otto: la compagnia è mediamente buona, ma non eccelsa. Alcuni solisti molto conosciuti in Italia (Franz-Joseph Kapellmann, Peter Seiffert, Matti Salminen) ma anche molti giovani (a ragione delle acrobazie previste dalla regia). Spiccano Juha Usitato (il Re degli Dei) e Jennifer Wilson (la sua figlia preferita). Delude, invece, Leonid Zakhozhaev , protagonista della terza opera; il ruolo di Sigfrido adolescente è indubbiamente terrificante a ragione dello sforzo che richiede, ma Zakhozhaev non ha la stoffa di un “tenore eroico”- buono nei legati ha difficoltà negli acuti ed ha un volume adatto a sale relativamente piccole- nel duetto finale di “Sigfrido” viene schiacciato dal volume, e dalla mole, di Jennifer Wilson. Ci si domanda se riuscirà a reggere efficacemente la parte di Sigfrido maturo ne “Il Crepuscolo degli Dei” il cui debutto è atteso tra qualche mese, sia a Valencia sia a Firenze.
SCIOPERI ALLA SCALA?DA PUNIRE CON UN TAGLIO AI CONTRIBUTI Libero 29 novembre
Ancora una volta, l’approssimarsi di Sant’Ambrogio è stato accompagnato dalla minaccia di uno sciopero alla Scala. L’anno scorso furono molteplici sigle a scendere in campo ed a chiedere a gran voce una modifica della normativa (che consentiva aumenti salariali nella contrattazione integrativa solamente a condizione che i conti del teatro potessero sostenerli); il Ministro Rutelli firmò, a nome del Governo Prodi, la resa incondizionata. Una delle conseguenze fu un’ondata di scioperi in altre fondazioni liriche (anche in quelle con i bilanci in profondo rosso) che chiedevano un trattamento analogo a quanto concesso alle maestranze della Scala. Ciò ha comportato grandi difficoltà per fondazioni (ad esempio, quella del Teatro Massimo di Palermo sulla via del risanamento, con rigore e soluzione finanziarie inventive -la guida un economista). Per questo motivo, le nuove agitazioni (che mettono in dubbio la messa in scena del “Don Carlo” la sera del 7 dicembre) hanno rilievo nazionale e non locale.
Le proposte nascono da una piccola sigla , la Fials, che ha una trentina di iscritti ed il cui leader Sandro Malatesta (una tromba in pensione della Scala) si vanta di avere dato il congedo a Muti ed avere bloccato numerose serate. Malatesta , entrato nella banda della Scala e successivamente promosso a componente dell’orchestra, è un abile giocatore : sa che un teatro è come una compagnia area od un’astronave in cui tutte le parti, anche le più piccole, devono funzionare all’unisono; conosce il potere delle minoranze meglio di Ghino di Tacco; nonostante sia in pensione e i leader di altre sigle affermino (a ragione od a torto ) che la sua attuale carica sindacale sia incompatibile con il fatto di essere coniugato con una cantante lirica (pure scritturata dalla Scala per alcune rappresentazioni), non ha alcuna intenzione di ammorbidire la propria posizione (un vasto numero di rivendicazioni su questo o quello aspetto contrattuale) nella convinzione che altri lo seguiranno. In effetti, dal 26 novembre, protesta pure il balletto.
Gli scioperi – lo sappiamo- aggravano la crisi della lirica che nella sua Patria d’origine sta perdendo spettatori (spesso si va a teatro senza sapere se ci sarà spettacolo) , mentre aumentano nel resto d’Europa, in America e soprattutto in Asia.
Trattare il problema “Fials”-Malatesta (che bel nome donizettiano!!) come un caso milanese sarebbe gravissimo poiché, come si è detto, la soluzione (quale che essa sia) avrà ramificazioni sul resto di un settore in cui tre della 13 fondazioni liriche sono già commissariate (una quarta è molto vicina a sorte analoga) e lo stock di debiti supera i 300 milioni d’euro. Quindi, in primo luogo, il Governo deve evitare di replicare la resa incondizionata di chi lo ha preceduto e sostenere Milano ed il management della Scala in una linea di rigore. L’attuale Sovrintendente della Scala , Stéphane Lisser, ha dato prova di saperlo fare nel luglio 2003 a Aix-en-Provence di fronte alle proteste degli “intermittents”. Convocò assemblee di tutte le maestranze e fece precedere ogni spettacolo da un referendum: si riuscì a mettere in scena la prima del “Trittico Boulez” e di “Traviata”. Successivamente, si dovette sospendere il Festival in quanto gruppuscoli degli scioperanti era diventati violenti e minacciavano con spranghe di ferro il pubblico che andava a teatro e gli esercizi (bar, trattorie) nei pressi dei luoghi di spettacolo.
Quali le proposte operative? “Il Foglio” ha proposto di precettare la minoranza riottosa a ragione dell’alto contributo pubblico alla Scala. Non so, se sotto il profilo giuridico, ciò sia possibile dato lo status “privato” della fondazione. Sarebbe, in ogni caso, poco efficace: i precettati hanno in mano un’arma di vendetta molto potente – suonare male e mandare davvero all’aria l’esito dello spettacolo. Dal libro “Métro Chapelle” scritto dallo stesso Lissner (Parigi, NiL Editions) e dalle misure adottate nel 2003 a Aix-en-Provence, si può delineare una strategia:
· In primo luogo, giocare la carta del referendum, nella consapevolezza che potrebbe diventare un “boomerang” (se la tattica di Malatesta fa proseliti). In ogni caso, deve essere chiaro che nell’eventualità di sciopero, i contributi dei soci (pubblici e privati) saranno rivisti (al ribasso) per tenere conto del danno economico al Teatro, a Milano ed all’Italia tutta.
· Ove Malatesta la vinca su Lissner (come dice di avere fatto nei confronti di Muti) , si aprono tre strade in questo ordine di intensità di reazione: i) andare in scena con scene e costumi, ma con orchestra ridotta (organici ridotti erano consueti sino agli Anni 50); ii) andare in scena con accompagnamento unicamente di pianoforte (come fece Muti in un duello con Malatesta a proposito di “Traviata”); iii) seguire l’esempio di Rudolf Bing (mitico manager del Metropolitan di New York negli anni 60 e 70) che chiuse il teatro sino a quando le maestranze non si fossero messe d’accordo tra di loro su una piattaforma sindacale sostenibile.
Le proposte nascono da una piccola sigla , la Fials, che ha una trentina di iscritti ed il cui leader Sandro Malatesta (una tromba in pensione della Scala) si vanta di avere dato il congedo a Muti ed avere bloccato numerose serate. Malatesta , entrato nella banda della Scala e successivamente promosso a componente dell’orchestra, è un abile giocatore : sa che un teatro è come una compagnia area od un’astronave in cui tutte le parti, anche le più piccole, devono funzionare all’unisono; conosce il potere delle minoranze meglio di Ghino di Tacco; nonostante sia in pensione e i leader di altre sigle affermino (a ragione od a torto ) che la sua attuale carica sindacale sia incompatibile con il fatto di essere coniugato con una cantante lirica (pure scritturata dalla Scala per alcune rappresentazioni), non ha alcuna intenzione di ammorbidire la propria posizione (un vasto numero di rivendicazioni su questo o quello aspetto contrattuale) nella convinzione che altri lo seguiranno. In effetti, dal 26 novembre, protesta pure il balletto.
Gli scioperi – lo sappiamo- aggravano la crisi della lirica che nella sua Patria d’origine sta perdendo spettatori (spesso si va a teatro senza sapere se ci sarà spettacolo) , mentre aumentano nel resto d’Europa, in America e soprattutto in Asia.
Trattare il problema “Fials”-Malatesta (che bel nome donizettiano!!) come un caso milanese sarebbe gravissimo poiché, come si è detto, la soluzione (quale che essa sia) avrà ramificazioni sul resto di un settore in cui tre della 13 fondazioni liriche sono già commissariate (una quarta è molto vicina a sorte analoga) e lo stock di debiti supera i 300 milioni d’euro. Quindi, in primo luogo, il Governo deve evitare di replicare la resa incondizionata di chi lo ha preceduto e sostenere Milano ed il management della Scala in una linea di rigore. L’attuale Sovrintendente della Scala , Stéphane Lisser, ha dato prova di saperlo fare nel luglio 2003 a Aix-en-Provence di fronte alle proteste degli “intermittents”. Convocò assemblee di tutte le maestranze e fece precedere ogni spettacolo da un referendum: si riuscì a mettere in scena la prima del “Trittico Boulez” e di “Traviata”. Successivamente, si dovette sospendere il Festival in quanto gruppuscoli degli scioperanti era diventati violenti e minacciavano con spranghe di ferro il pubblico che andava a teatro e gli esercizi (bar, trattorie) nei pressi dei luoghi di spettacolo.
Quali le proposte operative? “Il Foglio” ha proposto di precettare la minoranza riottosa a ragione dell’alto contributo pubblico alla Scala. Non so, se sotto il profilo giuridico, ciò sia possibile dato lo status “privato” della fondazione. Sarebbe, in ogni caso, poco efficace: i precettati hanno in mano un’arma di vendetta molto potente – suonare male e mandare davvero all’aria l’esito dello spettacolo. Dal libro “Métro Chapelle” scritto dallo stesso Lissner (Parigi, NiL Editions) e dalle misure adottate nel 2003 a Aix-en-Provence, si può delineare una strategia:
· In primo luogo, giocare la carta del referendum, nella consapevolezza che potrebbe diventare un “boomerang” (se la tattica di Malatesta fa proseliti). In ogni caso, deve essere chiaro che nell’eventualità di sciopero, i contributi dei soci (pubblici e privati) saranno rivisti (al ribasso) per tenere conto del danno economico al Teatro, a Milano ed all’Italia tutta.
· Ove Malatesta la vinca su Lissner (come dice di avere fatto nei confronti di Muti) , si aprono tre strade in questo ordine di intensità di reazione: i) andare in scena con scene e costumi, ma con orchestra ridotta (organici ridotti erano consueti sino agli Anni 50); ii) andare in scena con accompagnamento unicamente di pianoforte (come fece Muti in un duello con Malatesta a proposito di “Traviata”); iii) seguire l’esempio di Rudolf Bing (mitico manager del Metropolitan di New York negli anni 60 e 70) che chiuse il teatro sino a quando le maestranze non si fossero messe d’accordo tra di loro su una piattaforma sindacale sostenibile.
venerdì 28 novembre 2008
TREMONTI , ATTENTO A GEITHNER . TIRA TRAPPOLE Il Tempo 28 Novembre
Alcuni organi di stampa italiana hanno tardivamente e benevolmente ripreso alcune critiche nei confronti della “squadra economica” presentata in pompa magna dal Barack Obama che il 20 gennaio sarà Presidente degli Usa. Ci si è probabilmente basati su dispacci d’agenzia e non su documenti o su testi originali. Le critiche apparse sui giornali italiani (per lo più di Milano) hanno posto l’accento sui conflitti d’interesse che legano alcuni di loro con istituti direttamente interessanti dalle politiche (e dalle regolazioni) che sono chiamati ad elaborare ed applicare. Si è anche fatto cenno alla non buona prova data quando erano nelle stanze dei bottoni dell’Amministrazione Clinton ed al “vecchio che avanza” da loro rappresentato, nonostante l’età relativamente giovane di molti di loro – un “vecchio” concettuale, dunque, non anagrafico.. Peccati veniali rispetto ad alcuni aspetti più fondamentali quali si ricavano da documenti e da conoscenza personale . Ed alle implicazioni che tali nomine hanno per l’Eu in generale e per l’Italia in particolare.
Occorre tenere presente che il 26 Novembre, “The New York Times”- ossia il quotidiano che più ha tirato la volata ad Obama durante la campagna elettorale – ha dedicato al tema un editoriale di fuoco, sollevando non solo i conflitti d’interesse ma la alta probabilità che “non tornerà la fiducia dei mercati interni ed internazionali sino a quando alcuni di loro saranno sulla scena politica”. Le accuse principali sono rivolte nei confronti di Timothy Geithner (che dovrebbe assumere la carica di Segretario al Tesoro) e Lawrence Summers (che dovrebbe essere il direttore del Consiglio per l’Economia Nazionale, organo ricreato all’uopo), i due veri personaggi chiave della squadra- gli altri sono in gran misura comprimari scelti o per pagare debiti politici elettorali o per assolvere obblighi più o meno cogenti (anche se non scritti) in termini di “quote rosa”.
L’estate scorsa, quando la vittoria d’Obama era già data molto probabile, Timothy Canova della Chapman University ha pubblicato, su una rivista apertamente a sinistra, e dichiaratamente obaniana, “Dissent”, un saggio in cui si dimostrava come l’attuale crisi finanziaria abbia origine nella “bolla” creata dall’Amministrazione Clinton e si metteva in guardia da richiamare protagonisti di quel Governo nelle poltrone che a Washington contano. Chi desidera il testo integrale può chiederlo, se preferisce a mio nome, a canova@chapman.edu. Veltroni e gli altri obaniani italiani dovrebbero leggerlo e farlo tradurre per diffonderlo in seno al PD.
Non conosco personalmente Geithner, pur se – come spiegherò- ci siamo incrociati alcune volte nella nostra vita professionale. Sono stato collega di Summers in Banca mondiale. “Larry” (per gli amici) è un economista la cui bravura è superata soltanto dall’arroganza e dal non voler mai ammettere i propri sbagli: ciò gli è costato l’incarico di Vice Presidente della Banca Mondiale – aveva proposto di smaltire i rifiuti tossici in Africa perché là “la vita vale meno ed è più breve” di Presidente dell’Università di Harvard – aveva scritto che le donne non sono in grado di giungere ad elevate posizioniaccademiche, soprattutto nelle scienze. Non è solamente la mia opinione; su 100 quotidiani Usa, la mattina del 27 novembre, David Leonhart (uno dei più noti columnist economici vicini al partito democratico, quindi obaniano “di complemento” ) documentava, carte alla mano e citazioni virgolettate e mai smentite, come, ammalato di politica, “Larry” perso l’incarico a Harvard, sia stato, di fatto, il Segretario al Tesoro “ombra” negli ultimi due anni ed abbia formulato proposte contraddittorie su come affrontare la crisi finanziaria. Il pericolo è, al pari di quando era in Banca mondiale prima e nel suo incarico al Tesoro Usa, non seguirà una strada univoca ma andrà a tentoni provando ora questa ora quella ricetta e neutralizzandole a vicenda. In aggiunta, ha presentato misure dirette espressamente contro l’Ue , nella speranza il costo della crisi venga pagato più che proporzionalmente dal Vecchio Continente. Viene definito dai suoi stessi amici un “aggressore scettico” (lui stesso sorride annuendo a questa caratterizzazione). Ce ne dobbiamo già aspettare delle belle sul piano interno (si è già contro la politica sanitaria quale presentata da Obama agli elettori) sia internazionale (l’Organizzazione mondiale del commercio rischia scossoni da mandare definitivamente all’aria il negoziato multilaterale sugli scambi in corso dal 2001). La sua carica non è soggetta a voto di fiducia da parte del Congresso ed è poco definita (trattandosi di un organo creato da Clinton nel 1993 ma in profondo sonno dal 2001). A Washington si dice che il carattere di “Larry” è tale da portarlo a scontri con il resto della squadra. Potrebbe uscire presto di scena, dopo avere dato, però, un’impronta difficile ai rapporti con il resto del mondo- in particolare con quell’Europa che considera decaduta e decadente. Ha, invece, di tanto in tanto, un occhio di riguardo per l’Asia.
Ancora più pericoloso Geithner , soprannominato, a Washington, “l’anguilla” per la disinvoltura con cui si è sempre mosso tra repubblicani e democratici e tra regolatori e regolati. La sua candidatura al Tesoro non piace a molti deputati e senatori repubblicani proprio a ragione di una trasversalità giudicata eccessiva. Abbiamo studiato nella stessa Università (la School of Advanced International Studies della Johns Hopkins) ma ci separano circa 20 anni di età (e non lo ricordo tra i miei allievi quando ho insegnato nell’università dove avevo studiato). Pertinenti però le domande sollevate (ancora una volta su un centinaio di quotidiani) il 26 novembre da un altro columnist considerato collaterale ai “liberal”, Andrew Ross Sorkin: ha appreso le lezioni degli errori commessi nell’Amministrazione Clinton? E di quelli più recenti quando pur essendo di Presidente della Federal Reserve Bank di New York , ha intrattenuto negoziati bilaterali con banchieri in difficoltà su sussidi a spese dei contribuenti? Ha fatto pubblica ammenda per gli esiti disastrosi di queste trattative (con Bear Sterns, Lehman Brothers, Merrill Lynch ed anche CitiGroup) poco compatibili con le sue funzioni ? Per quale motivo il suo datore di lavoro (la Fed di New York) gli ha dimezzato lo stipendio da circa 400.000 dollari a meno di 200.000?
Il Ministro dell’Economia e delle Finanze italiano, Giulio Tremonti, avrà Geithner come sua controparte (sempre che la nomina vada in porto). E’ bene che se ne faccia fare un profilo approfondito con dettagli sul suo operato sia al Governo (sottosegretario con Clinton sia alla Fed di New York): solo in questo modo potrà scansare le trappole, grandi e piccole, che si profilano all’orizzonte.
Se il bel ed il cattivo tempo si vedono dal mattino, prepariamoci a temporali.
Occorre tenere presente che il 26 Novembre, “The New York Times”- ossia il quotidiano che più ha tirato la volata ad Obama durante la campagna elettorale – ha dedicato al tema un editoriale di fuoco, sollevando non solo i conflitti d’interesse ma la alta probabilità che “non tornerà la fiducia dei mercati interni ed internazionali sino a quando alcuni di loro saranno sulla scena politica”. Le accuse principali sono rivolte nei confronti di Timothy Geithner (che dovrebbe assumere la carica di Segretario al Tesoro) e Lawrence Summers (che dovrebbe essere il direttore del Consiglio per l’Economia Nazionale, organo ricreato all’uopo), i due veri personaggi chiave della squadra- gli altri sono in gran misura comprimari scelti o per pagare debiti politici elettorali o per assolvere obblighi più o meno cogenti (anche se non scritti) in termini di “quote rosa”.
L’estate scorsa, quando la vittoria d’Obama era già data molto probabile, Timothy Canova della Chapman University ha pubblicato, su una rivista apertamente a sinistra, e dichiaratamente obaniana, “Dissent”, un saggio in cui si dimostrava come l’attuale crisi finanziaria abbia origine nella “bolla” creata dall’Amministrazione Clinton e si metteva in guardia da richiamare protagonisti di quel Governo nelle poltrone che a Washington contano. Chi desidera il testo integrale può chiederlo, se preferisce a mio nome, a canova@chapman.edu. Veltroni e gli altri obaniani italiani dovrebbero leggerlo e farlo tradurre per diffonderlo in seno al PD.
Non conosco personalmente Geithner, pur se – come spiegherò- ci siamo incrociati alcune volte nella nostra vita professionale. Sono stato collega di Summers in Banca mondiale. “Larry” (per gli amici) è un economista la cui bravura è superata soltanto dall’arroganza e dal non voler mai ammettere i propri sbagli: ciò gli è costato l’incarico di Vice Presidente della Banca Mondiale – aveva proposto di smaltire i rifiuti tossici in Africa perché là “la vita vale meno ed è più breve” di Presidente dell’Università di Harvard – aveva scritto che le donne non sono in grado di giungere ad elevate posizioniaccademiche, soprattutto nelle scienze. Non è solamente la mia opinione; su 100 quotidiani Usa, la mattina del 27 novembre, David Leonhart (uno dei più noti columnist economici vicini al partito democratico, quindi obaniano “di complemento” ) documentava, carte alla mano e citazioni virgolettate e mai smentite, come, ammalato di politica, “Larry” perso l’incarico a Harvard, sia stato, di fatto, il Segretario al Tesoro “ombra” negli ultimi due anni ed abbia formulato proposte contraddittorie su come affrontare la crisi finanziaria. Il pericolo è, al pari di quando era in Banca mondiale prima e nel suo incarico al Tesoro Usa, non seguirà una strada univoca ma andrà a tentoni provando ora questa ora quella ricetta e neutralizzandole a vicenda. In aggiunta, ha presentato misure dirette espressamente contro l’Ue , nella speranza il costo della crisi venga pagato più che proporzionalmente dal Vecchio Continente. Viene definito dai suoi stessi amici un “aggressore scettico” (lui stesso sorride annuendo a questa caratterizzazione). Ce ne dobbiamo già aspettare delle belle sul piano interno (si è già contro la politica sanitaria quale presentata da Obama agli elettori) sia internazionale (l’Organizzazione mondiale del commercio rischia scossoni da mandare definitivamente all’aria il negoziato multilaterale sugli scambi in corso dal 2001). La sua carica non è soggetta a voto di fiducia da parte del Congresso ed è poco definita (trattandosi di un organo creato da Clinton nel 1993 ma in profondo sonno dal 2001). A Washington si dice che il carattere di “Larry” è tale da portarlo a scontri con il resto della squadra. Potrebbe uscire presto di scena, dopo avere dato, però, un’impronta difficile ai rapporti con il resto del mondo- in particolare con quell’Europa che considera decaduta e decadente. Ha, invece, di tanto in tanto, un occhio di riguardo per l’Asia.
Ancora più pericoloso Geithner , soprannominato, a Washington, “l’anguilla” per la disinvoltura con cui si è sempre mosso tra repubblicani e democratici e tra regolatori e regolati. La sua candidatura al Tesoro non piace a molti deputati e senatori repubblicani proprio a ragione di una trasversalità giudicata eccessiva. Abbiamo studiato nella stessa Università (la School of Advanced International Studies della Johns Hopkins) ma ci separano circa 20 anni di età (e non lo ricordo tra i miei allievi quando ho insegnato nell’università dove avevo studiato). Pertinenti però le domande sollevate (ancora una volta su un centinaio di quotidiani) il 26 novembre da un altro columnist considerato collaterale ai “liberal”, Andrew Ross Sorkin: ha appreso le lezioni degli errori commessi nell’Amministrazione Clinton? E di quelli più recenti quando pur essendo di Presidente della Federal Reserve Bank di New York , ha intrattenuto negoziati bilaterali con banchieri in difficoltà su sussidi a spese dei contribuenti? Ha fatto pubblica ammenda per gli esiti disastrosi di queste trattative (con Bear Sterns, Lehman Brothers, Merrill Lynch ed anche CitiGroup) poco compatibili con le sue funzioni ? Per quale motivo il suo datore di lavoro (la Fed di New York) gli ha dimezzato lo stipendio da circa 400.000 dollari a meno di 200.000?
Il Ministro dell’Economia e delle Finanze italiano, Giulio Tremonti, avrà Geithner come sua controparte (sempre che la nomina vada in porto). E’ bene che se ne faccia fare un profilo approfondito con dettagli sul suo operato sia al Governo (sottosegretario con Clinton sia alla Fed di New York): solo in questo modo potrà scansare le trappole, grandi e piccole, che si profilano all’orizzonte.
Se il bel ed il cattivo tempo si vedono dal mattino, prepariamoci a temporali.
giovedì 27 novembre 2008
VERSO UNA NUOVA BRETTON WOODS Formiche dicembre
La riunione del G20 (ossia il G7 allargato a maggiori Paesi emergenti) tenuta a metà novembre negli Usa viene vista come l’inizio del percorso verso quella che è giornalisticamente chiamata “una nuova Bretton Woods”, ossia un insieme di nuove regole economiche che non solo faciliti il superamento della crisi finanziaria in atto ma dia un nuovo assetto permanente al funzionamento dell’economia internazionale.
La conferenza di Bretton Woods (1-22 luglio 1944) venne organizzata – è bene ricordarlo perché l’ONU sta vantando alcune pretese – prima che le Nazioni Unite venissero istituite. Nella calda cittadina del New Hampshire si erano dati convegno esperti di 44 Stati in base alla regola della “not committally representation”, ossia “non impegnavano” gli Stati d’origine: Lord Keynes, ad esempio, guidava una delegazione di britannici ma non rappresentava il Governo di Sua Maestà britannica. Gli esperti provenienti dall’Urss si sfilarono il giorno dopo la conferenza. E via discorrendo. Non sono pignolerie da erudito (chi scrive ha lavorato per circa 20 per le istituzioni di Bretton Woods) ma vogliono dire che G20 (allargato) è alla ricerca di qualcosa di profondamente differente: un accordo al massimo livello tra Capi di Stato e di Governo non un’intesa tra esperti da tradurre successivamente in trattati e statuti.
A Bretton Woods e soprattutto nella sua preparazione – è ancora valido il libro magistrale di Richard Gardner, Ambasciatore Usa in Italia nella seconda parte degli Anni 70- , il gioco venne retto da solo due aree – quella del dollaro e quella della sterlina – ossia gli Usa ed i loro alleati più prossimi, da un lato, e la Gran Bretagna ed il Commenwealth, dall’altro. La partecipazione degli altri “vincitori” (in primo luogo, quella dell’Unione Sovietica) fu marginale. Oggi si guarda invece ai Paesi emergenti (ed ai loro fondi sovrani) come strumento di riequilibrio.
Il tema centrale di Bretton Woods non era l’ordine finanziario internazionale (il tema che oggi maggiormente interessa). Basta leggere gli atti della conferenza (e gli statuti delle tre istituzioni che da essa sarebbero dovute nascere – in pratica ne sorsero solamente due) per toccare con mano che l’obiettivo era l’apertura dei commerci specialmente di manufatti e di semi-manufatti. Per raggiungere tale obiettivo, gli accordi di Bretton Woods creavano un sistema di cambi gestiti collegialmente (non fissi, come si scrive erroneamente) ed una cassa di risparmio mondiale (il Fondo monetario) per concedere prestiti a breve termine, ed a condizioni di mercato, a Paesi temporaneamente in difficoltà.
E’ fin troppo ovvio che il XXI secolo della globalizzazione (finanziaria, ancora più che commerciale) è molto differente dagli Anni 50 della ricostruzione. Non solo la liberalizzazione dei mercati finanziari ha preso, di diversi multipli, il sopravvento su quello dell’apertura dei mercati commerciali (vedasi il fallimento del Dda- Doha dvelopment agenda), il sistema di cambi gestiti collegialmente è crollato nel 1971-73 quando è stato reciso il nesso tra il dollaro Usa (il perno del sistema) e l’oro.
Tuttavia, la confusione su cosa fosse la “vecchia” Bretton Woods non permette di vedere la lezione principale che oggi se ne può trarre. Allora il motore dell’assetto su “la diplomazia del dollaro e della sterlina”. Oggi, è essenziale una “diplomazia del dollaro e dell’euro” che tracci il nuovo assetto e lo piloti. Lo dice, implicitamente, anche “un falco” come John B. Taylor, Vice Segretario al Tesoro Usa dal 2001 al 2005, nel suo ultimo libro “Global Financial Warriors”, Norton & Co. 2007.
Nella gestione della crisi finanziaria internazionale, l’Europa ha mostrato una vitalità inattesa ed ha il compito primario di aiutare il resto del G20 a ripensare gli assunti dei meccanismi finanziari internazionali: le istituzioni finanziarie internazionali (Fmi, Banca Mondiale, e via discorrendo) devono lavorare all’unisono con Governi che possono non solo dare pareri molto validi ma sostenerli con meccanismi di controllo del rischio e d’ assicurazione. A riguardo è importante confutare una banalità che si ascolta e si legge con frequenza: quella secondo cui la crisi sarebbe, in gran misura, il risultato di inadeguata regolazione, specialmente nel settore dei mutui edilizi. Occorre chiedersi se non sia stato invece il groviglio di regolazione – pochi comparti come quello dei mutui negli Usa sono soggetti a regolazione minuta al livello dei comuni, delle contee, dei singoli Stati dell’Unione e federale. L’eccesso di regolazione facilitare le elusioni e gli abusi. Dalla nuova Bretton Woods deve uscire una regolazione più efficace perchè più semplice.
Per saperne di più
Gardner R. “The Sterling Dollar Diplomacy” -, Oxford University Press 1956
Rjan R. “The Future of the IMF and of the World Bank” in American Economic Review May 2008
Taylor J. “Global Financial Warriors”, Norton & Co. 200
7
La conferenza di Bretton Woods (1-22 luglio 1944) venne organizzata – è bene ricordarlo perché l’ONU sta vantando alcune pretese – prima che le Nazioni Unite venissero istituite. Nella calda cittadina del New Hampshire si erano dati convegno esperti di 44 Stati in base alla regola della “not committally representation”, ossia “non impegnavano” gli Stati d’origine: Lord Keynes, ad esempio, guidava una delegazione di britannici ma non rappresentava il Governo di Sua Maestà britannica. Gli esperti provenienti dall’Urss si sfilarono il giorno dopo la conferenza. E via discorrendo. Non sono pignolerie da erudito (chi scrive ha lavorato per circa 20 per le istituzioni di Bretton Woods) ma vogliono dire che G20 (allargato) è alla ricerca di qualcosa di profondamente differente: un accordo al massimo livello tra Capi di Stato e di Governo non un’intesa tra esperti da tradurre successivamente in trattati e statuti.
A Bretton Woods e soprattutto nella sua preparazione – è ancora valido il libro magistrale di Richard Gardner, Ambasciatore Usa in Italia nella seconda parte degli Anni 70- , il gioco venne retto da solo due aree – quella del dollaro e quella della sterlina – ossia gli Usa ed i loro alleati più prossimi, da un lato, e la Gran Bretagna ed il Commenwealth, dall’altro. La partecipazione degli altri “vincitori” (in primo luogo, quella dell’Unione Sovietica) fu marginale. Oggi si guarda invece ai Paesi emergenti (ed ai loro fondi sovrani) come strumento di riequilibrio.
Il tema centrale di Bretton Woods non era l’ordine finanziario internazionale (il tema che oggi maggiormente interessa). Basta leggere gli atti della conferenza (e gli statuti delle tre istituzioni che da essa sarebbero dovute nascere – in pratica ne sorsero solamente due) per toccare con mano che l’obiettivo era l’apertura dei commerci specialmente di manufatti e di semi-manufatti. Per raggiungere tale obiettivo, gli accordi di Bretton Woods creavano un sistema di cambi gestiti collegialmente (non fissi, come si scrive erroneamente) ed una cassa di risparmio mondiale (il Fondo monetario) per concedere prestiti a breve termine, ed a condizioni di mercato, a Paesi temporaneamente in difficoltà.
E’ fin troppo ovvio che il XXI secolo della globalizzazione (finanziaria, ancora più che commerciale) è molto differente dagli Anni 50 della ricostruzione. Non solo la liberalizzazione dei mercati finanziari ha preso, di diversi multipli, il sopravvento su quello dell’apertura dei mercati commerciali (vedasi il fallimento del Dda- Doha dvelopment agenda), il sistema di cambi gestiti collegialmente è crollato nel 1971-73 quando è stato reciso il nesso tra il dollaro Usa (il perno del sistema) e l’oro.
Tuttavia, la confusione su cosa fosse la “vecchia” Bretton Woods non permette di vedere la lezione principale che oggi se ne può trarre. Allora il motore dell’assetto su “la diplomazia del dollaro e della sterlina”. Oggi, è essenziale una “diplomazia del dollaro e dell’euro” che tracci il nuovo assetto e lo piloti. Lo dice, implicitamente, anche “un falco” come John B. Taylor, Vice Segretario al Tesoro Usa dal 2001 al 2005, nel suo ultimo libro “Global Financial Warriors”, Norton & Co. 2007.
Nella gestione della crisi finanziaria internazionale, l’Europa ha mostrato una vitalità inattesa ed ha il compito primario di aiutare il resto del G20 a ripensare gli assunti dei meccanismi finanziari internazionali: le istituzioni finanziarie internazionali (Fmi, Banca Mondiale, e via discorrendo) devono lavorare all’unisono con Governi che possono non solo dare pareri molto validi ma sostenerli con meccanismi di controllo del rischio e d’ assicurazione. A riguardo è importante confutare una banalità che si ascolta e si legge con frequenza: quella secondo cui la crisi sarebbe, in gran misura, il risultato di inadeguata regolazione, specialmente nel settore dei mutui edilizi. Occorre chiedersi se non sia stato invece il groviglio di regolazione – pochi comparti come quello dei mutui negli Usa sono soggetti a regolazione minuta al livello dei comuni, delle contee, dei singoli Stati dell’Unione e federale. L’eccesso di regolazione facilitare le elusioni e gli abusi. Dalla nuova Bretton Woods deve uscire una regolazione più efficace perchè più semplice.
Per saperne di più
Gardner R. “The Sterling Dollar Diplomacy” -, Oxford University Press 1956
Rjan R. “The Future of the IMF and of the World Bank” in American Economic Review May 2008
Taylor J. “Global Financial Warriors”, Norton & Co. 200
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ASPETTANDO CAI. IL LAZIO IMPARI LA LEZIONE , Il Tempo 27 novembre
II nodo degli esuberi di quella che fu l’Alitalia e dell’indotto sta ottenendo a livello nazionale un’attenzione minore di quella che merita. Riguarda principalmente Roma ed il Lazio; in una fase di recessione, minaccia non soltanto di aggravare la situazione nella Capitale e nel suo hinterland ma d’avere ripercussioni in tutto il Paese. Il “Rapporto 2008 sulla società e sull’economia nel Lazio”, preparato da Sviluppo Italia per la Regione traccia, in base ai dati sino a fine 2007, un andamento sostanzialmente positivo: un aumento netto di 10.000 imprese nei 12 mesi, un leggero incremento del tasso di disoccupazione (appena superiore peraltro alla media nazionale) , un contributo al pil nazionale (11%) secondo unicamente a quello della Lombardia, un forte accento su scienza e tecnologia (caratterizzato dall’alto numero di università , studenti, docenti e dall’importanza della rete di ricerca, oltre che da alcune industrie di punta).
La lunga agonia dell’Alitalia, da marzo insolvente nei confronti del proprio indotto, è una minaccia su cui Il Tempo pone l’accento da mesi. Come disse l’allora Sindaco di Firenze, Piero Bargellini, nei giorni dell’alluvione nella città del giglio, il problema non si risolve con i piagnistei. Anche perché il centro sinistra nazionale e locale hanno lasciato le casse vuote, spendendo e spandendo all’inseguimento dell’effimero e per opere non necessarie come l’ormai notoria teca dell’Ara Pacis. Cosa fare?
In primo luogo, impedire che il quadro diventi ancora più grave. Molto dipende dalla scelta di partner straniero che tra breve farà la Cai. AirFrance-Klm è stata per anni associata con Alitalia in Sky Team ; esiste una forte consuetudine a lavorare insieme, al code-sharing delle rotte , a servizi in comune. Si andrebbe sul consolidato. AirFrance-Klm ha però un unico “maxi-hub” – a Parigi- ed un “midi-hub” a Amsterdam. Un matrimonio tra Cai e AirFrance-Klm farebbe diventare Fiumicino il “midi-hub” per il medio Oriente, l’Africa e le rotte meridionali verso l’Estremo Oriente. Nozze con Lufthansa vorrebbe dire sposarsi chi è alla ricerca di un quarto “hub” (con Francoforte e Monaco- ed il “midihub” di Berlino-Tegel) e pensa di averlo trovato a Malpensa. Un matrimonio con Lufthansa vuole dire maggiori problemi per Roma e per il Lazio. La Cai è un’impresa privata, ma è bene che si sia tutti consapevoli delle ramificazioni economiche e sociali delle sue scelte.
In secondo luogo, si combatte l’aggravarsi della recessione non solo con finanziamenti pubblici e sgravi tributari, ma anche alleggerendo il carico regolatorio. E’ messaggio chiaro e forte venuto dall’International Regulatory Reform Conference 2008, tenuta a Berlino dal 16 al 18 novembre e da un’interessante analisi di Bankitalia (Il “Temi di discussione” n. 675). La Regione, la Provincia ed il Comune dovrebbero predisporre (se possibile insieme) un programma aggressivo di de-regolazione per fare sì che nel Lazio (come in Francia, non nel paradiso del liberismo) un’impresa possa decollare in otto giorni.
La lunga agonia dell’Alitalia, da marzo insolvente nei confronti del proprio indotto, è una minaccia su cui Il Tempo pone l’accento da mesi. Come disse l’allora Sindaco di Firenze, Piero Bargellini, nei giorni dell’alluvione nella città del giglio, il problema non si risolve con i piagnistei. Anche perché il centro sinistra nazionale e locale hanno lasciato le casse vuote, spendendo e spandendo all’inseguimento dell’effimero e per opere non necessarie come l’ormai notoria teca dell’Ara Pacis. Cosa fare?
In primo luogo, impedire che il quadro diventi ancora più grave. Molto dipende dalla scelta di partner straniero che tra breve farà la Cai. AirFrance-Klm è stata per anni associata con Alitalia in Sky Team ; esiste una forte consuetudine a lavorare insieme, al code-sharing delle rotte , a servizi in comune. Si andrebbe sul consolidato. AirFrance-Klm ha però un unico “maxi-hub” – a Parigi- ed un “midi-hub” a Amsterdam. Un matrimonio tra Cai e AirFrance-Klm farebbe diventare Fiumicino il “midi-hub” per il medio Oriente, l’Africa e le rotte meridionali verso l’Estremo Oriente. Nozze con Lufthansa vorrebbe dire sposarsi chi è alla ricerca di un quarto “hub” (con Francoforte e Monaco- ed il “midihub” di Berlino-Tegel) e pensa di averlo trovato a Malpensa. Un matrimonio con Lufthansa vuole dire maggiori problemi per Roma e per il Lazio. La Cai è un’impresa privata, ma è bene che si sia tutti consapevoli delle ramificazioni economiche e sociali delle sue scelte.
In secondo luogo, si combatte l’aggravarsi della recessione non solo con finanziamenti pubblici e sgravi tributari, ma anche alleggerendo il carico regolatorio. E’ messaggio chiaro e forte venuto dall’International Regulatory Reform Conference 2008, tenuta a Berlino dal 16 al 18 novembre e da un’interessante analisi di Bankitalia (Il “Temi di discussione” n. 675). La Regione, la Provincia ed il Comune dovrebbero predisporre (se possibile insieme) un programma aggressivo di de-regolazione per fare sì che nel Lazio (come in Francia, non nel paradiso del liberismo) un’impresa possa decollare in otto giorni.
mercoledì 26 novembre 2008
OPPORTUNITA’ E MINACCE: OCCHI APERTI AL VERTICE PROPOSTO DA SARKOZY Libero 26 novembre
In questi giorni, i Capi di Stato e di Governo del G20 – ed in particolare quelli europei- devono decidere cosa rispondere all’invito esteso dal Presidente francese Nicolas Sarkozy per una riunione a Parigi l’8 ed il 9 gennaio. E’ una risposta difficile. Da un lato, Sarkozy è un Presidente permaloso; nessun vuole contrariarlo. Da un altro, l’impegno assunto al G20 di Washington (l’inchiostro è ancora caldo sul verbale e sul comunicato ufficiale) è che i “grandi” si rivedranno attorno al 30 aprile, lasciando il campo, nel frattempo, ai Ministri dell’Economia e delle Finanze (a cui compete cercare di riscrivere architettura e regole dell’economia internazionale) ed ai loro tecnici. Da un altro ancora, Sarkozy ha, per così dire, “un compare”; la riunione è co-ospitata da Tony Blair (disoccupato, o quasi, di superlusso) e complice nell’estendere l’invito. Alle diplomazie economiche internazionali (che hanno mostrato perplessità), è stato detto che non si tratta di una riunione formale vera e propria ma di una “conference”, un seminario tra amici (con il solito codazzo di Ministri, Sottosegretari, diplomatici, dirigenti delle Pa e barracuda-esperti) in una Parigi che sarà allora accarezzata dal dolce nevischio con cui inizia il terzo quadro de “La Bohème”. Suvvia, come si può dire di no ad un invito a cena, prima colazione e pranzo esteso da Nicolas, Tony, Carla e Cherrie?! In breve, pare un film degli Anni 70.
Agli americani, l’invito non è piaciuto più di tanto. Mark Landler, inchiestista di punta del “New York Times” ha dedicato una lunga analisi all’iniziativa: in breve proprio mentre a Washington, i “vecchi” stanno predisponendo il trasloco ed i “nuovi” non hanno ancora trovato casa, l’Iper-Presidente prende per sé le luci della ribalta (associandovi un’icona della politica mondiale degli Anni 90). Ciò vuole dire una diplomazia dell’euro e della sterlina ma in cui l’Europa (pur se in recessione) vuole mettersi nel sedile del conducente. E dare il là sui 47 temi regolatori ed economici individuati nel G7 di Washington.
L’iniziativa presenta, senza dubbio, opportunità per l’Ue – un profilo più alto vuol dire anche maggior voce in capitolo. Ha, però, anche minacce e trappole che gli sherpas dei leader Ue dovrebbero valutare con attenzione. Una minaccia, piccola in termini quantitativa ma potenzialmente esplosiva sotto il profilo della strategia europea ed internazionale, è stata anticipata la sera del 20 novembre dallo stesso Governo francese, con una misura di cui pochi si sono accorti: la nascita di un “fondo sovrano” piccolo (20 miliardi d’euro- appena il 2,5% della capitalizzazione di mercato alla Borsa di Parigi) ma strategico, poiché destinato ad investimenti dello Stato in s.p.a. che intendono abbracciare “progetti innovativi” oppure che “debbono stabilizzare la loro base in capitale per il futuro”. Di raffa, di raffa o di baracca si tratta di una nuova edizione di sussidi a “campioni nazionali” in potenza oppure in difficoltà. Gli sherpas che preparano la “conferenza” di Parigi dovrebbero leggere con attenzione il lavoro “"Subsidizing National Champions: An Evolutionary Perspective" di Cecile Aubert, Oliver Falck e Stepham Heblich (CESifo Working Paper Series n.2380) , una serrata critica di politiche di questa natura, nonché lo studio di Alberto Alesina, Silvia Ardagna e Vincenzo Galasso (Nber Working Paper N w14479) sull’unione monetaria e le riforme strutturali. L’analisi evidenzia che i Paesi che si sono tolti di dosso il vecchiume ed hanno accelerato le riforme sono quelli che più hanno tratto beneficio dall’unione monetaria. Tutto sommato, però, la minaccia è contenuta. Da un canto, i Capi di Stato e di Governo possono dire che non sono affari loro ma dei loro Ministri dell’Economia e delle Finanze e spedire altrove il dossier , augurandosi che si perda nei corridoi delle burocrazie. Da un altro, la Commissione Europea vigila sugli aiuti di stato e sull’eventuale utilizzo del fondo per bloccare Opa ostili.
Il trappolone è, invece, annidato in un “vertice” (convocato quasi all’improvviso dalla Presidenza francese) per una data più vicina: il 28 novembre. Riguarda l’agricoltura – la Francia otterrà, nel 2008, 10 miliardi di euro dal fondo per la politica agricola comune (Pac), una fetta importante dei 53 miliardi di euro disponibili , pari, a loro volta, al 40% del totale delle risorse comunitarie. Al vertice agricolo, viene presentato un documento (della Presidenza) in cui si elogia la “preferenza comunitaria”, si propone un ruolo dell’Ue nella soluzione “dell’equilibrio alimentare mondiale” (ciò vuol dire aumento della produzione lorda vendibile in Europa anche se non competitiva), si invita l’universo mondo ad adottare “azioni per incoraggiare la coesione in aree rurali” e si sottolineano i pregi dei prodotti “du terroir” (ossia puri ed organici). Soltanto panna montata? Non proprio. La crisi internazionale diventa un grimaldello per rilanciare quella Pac (che dovrebbe andare in pensione) ed anche per mettere una pietra tombale sul negoziato commerciale internazione, la Doha development agenda (Dda).
La riunione del 28 novembre probabilmente non avrà alcuna puntuale implicazione operativa, pur se, in ogni caso, darà un brutto colpo al moribondo Dda. Quella dell’8 e 9 gennaio serve a riproporre il problema Pac nella convinzione che i Capi di Stato e di Governo possono essere più sensibili a certe esigenze in merito alle quali gli stessi Ministri dell’agricoltura che non sono unanimi nel sostenere una Pac di cui la Francia è il principale beneficiario.
Quindi, “nessun dorma”!
Agli americani, l’invito non è piaciuto più di tanto. Mark Landler, inchiestista di punta del “New York Times” ha dedicato una lunga analisi all’iniziativa: in breve proprio mentre a Washington, i “vecchi” stanno predisponendo il trasloco ed i “nuovi” non hanno ancora trovato casa, l’Iper-Presidente prende per sé le luci della ribalta (associandovi un’icona della politica mondiale degli Anni 90). Ciò vuole dire una diplomazia dell’euro e della sterlina ma in cui l’Europa (pur se in recessione) vuole mettersi nel sedile del conducente. E dare il là sui 47 temi regolatori ed economici individuati nel G7 di Washington.
L’iniziativa presenta, senza dubbio, opportunità per l’Ue – un profilo più alto vuol dire anche maggior voce in capitolo. Ha, però, anche minacce e trappole che gli sherpas dei leader Ue dovrebbero valutare con attenzione. Una minaccia, piccola in termini quantitativa ma potenzialmente esplosiva sotto il profilo della strategia europea ed internazionale, è stata anticipata la sera del 20 novembre dallo stesso Governo francese, con una misura di cui pochi si sono accorti: la nascita di un “fondo sovrano” piccolo (20 miliardi d’euro- appena il 2,5% della capitalizzazione di mercato alla Borsa di Parigi) ma strategico, poiché destinato ad investimenti dello Stato in s.p.a. che intendono abbracciare “progetti innovativi” oppure che “debbono stabilizzare la loro base in capitale per il futuro”. Di raffa, di raffa o di baracca si tratta di una nuova edizione di sussidi a “campioni nazionali” in potenza oppure in difficoltà. Gli sherpas che preparano la “conferenza” di Parigi dovrebbero leggere con attenzione il lavoro “"Subsidizing National Champions: An Evolutionary Perspective" di Cecile Aubert, Oliver Falck e Stepham Heblich (CESifo Working Paper Series n.2380) , una serrata critica di politiche di questa natura, nonché lo studio di Alberto Alesina, Silvia Ardagna e Vincenzo Galasso (Nber Working Paper N w14479) sull’unione monetaria e le riforme strutturali. L’analisi evidenzia che i Paesi che si sono tolti di dosso il vecchiume ed hanno accelerato le riforme sono quelli che più hanno tratto beneficio dall’unione monetaria. Tutto sommato, però, la minaccia è contenuta. Da un canto, i Capi di Stato e di Governo possono dire che non sono affari loro ma dei loro Ministri dell’Economia e delle Finanze e spedire altrove il dossier , augurandosi che si perda nei corridoi delle burocrazie. Da un altro, la Commissione Europea vigila sugli aiuti di stato e sull’eventuale utilizzo del fondo per bloccare Opa ostili.
Il trappolone è, invece, annidato in un “vertice” (convocato quasi all’improvviso dalla Presidenza francese) per una data più vicina: il 28 novembre. Riguarda l’agricoltura – la Francia otterrà, nel 2008, 10 miliardi di euro dal fondo per la politica agricola comune (Pac), una fetta importante dei 53 miliardi di euro disponibili , pari, a loro volta, al 40% del totale delle risorse comunitarie. Al vertice agricolo, viene presentato un documento (della Presidenza) in cui si elogia la “preferenza comunitaria”, si propone un ruolo dell’Ue nella soluzione “dell’equilibrio alimentare mondiale” (ciò vuol dire aumento della produzione lorda vendibile in Europa anche se non competitiva), si invita l’universo mondo ad adottare “azioni per incoraggiare la coesione in aree rurali” e si sottolineano i pregi dei prodotti “du terroir” (ossia puri ed organici). Soltanto panna montata? Non proprio. La crisi internazionale diventa un grimaldello per rilanciare quella Pac (che dovrebbe andare in pensione) ed anche per mettere una pietra tombale sul negoziato commerciale internazione, la Doha development agenda (Dda).
La riunione del 28 novembre probabilmente non avrà alcuna puntuale implicazione operativa, pur se, in ogni caso, darà un brutto colpo al moribondo Dda. Quella dell’8 e 9 gennaio serve a riproporre il problema Pac nella convinzione che i Capi di Stato e di Governo possono essere più sensibili a certe esigenze in merito alle quali gli stessi Ministri dell’agricoltura che non sono unanimi nel sostenere una Pac di cui la Francia è il principale beneficiario.
Quindi, “nessun dorma”!
martedì 25 novembre 2008
SE SIEGFRIED E' COSTRETTO A RICORRERE AL VIAGRA Il Velino 25 novembre
- “Siegfried” è forse tra le opere del “Ring” wagneriano, la più difficile da allestire. E’ la più breve delle tre “giornate”, pur se con le sue tre ore e mezza, supera di gran lunga la durata del “prologo”, l’atto unico “Das Rheingold”. Comporta una complicata produzione scenica con draghi, nani e, come protagonista, un fanciullo quasi imberbe, coperto solo di pelli (nonché in una lunga scena, quella del bagno nel sangue del drago, totalmente ignudo) ma con la voce da heldentenor (tenore eroico) che anche i migliori tenori acquistano in piena maturità. Ben Heppner, uno dei maggiori tenori wagneriani viventi, ha debuttato nel ruolo a 54 anni a Aix-en-Provence l’estate scorsa e lo replicherà al Festival di Pasqua a Salisburgo tra qualche mese. Ancora più ardue di quelle sceniche, le difficoltà musicali. Con voci quasi interamente maschili nei primi due atti, è opera densa di descrizioni (la foresta e i suoi misteri) che può essere interpretata (si riascolti la versione diretta da Karajan) quasi come un dramma pastorale o una commedia nera in stile fratelli Grimm. Ma che ha forti pulsioni eroiche (si riascolti Furtwangler o Kemp) pur nei toni talvolta di un idillio quasi intimista (nelle letture di Solti, Boulez e Bohm). Inoltre, c’è uno stacco netto tra i primi due atti e gran parte del terzo dove domina l’incredibilmente libidinosa (per metà Ottocento) scena finale. Del resto trascorsero 12 anni prima che, completato il resto, Wagner compose questa parte conclusiva.
La vulgata attribuisce la pausa alla convinzione, rivelatasi errata, che il “Ring”, pur se portato a termine, non avrebbe mai visto un palcoscenico, per ragioni sia di costo sia di innovazione drammatica e musicale. L’analisi della struttura del terzo atto e in particolare dell’ultima scena mostra, invece, che per trovare note e accordi, Wagner sarebbe dovuto scendere nell’eros e thanatos di “Tristan und Isolde”, caratterizzato da una scrittura quasi interamente cromatica con accenti tali da anticipare la dodecafonia. E risalire nell’esplosione di gioia di vita e di tolleranza tutta diatonica dei “Meistersinger”. L’ultima scena di “Siegfried” ha un impasto cromatico su una struttura diatonica, inconcepibile prima delle due opere pensate e composte nei 12 anni di interruzione del “Ring”. Ucciso il drago, bagnatosi nel suo sangue, conquistato l’anello che dona l’onnipotenza, spezzata la lancia allo stesso re degli dei, attraversato un muro di fiamme, il giovane Siegfried si trova davanti a qualcosa che non ha visto prima: una donna addormentata (Brunhilde). Si accorge della differenza quando le apre la corazza. Ha, per la prima volta nella sua vita, paura. Al ragazzo in procinto di diventare uomo, Brunhilde spiega la differenza tra generi e gli insegna cosa è l’amore e come lo si fa.
Quindi, 45 minuti di eros pieno di gioia culminante in un orgasmo finale in fortissimo “do”, proprio mentre in quegli stessi anni il melodramma in Italia, il grand opèra in Francia e il nazionalismo perbenista in Russia scacciavano l'eros, con un ostracismo durato oltre mezzo secolo, sia dal teatro in musica che dal teatro tout court. Per quei 45 minuti ci voleva una musica ardita e innovativa che sarebbe riapparsa solo nel secondo atto del “Parsifal”. Va ricordato che l’eros era di fatto scomparso dai teatri con il rossiniano “Le Conte Ory”. Lo stesso Wagner avrebbe ripreso l’argomento, prima che nel “Parsifal”, nel primo atto di “Gotterdamerung” (“Il Crepuscolo degli Dei”) dove si assiste addirittura a uno scambio di coppie in cui uno dei partner, Brunhilde, non è consenziente. La musica, però, enfatizza il dramma della violenza alla semi-divina valchiria diventata donna; non l’eros, tanto meno l’eros gioioso del finale di “Siegfried”, un vero e proprio inno alla sacralità della copula, molto più lunga e più trascinante di quella con cui si apre “Der Rosankavalier” (l’orgasmo della trentatreenne Marie Therese e del diciassettenne Octavian).
Cosa dire dell’allestimento co-prodotto dai teatri di Firenze e di Valencia? Innanzitutto, va ricordato che le prime due parti del “Ring”, presentate nel 2007, hanno meritatamente ottenuto il “Premio Abbiati” e che la conclusione “Gotterdamerung verrà presentata in primavera. In secondo luogo, va sottolineato che l’allestimento del gruppo catalano La Fura dels Baus (regista Carlos Pedrissa) è affascinante e tiene il pubblico inchiodato per oltre cinque ore intervalli compresi. In dodici schermi si succedono immagini che accompagnano il testo alla musica con effetti alla Spielberg o ai disegni animati alla Disney. Un accenno va inoltre fatto alla direzione musicale di Zubin Mehta: un “Siegfried” quasi intimista, nonostante la spettacolarità dell’allestimento, in cui la bacchetta è guidata dalla riflessione filosofica e i tempi sono leggermente dilatati. Il cast si può dire che è mediamente buono. Negativa, tuttavia, la scena sessuale del giovane Leonid Zakhozhaev nel ruolo impervio del protagonista: abbigliato con freccette multicolori come un hippy fine anni Sessanta, goffo nei movimenti e privo del volume e della capacità di ascendere a tonalità alte che richiede la partitura. Non lo aiuta di certo Jennifer Wilson, una Brunhilde formato armadio guardaroba e dal volume straripante. Nel duetto “Siefgried” pare dover ricorrere al Viagra per evitare una brutta figura.
La vulgata attribuisce la pausa alla convinzione, rivelatasi errata, che il “Ring”, pur se portato a termine, non avrebbe mai visto un palcoscenico, per ragioni sia di costo sia di innovazione drammatica e musicale. L’analisi della struttura del terzo atto e in particolare dell’ultima scena mostra, invece, che per trovare note e accordi, Wagner sarebbe dovuto scendere nell’eros e thanatos di “Tristan und Isolde”, caratterizzato da una scrittura quasi interamente cromatica con accenti tali da anticipare la dodecafonia. E risalire nell’esplosione di gioia di vita e di tolleranza tutta diatonica dei “Meistersinger”. L’ultima scena di “Siegfried” ha un impasto cromatico su una struttura diatonica, inconcepibile prima delle due opere pensate e composte nei 12 anni di interruzione del “Ring”. Ucciso il drago, bagnatosi nel suo sangue, conquistato l’anello che dona l’onnipotenza, spezzata la lancia allo stesso re degli dei, attraversato un muro di fiamme, il giovane Siegfried si trova davanti a qualcosa che non ha visto prima: una donna addormentata (Brunhilde). Si accorge della differenza quando le apre la corazza. Ha, per la prima volta nella sua vita, paura. Al ragazzo in procinto di diventare uomo, Brunhilde spiega la differenza tra generi e gli insegna cosa è l’amore e come lo si fa.
Quindi, 45 minuti di eros pieno di gioia culminante in un orgasmo finale in fortissimo “do”, proprio mentre in quegli stessi anni il melodramma in Italia, il grand opèra in Francia e il nazionalismo perbenista in Russia scacciavano l'eros, con un ostracismo durato oltre mezzo secolo, sia dal teatro in musica che dal teatro tout court. Per quei 45 minuti ci voleva una musica ardita e innovativa che sarebbe riapparsa solo nel secondo atto del “Parsifal”. Va ricordato che l’eros era di fatto scomparso dai teatri con il rossiniano “Le Conte Ory”. Lo stesso Wagner avrebbe ripreso l’argomento, prima che nel “Parsifal”, nel primo atto di “Gotterdamerung” (“Il Crepuscolo degli Dei”) dove si assiste addirittura a uno scambio di coppie in cui uno dei partner, Brunhilde, non è consenziente. La musica, però, enfatizza il dramma della violenza alla semi-divina valchiria diventata donna; non l’eros, tanto meno l’eros gioioso del finale di “Siegfried”, un vero e proprio inno alla sacralità della copula, molto più lunga e più trascinante di quella con cui si apre “Der Rosankavalier” (l’orgasmo della trentatreenne Marie Therese e del diciassettenne Octavian).
Cosa dire dell’allestimento co-prodotto dai teatri di Firenze e di Valencia? Innanzitutto, va ricordato che le prime due parti del “Ring”, presentate nel 2007, hanno meritatamente ottenuto il “Premio Abbiati” e che la conclusione “Gotterdamerung verrà presentata in primavera. In secondo luogo, va sottolineato che l’allestimento del gruppo catalano La Fura dels Baus (regista Carlos Pedrissa) è affascinante e tiene il pubblico inchiodato per oltre cinque ore intervalli compresi. In dodici schermi si succedono immagini che accompagnano il testo alla musica con effetti alla Spielberg o ai disegni animati alla Disney. Un accenno va inoltre fatto alla direzione musicale di Zubin Mehta: un “Siegfried” quasi intimista, nonostante la spettacolarità dell’allestimento, in cui la bacchetta è guidata dalla riflessione filosofica e i tempi sono leggermente dilatati. Il cast si può dire che è mediamente buono. Negativa, tuttavia, la scena sessuale del giovane Leonid Zakhozhaev nel ruolo impervio del protagonista: abbigliato con freccette multicolori come un hippy fine anni Sessanta, goffo nei movimenti e privo del volume e della capacità di ascendere a tonalità alte che richiede la partitura. Non lo aiuta di certo Jennifer Wilson, una Brunhilde formato armadio guardaroba e dal volume straripante. Nel duetto “Siefgried” pare dover ricorrere al Viagra per evitare una brutta figura.
TAGLIARE IVA E REGOLE PER MUOVERE L'EUROPA. Il Tempo 25 Novembre
A Berlino dove questa settimana si è svolta l’International Regulatory Reform Conference 2008 (un evento annuale organizzato dalla fondazione Bertelsmann ma sponsorizzato da organizzazioni internazionali ed imprese di tutto il mondo), si tocca il nodo della ripresa mondiale: a fare da traino (dicono i 20 principali modelli econometrici) sono i Paesi emergenti, gli Usa appaiono in marcato rallentamento, l’Europa in recessione. Schiacciata dal carico fiscale (mediamente 10 punti di pil di più di quello Usa e 20 di quello dell’Asia emergente) e dalla ragnatela di regole (soltanto quelle per il mercato unico europeo assommano a 150.000 pagine), paga più degli altri contenti la crisi subprime le cui origini sono (ce lo ricorda un bel libro recente di Martin Wolf) in Asia ma che è esplosa negli Usa.
I programmi di aumento di questa o quella partita di spesa pubblica per rilanciare la domanda e dare fiato all’offerta avranno poco respiro se non accompagnati da una strategia espansiva europea. Pur nel rispetto della Bce e del patto di stabilità questa politica dovrebbe avere due pilastri:
· Una riduzione coordinata dell’Iva. Le imposte indirette non sono lo strumento più efficace, ma l’Iva è l’unico di cui l’Ue dispone per dare a sé stessa ed al resto del mondo un segnale forte di mutamento di rotta: da sempre più tasse per l’Europa a un programma di riduzione di peso fiscale perché l’Europa cresca. La riduzione coordinata dell’Iva deve essere accompagnata da misure nazionali d’alleggerimento del carico. Ciò comporterà per molti Stati il superamento del vincolo del patto di stabilità (secondo cui il deficit annuo non deve superare il 3% del pil). Jean Pisani-Ferry, André Sapir e Jakob von Weizsäker (tre economisti il cui europeismo è fuori discussione) hanno proposto un rilassamento del “patto di stabilità” per i Paesi che presentino programmi triennali di riforme certificati dalla Commissione. Un’occasione su cui l’Italia deve balzare (anche a ragione della buona stampa all’estero delle misure che si stanno introducendo per migliorare ed innovare la Pa).
· Un allentamento della catena di ferro della regolamentazione europea. Per chi ne segue l’evoluzione e ne scrive da 40 anni, le istituzioni europee hanno l’immagine di un immenso Leviathan che sputa non fuoco ma regolamenti. Se ne sono convinti anche a Bruxelles ; il Vice Presidente della Commissione, Gűnter Vereughen ha iniziato un programma per ridurre del 25% entro il 2012 le regole europee in vigore (eliminando quelle ridondanti o obsolete). Il prossimo Consiglio Europeo di dicembre deve chiedere di più: ottenere dalla Commissione un impegno formale a ridurre di almeno un terzo (ed entro il 2010) il giogo regolamentare. L’impegno, di per sé stesso, darebbe un segnale forte a individui, famiglie ed imprese che l’Europa, in quanto Europa, sta effettuando una svolta, per molti aspetti epocale.
I due pilastri ci scuoterebbero da una melanconia mediterranea che pare avere contagiato anche il resto dell’Ue. Ci darebbero quell’ottimismo. Senza il quale, nella migliore delle ipotesi, si ristagna.
I programmi di aumento di questa o quella partita di spesa pubblica per rilanciare la domanda e dare fiato all’offerta avranno poco respiro se non accompagnati da una strategia espansiva europea. Pur nel rispetto della Bce e del patto di stabilità questa politica dovrebbe avere due pilastri:
· Una riduzione coordinata dell’Iva. Le imposte indirette non sono lo strumento più efficace, ma l’Iva è l’unico di cui l’Ue dispone per dare a sé stessa ed al resto del mondo un segnale forte di mutamento di rotta: da sempre più tasse per l’Europa a un programma di riduzione di peso fiscale perché l’Europa cresca. La riduzione coordinata dell’Iva deve essere accompagnata da misure nazionali d’alleggerimento del carico. Ciò comporterà per molti Stati il superamento del vincolo del patto di stabilità (secondo cui il deficit annuo non deve superare il 3% del pil). Jean Pisani-Ferry, André Sapir e Jakob von Weizsäker (tre economisti il cui europeismo è fuori discussione) hanno proposto un rilassamento del “patto di stabilità” per i Paesi che presentino programmi triennali di riforme certificati dalla Commissione. Un’occasione su cui l’Italia deve balzare (anche a ragione della buona stampa all’estero delle misure che si stanno introducendo per migliorare ed innovare la Pa).
· Un allentamento della catena di ferro della regolamentazione europea. Per chi ne segue l’evoluzione e ne scrive da 40 anni, le istituzioni europee hanno l’immagine di un immenso Leviathan che sputa non fuoco ma regolamenti. Se ne sono convinti anche a Bruxelles ; il Vice Presidente della Commissione, Gűnter Vereughen ha iniziato un programma per ridurre del 25% entro il 2012 le regole europee in vigore (eliminando quelle ridondanti o obsolete). Il prossimo Consiglio Europeo di dicembre deve chiedere di più: ottenere dalla Commissione un impegno formale a ridurre di almeno un terzo (ed entro il 2010) il giogo regolamentare. L’impegno, di per sé stesso, darebbe un segnale forte a individui, famiglie ed imprese che l’Europa, in quanto Europa, sta effettuando una svolta, per molti aspetti epocale.
I due pilastri ci scuoterebbero da una melanconia mediterranea che pare avere contagiato anche il resto dell’Ue. Ci darebbero quell’ottimismo. Senza il quale, nella migliore delle ipotesi, si ristagna.
sabato 22 novembre 2008
ARIE NUOVE E VECCHIE DISPUTE RISCALDANO IL CLIMA DA PRIMA ALLA SCALA L'Occidentale 23 novembre
Un teatro lirico è come una compagnia aerea – chi scrive è stato, per un periodo, Vice Presidente di un teatro piccolo d’opera e lo sa. Professionalità molto differenti devono cooperare armonicamente e strettamente per il bene comune: mettere in scena uno spettacolo di qualità e che piaccia al pubblico. Quando nel 2004 portammo il piccolo teatro di cui ero Vice Presidente in Giappone (18 repliche di “Traviata” in meno di un mese cambiando città quasi ogni giorno e dovendo, quindi, fare una prova generale ogni mezzogiorno nel teatro dove si andava in scena alle 18 in punto), i non addetti ai lavori furono sorpresi dalla disciplina di tutti, principalmente dell’orchestra (ragazzi e ragazze appena usciti dai conservatori, oltre la metà dei quali non aveva mai intrapreso un viaggio in aereo) e del coro (in gran misura dilettanti). Se non fossero stati tutti rigorosamente disciplinati e coordinati, lo spettacolo (grande successo esaltato da tutta la stampa nipponica) sarebbe stato un disastro.
I “gruppuscoli” lo sanno; quindi, tirano fuori la grinta per richieste particolaristiche nella convinzione di potere tenere in scacco management, artisti ospiti, colleghi e maestranze tutte. Ciò spiega il proliferare di sigle sindacali, con un abile gioco di sponda possono bloccare il teatro una alla volta. Negli Anni 80 e 90 al Teatro dell’Opera di Roma ce ne erano ben 15 ed il burattinaio pare fosse lo stesso Segretario Generale del teatro. Alla Scala ce ne sono una dozzina. L’anno scorso, varie sigle si coalizzarono e, minacciando di fare saltare la tradizionale inaugurazione della stagione a Sant’Ambrogio, indussero Prodi e Rutelli a calarsi le brache e modificare, per decreto legge, la normativa sulla contrattazione integrativa, mettendo in agitazione l’intero settore (tutti, ovviamente, vollero un contratto modellato su quello della Scala). Ciò diede il colpo finale al San Carlo di Napoli, all’Arena di Verona ed al Carlo Felice di Genova – tutti e tre commissariati, sorte verso cui si sta avviando il Comunale di Bologna e rischiano di ritrovarsi i Teatri del Maggio Musicale Fiorentino. Adesso, la minaccia viene da una piccola sigla (la Fials) che minaccia uno sciopero per un anno e denunce per comportamento anti-sindacale nei confronti del management se firma con le altre sigle e il 7 dicembre va in scena. In nuce, si ripete nella sala del Piermarini quanto avviene ogni giorno, da settimane, all’aeroporto di Fiumicino. Il 75% degli italiani sono stanchi e stufi di questo andazzo.
Ciò avviene mentre complessivamente le 13 fondazioni liriche (6000 dipendenti fissi) hanno accumulato dal 1996 (“Legge Veltroni” , una normativa così scombinata che dimostra la pochezza culturale di chi la ha redatta) 300 milioni dei debiti , tre sono all’olio santo (Roma si salva in quanto guidata da un ragioniere che si è meritato il titolo di Commendatore), un’altra sta per chiedere l’ambulanza ed il costo medio di produzione di una serata supera del 30% la media dell’Ue a 15 (quasi il 50% di quella dell’Ue a 27).
Stéphane Lissner, Sovrintendente e Direttore Artistico della Scala - da dieci anni abbiamo una buona frequentazione (specialmente l’estate a Aix-en-Provence) - ha tre alternative:
1. Prendere esempio da ciò che fece Rudolf Bing quando era general manager del Metropolitan Opera House a New York. Chiudere il teatro (e non pagare nessuno) sino a quando le varie sigle si saranno messe d’accordo. E’ di cultura socialista ed un astuto manager: già a Aix superava (nel 2003) nodi di questa natura proponendo il referendum tra i lavoratori – ovviamente se vinceva “andare in scena”, chi non si presentava era sanzionato e finiva o licenziato o in tribunale (per risarcimento danni resi al teatro) oppure sia licenziato sia in tribunale.
2. Andare in scena con un “Don Carlo” ridotto, come avviene spesso in teatri britannici, indicando nominativamente i responsabili ed iniziando vertenze giudiziarie nei confronti di ciascuno.
3. Aprire il 7 dicembre il Piermarini alla città, con le scene (più o meno) montate di “Don Carlo” e rappresentare l’opera in versione di concerto con l’accompagnamento a pianoforte.
L’alternativa che preferisco è la prima. Non considero neanche il suggerimento dell’editoriale del 22 novembre di un quotidiano milanese – “abolire Sant’Ambrogio alla Scala”. Sarebbe una capitolazione incondizionata alla Fials. Ed ai particolarismi. Con conseguenze disastrose in molti settori (non solamente la lirica).
I “gruppuscoli” lo sanno; quindi, tirano fuori la grinta per richieste particolaristiche nella convinzione di potere tenere in scacco management, artisti ospiti, colleghi e maestranze tutte. Ciò spiega il proliferare di sigle sindacali, con un abile gioco di sponda possono bloccare il teatro una alla volta. Negli Anni 80 e 90 al Teatro dell’Opera di Roma ce ne erano ben 15 ed il burattinaio pare fosse lo stesso Segretario Generale del teatro. Alla Scala ce ne sono una dozzina. L’anno scorso, varie sigle si coalizzarono e, minacciando di fare saltare la tradizionale inaugurazione della stagione a Sant’Ambrogio, indussero Prodi e Rutelli a calarsi le brache e modificare, per decreto legge, la normativa sulla contrattazione integrativa, mettendo in agitazione l’intero settore (tutti, ovviamente, vollero un contratto modellato su quello della Scala). Ciò diede il colpo finale al San Carlo di Napoli, all’Arena di Verona ed al Carlo Felice di Genova – tutti e tre commissariati, sorte verso cui si sta avviando il Comunale di Bologna e rischiano di ritrovarsi i Teatri del Maggio Musicale Fiorentino. Adesso, la minaccia viene da una piccola sigla (la Fials) che minaccia uno sciopero per un anno e denunce per comportamento anti-sindacale nei confronti del management se firma con le altre sigle e il 7 dicembre va in scena. In nuce, si ripete nella sala del Piermarini quanto avviene ogni giorno, da settimane, all’aeroporto di Fiumicino. Il 75% degli italiani sono stanchi e stufi di questo andazzo.
Ciò avviene mentre complessivamente le 13 fondazioni liriche (6000 dipendenti fissi) hanno accumulato dal 1996 (“Legge Veltroni” , una normativa così scombinata che dimostra la pochezza culturale di chi la ha redatta) 300 milioni dei debiti , tre sono all’olio santo (Roma si salva in quanto guidata da un ragioniere che si è meritato il titolo di Commendatore), un’altra sta per chiedere l’ambulanza ed il costo medio di produzione di una serata supera del 30% la media dell’Ue a 15 (quasi il 50% di quella dell’Ue a 27).
Stéphane Lissner, Sovrintendente e Direttore Artistico della Scala - da dieci anni abbiamo una buona frequentazione (specialmente l’estate a Aix-en-Provence) - ha tre alternative:
1. Prendere esempio da ciò che fece Rudolf Bing quando era general manager del Metropolitan Opera House a New York. Chiudere il teatro (e non pagare nessuno) sino a quando le varie sigle si saranno messe d’accordo. E’ di cultura socialista ed un astuto manager: già a Aix superava (nel 2003) nodi di questa natura proponendo il referendum tra i lavoratori – ovviamente se vinceva “andare in scena”, chi non si presentava era sanzionato e finiva o licenziato o in tribunale (per risarcimento danni resi al teatro) oppure sia licenziato sia in tribunale.
2. Andare in scena con un “Don Carlo” ridotto, come avviene spesso in teatri britannici, indicando nominativamente i responsabili ed iniziando vertenze giudiziarie nei confronti di ciascuno.
3. Aprire il 7 dicembre il Piermarini alla città, con le scene (più o meno) montate di “Don Carlo” e rappresentare l’opera in versione di concerto con l’accompagnamento a pianoforte.
L’alternativa che preferisco è la prima. Non considero neanche il suggerimento dell’editoriale del 22 novembre di un quotidiano milanese – “abolire Sant’Ambrogio alla Scala”. Sarebbe una capitolazione incondizionata alla Fials. Ed ai particolarismi. Con conseguenze disastrose in molti settori (non solamente la lirica).
BERLUSCONI SEMPLIFICA E TUTTI DANNO IL MERITO A PRODI, Libero 22 novembre
La regolamentazione per dare vita (e fare funzionare) al mercato unico europeo ammonta a 150.000 pagine – ancora più carta è stata necessaria per la moneta unica ed ammennicoli vari; il costo dei regolamenti Ue su cittadini ed imprese è variamente stimato tra l’1 ed il 3,5% del pil complessivo dell’Europa a 27; lo documenta Alan Hardacre in un saggio pubblicato dall’Eipa (l’istituto europeo di formazione per la pubblica amministrazione, un ente che non inforca certo occhiali malevoli nei confronti delle istituzioni europee - che lo finanziano). In Germania, soltanto gli obblighi di fornire informazioni alla burocrazia federale (escludendo quella dei Länder) tocca 40 miliardi di euro l’anno (in base ad una stima effettuata su 7.000 dei 10.500 obblighi d’informazione individuati dal Consiglio federale per il Controllo della regolazione); l’ultimo rapporto annuale del Consiglio in questione afferma che si tratta di una stima per difetto , ma che il Governo federale si è impegnato a ridurre costi delle regole su cittadini ed imprese del 25% e che, di riffa o di raffa, lo farà (la determinazione teutonica è nota, anzi notoria). I tedeschi hanno preso a modello l’Olanda che, secondo l’”International Regulatory Reform Report 2008”, in libreria in questi giorni, “è diventata un modello ed un leader internazionale in materia di riforma della regolamentazione”. Anche la Francia (notoriamente statalista ed interventista) ci sta dando a fondo: dal 2006, afferma un saggio di Frédéric Bouder, si possono avere in otto giorni tutte le autorizzazioni per fare decollare un’impresa. In Francia, come in America dall’epoca del primo Governo Reagan (misura che nessun Presidente o Congresso successivo ha modificato) , tra breve tutti i disegni e le proposte di legge dovranno essere corredati non solo di una relazione tecnica relativa all’impatto sul bilancio dello Stato (analoga a quanto predisposto in Italia con l’ausilio della Ragioneria Generale dello Stato) ma anche da un’analisi costi benefici (o costi efficacia) rigorosa.
Queste ed altre informazioni, dati ed analisi si raccolgono nella ricca documentazione presentata alla International Regulatory Reform Conference 2008 (IRRC 2008), diventata un evento annuale a cui partecipano (su inviti individuali) regolatori e de-regolatori di tutto il mondo. Dopo una serie di anni in cui la conferenza è stata tenuta a Berlino il prossimo appuntamento è a Stoccolma dall’11 al 13 novembre 2009. In breve, tutti (Governo, Parlamenti, individui, famiglie, imprese) si sentono imbrigliati in una montagna ormai disincantata di regole grandi e piccole spesso da loro stessi generate o proposte. Ciascuna ha una sua giustificazione puntuale (o la aveva quando Governi e Parlamenti oppure autorità di regolazione le hanno varate). Tuttavia, sono adesso un freno allo sviluppo, specialmente dei Paesi industriale ad economia di mercato e più particolarmente nell’iper-regolata Ue (dove regole comunitarie si sommano a quelle internazionali a quelle statali, a quelle regionali a quelle provinciali a quelle comunali a quelle delle comunità montane, e via regolamentando). La montagna disincantata spiega, in certa misura, perché da qualche anno siano i Paesi in via di sviluppo ed a basso reddito pro-capite (dove le regole sono poche e poco osservate) a tirare la carretta dell’economia mondiale. L’eccesso di regolazione in Europa spiega, in certa misura, perché la crisi finanziaria scoppiata negli Usa ha rallentato l’economia americana (meno regolata di quella Ue) ma ha portato la recessione nel vecchio continente.
Cosa fare? Un po’ tutti si arrabattano a semplificare la regolazione e a frenare l’incontinenza di chi ne propone sempre di aggiuntiva. L’Italia ha poche lezioni da offrire. E’ poco credibile la cifra di 16 miliardi di euro pubblicizzata come costi di informazione che gravano su cittadini ed imprese (rispetto ai 40 miliardi, limitati al Governo federale computati in Germania). E’ in atto da alcuni anni uno studio sui costi di un campione di regolazioni; sarebbero ora che i suoi risultati venissero presentati e discussi quanto meno in un seminario tecnico-scientifico e messi, successivamente (se si vuole), on line come primo passo per giungere a sfoltire alla grande la foresta cresciuta sulla montagna disincantata. Sarebbe anche bene che una seconda fase dello studio venga affidata a specialisti di livello internazionale (meglio se stranieri e quindi più distinti e distanti dalle nostre beghe caserecce, spesso fonte di regole per dirimerle).
Dall’IIRC 2008 è emerso un aspetto interessante il “regulatory budgetting” intrapreso in modo sistematico in Gran Bretagna e già sperimentato con successo negli Usa in alcuni settori (sanità, ambiente).Anche in Italia, c’è qualche esempio (lo si è fatto ad esempio nel valutare la posizione Ue in materia ambientale o nell’esaminare la revisione delle tax expenditures per le elargizioni liberali per la cultura). Non lo abbiamo presentato,però, al resto del mondo. Se non mostriamo agli altri le cose buone che facciamo, non lamentiamoci di non essere trattati bene. L’uditorio dell’IRRC è stato, invece, martellato da una presentazioni in cui si mostravano come sarebbero state “fondamentali” le riforme regolatorie del 2006-2007 (Governo Prodi); l’accento è stato posto sulla semplificazione di alcune procedure lavoristiche con qualche fuggevole cenno alla normativa “ghigliottina” del Governo in carica. Nessun riferimento (se non in un intervento dalla sala nella riunione conclusiva) a strumenti come la “rete amica” che abolendo il monopolio di amministrazioni grandi e piccole in materia di certificati riduce drasticamente i tempi per cittadini od imprese. Oppure alla “sunset regulation” (ossia tutta la normativa deve essere a tempo e decade se non varata di nuovo dagli organi preposti) che il Governo in carica ha in anima di varare. E via discorrendo.
Comprensibile che se si appartiene ad uno schieramento politico, si tiri l’acqua alla propria cordata. In sedi internazionale come l’IRRC , tuttavia, gli altri mostrano il punto di vista dei Governi in carica non i risultati (anche ove meritori) da chi è stato mandato all’opposizione dagli elettori. Vecchi colleghi di Banca Mondiale, Fmi, Ocse e Commissione europea non hanno risparmiato battutine di corridoio: “Ciascuno a suo modo” (come Luigi Pirandello intitolò la sua commedia più bella, ma meno rappresentata – richiede 42 personaggi in scena).
Per saperne di più
I siti www..IRR-Conference.org e www.Regulatory-Reform.info
Frick F., T. Enst (a cura di) “International Regulatory Reform 2008” Berlin, Berstelsmann Stiftung 2008
Hardcare A. “Better Regulation –What is at Stake?”in “Eipascope” N. 2 , 2008-11-18
International Risk Governance Council “Globa Risk Governance ”, Geneva 2007
National Regulatory Control Council “Annual Report. Reduction of Bureaucracy- Time to Decide”, Berlin National Normenkontrollrat, 2008
Queste ed altre informazioni, dati ed analisi si raccolgono nella ricca documentazione presentata alla International Regulatory Reform Conference 2008 (IRRC 2008), diventata un evento annuale a cui partecipano (su inviti individuali) regolatori e de-regolatori di tutto il mondo. Dopo una serie di anni in cui la conferenza è stata tenuta a Berlino il prossimo appuntamento è a Stoccolma dall’11 al 13 novembre 2009. In breve, tutti (Governo, Parlamenti, individui, famiglie, imprese) si sentono imbrigliati in una montagna ormai disincantata di regole grandi e piccole spesso da loro stessi generate o proposte. Ciascuna ha una sua giustificazione puntuale (o la aveva quando Governi e Parlamenti oppure autorità di regolazione le hanno varate). Tuttavia, sono adesso un freno allo sviluppo, specialmente dei Paesi industriale ad economia di mercato e più particolarmente nell’iper-regolata Ue (dove regole comunitarie si sommano a quelle internazionali a quelle statali, a quelle regionali a quelle provinciali a quelle comunali a quelle delle comunità montane, e via regolamentando). La montagna disincantata spiega, in certa misura, perché da qualche anno siano i Paesi in via di sviluppo ed a basso reddito pro-capite (dove le regole sono poche e poco osservate) a tirare la carretta dell’economia mondiale. L’eccesso di regolazione in Europa spiega, in certa misura, perché la crisi finanziaria scoppiata negli Usa ha rallentato l’economia americana (meno regolata di quella Ue) ma ha portato la recessione nel vecchio continente.
Cosa fare? Un po’ tutti si arrabattano a semplificare la regolazione e a frenare l’incontinenza di chi ne propone sempre di aggiuntiva. L’Italia ha poche lezioni da offrire. E’ poco credibile la cifra di 16 miliardi di euro pubblicizzata come costi di informazione che gravano su cittadini ed imprese (rispetto ai 40 miliardi, limitati al Governo federale computati in Germania). E’ in atto da alcuni anni uno studio sui costi di un campione di regolazioni; sarebbero ora che i suoi risultati venissero presentati e discussi quanto meno in un seminario tecnico-scientifico e messi, successivamente (se si vuole), on line come primo passo per giungere a sfoltire alla grande la foresta cresciuta sulla montagna disincantata. Sarebbe anche bene che una seconda fase dello studio venga affidata a specialisti di livello internazionale (meglio se stranieri e quindi più distinti e distanti dalle nostre beghe caserecce, spesso fonte di regole per dirimerle).
Dall’IIRC 2008 è emerso un aspetto interessante il “regulatory budgetting” intrapreso in modo sistematico in Gran Bretagna e già sperimentato con successo negli Usa in alcuni settori (sanità, ambiente).Anche in Italia, c’è qualche esempio (lo si è fatto ad esempio nel valutare la posizione Ue in materia ambientale o nell’esaminare la revisione delle tax expenditures per le elargizioni liberali per la cultura). Non lo abbiamo presentato,però, al resto del mondo. Se non mostriamo agli altri le cose buone che facciamo, non lamentiamoci di non essere trattati bene. L’uditorio dell’IRRC è stato, invece, martellato da una presentazioni in cui si mostravano come sarebbero state “fondamentali” le riforme regolatorie del 2006-2007 (Governo Prodi); l’accento è stato posto sulla semplificazione di alcune procedure lavoristiche con qualche fuggevole cenno alla normativa “ghigliottina” del Governo in carica. Nessun riferimento (se non in un intervento dalla sala nella riunione conclusiva) a strumenti come la “rete amica” che abolendo il monopolio di amministrazioni grandi e piccole in materia di certificati riduce drasticamente i tempi per cittadini od imprese. Oppure alla “sunset regulation” (ossia tutta la normativa deve essere a tempo e decade se non varata di nuovo dagli organi preposti) che il Governo in carica ha in anima di varare. E via discorrendo.
Comprensibile che se si appartiene ad uno schieramento politico, si tiri l’acqua alla propria cordata. In sedi internazionale come l’IRRC , tuttavia, gli altri mostrano il punto di vista dei Governi in carica non i risultati (anche ove meritori) da chi è stato mandato all’opposizione dagli elettori. Vecchi colleghi di Banca Mondiale, Fmi, Ocse e Commissione europea non hanno risparmiato battutine di corridoio: “Ciascuno a suo modo” (come Luigi Pirandello intitolò la sua commedia più bella, ma meno rappresentata – richiede 42 personaggi in scena).
Per saperne di più
I siti www..IRR-Conference.org e www.Regulatory-Reform.info
Frick F., T. Enst (a cura di) “International Regulatory Reform 2008” Berlin, Berstelsmann Stiftung 2008
Hardcare A. “Better Regulation –What is at Stake?”in “Eipascope” N. 2 , 2008-11-18
International Risk Governance Council “Globa Risk Governance ”, Geneva 2007
National Regulatory Control Council “Annual Report. Reduction of Bureaucracy- Time to Decide”, Berlin National Normenkontrollrat, 2008
venerdì 21 novembre 2008
CAI E’ PRONTA AL GRANDE PASSO MA ANCORA NON SA CON CHI L'Occidentale 21 novembre
Non è una scelta di poco conto o da farsi principalmente in base a simpatie oppure a più o meno antiche consuetudini. Il dibattito sul partner con cui la Cai dovrebbe andare a nozze deve essere inquadrato nei più vasti problemi del futuro del trasporto aereo europeo ed internazionale. In sintesi, come già sottolineato su L’Occidentale, nei cieli dei prossimi anni si profilerà sempre più una doppia tipologia di concorrenza: Su un piano, un numero limitato di “giganti” si confronterà sulle grandi rotte intercontinentali e su tratte interne (ai singoli Paesi) caratterizzate dalla clientela d’affari. Su un altro piano, le “low cost” serviranno principalmente quelle tipologie di turismo che possono programmare viaggi in anticipo (o all’ultimo minuto), che sono disponibili ad impegnarsi a date fisse di partenza e d’arrivo, che si curano essenzialmente dei servizi di base di trasporto e non di tutti gli ammennicolo che vengono con l’aereo. Unicamente, i “giganti” saranno in grado di avere una clientela diversificata, offrendo, per voli lunghi, vere e proprie cabine letto (come un tempo facevano le aerolinee argentine) ed avendo (nel medesimo aeromobile) classe business e classe economica con una gamma molto differenziata di servizi. La molla per questa trasformazione è, come sempre, il progresso tecnologico , unitamente all’aumento dei flussi di viaggiatori dalle esigenze ed abitudini più disparate.
La demarcazione tra “giganti” e “low cost” è netta. Non c’è posto per campioni nazionali o per compagnie di bandiera. Si possono macinare utili o perdite in ciascuna delle due categorie; cercare di porsi tra le due vuole dire restare al margine di ambedue i mercati. E’ ciò che ha fatto per troppi anni l’Alitalia con gli esiti che tutti sappiamo e tocchiamo con mano. E’ po’ la situazione del giovanotto che corteggiando parallelamente due fanciulle non solo non ne sposa nessuna ma va in bianco con tutte e due. E’, quindi, questo uno dei campi in cui la Cai deve dare prova di maggiore discontinuità rispetto al passato.
Gli esperti non sono unanimi sul numero di “giganti” che potrà permettersi l’Europa nel contesto mondiale dell’aviazione civile. Tuttavia, le differenze sono meno profonde di quanto non sembri. I “falchi” affermano che ne potremmo avere due. Le “colombe” parlano di quattro. Dato che British Airways e Iberia hanno già fatto una scelta (coniugandosi con American Airlines), le strade di fronte alla Cai erano essenzialmente tre: a) cercare di essere la cerniera per una grande alleanza dell’Europa continentale (alleandosi contemporaneamente sia con AirFrance-Klm sia con Lufthansa); b) sposarsi con AirFrance-Klm (con cui ha avuto un lungo, anche se un po’ burrascoso, fidanzamento; c) andare a nozze con il rivale di AirFrance-Klm, Lufthansa. Per un matrimonio, come per ballare il tango, occorre essere in due (pur se in certe parti del mondo se ne ammettono anche a tre). Il letto a tre piazze delineato in a) sarebbe stata una soluzione innovativa e rivolta al futuro ma non pare che AirFrance-Klm e Lufthansa siano pronte. Non soltanto per questione di pruderie.
Allora, la Cai non è in posizione di “scegliere di non scegliere” come la Contessa Maddalena nel “Capriccio” di Richard Strauss (la cui prima a Monaco il 28 ottobre 1942 fu piena di significato non tanto perché la vedovella andava sotto le lenzuola con due giovanotti per l’eloquenza, in quella contingenza storico-politica, della “non scelta”). Per la Contessa Maddalena, la scelta implicava se scegliere il bel poeta od il bel compositori (i due contendenti del suo materasso). Per la Cai, AirFrance-Klm oppure Lufthansa implicano due strategie molto differenti.
AirFrance-Klm è stata per anni associata con Alitalia in Sky Team ; esiste una forte consuetudine a lavorare insieme, al code-sharing delle rotte , a servizi in comune.Si andrebbe sul consolidato. AirFrance-Klm ha però un unico “maxi-hub” – a Parigi- ed un midi-hub a Amsterdam. Un matrimonio tra Cai e AirFrance-Klm farebbe diventare Fiumicino il “mini-hub” per il medio Oriente, l’Africa e le rotte meridionali verso l’Estremo Oriente. Nozze con Lufthansa vorrebbe dire sposarsi chi è alla ricerca di un terzo grande “hub” (con Francoforte e Monaco- ed il “midihub” di Berlino-Tegel) e pensa di averlo trovato a Malpensa. Gli “hub” sono la punta di un iceberg di politica della navigazione aerea. Ed è l’intero iceberg che la Cai sta valutando in questi giorni.
La demarcazione tra “giganti” e “low cost” è netta. Non c’è posto per campioni nazionali o per compagnie di bandiera. Si possono macinare utili o perdite in ciascuna delle due categorie; cercare di porsi tra le due vuole dire restare al margine di ambedue i mercati. E’ ciò che ha fatto per troppi anni l’Alitalia con gli esiti che tutti sappiamo e tocchiamo con mano. E’ po’ la situazione del giovanotto che corteggiando parallelamente due fanciulle non solo non ne sposa nessuna ma va in bianco con tutte e due. E’, quindi, questo uno dei campi in cui la Cai deve dare prova di maggiore discontinuità rispetto al passato.
Gli esperti non sono unanimi sul numero di “giganti” che potrà permettersi l’Europa nel contesto mondiale dell’aviazione civile. Tuttavia, le differenze sono meno profonde di quanto non sembri. I “falchi” affermano che ne potremmo avere due. Le “colombe” parlano di quattro. Dato che British Airways e Iberia hanno già fatto una scelta (coniugandosi con American Airlines), le strade di fronte alla Cai erano essenzialmente tre: a) cercare di essere la cerniera per una grande alleanza dell’Europa continentale (alleandosi contemporaneamente sia con AirFrance-Klm sia con Lufthansa); b) sposarsi con AirFrance-Klm (con cui ha avuto un lungo, anche se un po’ burrascoso, fidanzamento; c) andare a nozze con il rivale di AirFrance-Klm, Lufthansa. Per un matrimonio, come per ballare il tango, occorre essere in due (pur se in certe parti del mondo se ne ammettono anche a tre). Il letto a tre piazze delineato in a) sarebbe stata una soluzione innovativa e rivolta al futuro ma non pare che AirFrance-Klm e Lufthansa siano pronte. Non soltanto per questione di pruderie.
Allora, la Cai non è in posizione di “scegliere di non scegliere” come la Contessa Maddalena nel “Capriccio” di Richard Strauss (la cui prima a Monaco il 28 ottobre 1942 fu piena di significato non tanto perché la vedovella andava sotto le lenzuola con due giovanotti per l’eloquenza, in quella contingenza storico-politica, della “non scelta”). Per la Contessa Maddalena, la scelta implicava se scegliere il bel poeta od il bel compositori (i due contendenti del suo materasso). Per la Cai, AirFrance-Klm oppure Lufthansa implicano due strategie molto differenti.
AirFrance-Klm è stata per anni associata con Alitalia in Sky Team ; esiste una forte consuetudine a lavorare insieme, al code-sharing delle rotte , a servizi in comune.Si andrebbe sul consolidato. AirFrance-Klm ha però un unico “maxi-hub” – a Parigi- ed un midi-hub a Amsterdam. Un matrimonio tra Cai e AirFrance-Klm farebbe diventare Fiumicino il “mini-hub” per il medio Oriente, l’Africa e le rotte meridionali verso l’Estremo Oriente. Nozze con Lufthansa vorrebbe dire sposarsi chi è alla ricerca di un terzo grande “hub” (con Francoforte e Monaco- ed il “midihub” di Berlino-Tegel) e pensa di averlo trovato a Malpensa. Gli “hub” sono la punta di un iceberg di politica della navigazione aerea. Ed è l’intero iceberg che la Cai sta valutando in questi giorni.
giovedì 20 novembre 2008
IL VAMPIRO DI MARSCHNER DIVENTA ANCORA PIU' LUGUBRE Milano Finanza 21 novembre
La stagione 2008-2009 del Teatro Comunale di Bologna è stata inaugurata con la prima assoluta per l'Italia di Der Vampyr, opera del 1828 di Heinrich Marschner. Tratta da un romanzo di J.W. Polidori, si svolge non in Transilvania ma in Gran Bretagna: il Vampiro emerge dall'oltretomba con il compito di uccidere tre vergini in 24 ore. Due ragazze in procinto di sposarsi finiscono sue prede ma la terza (e il proprio fidanzato) riescono a ribellarsi e a rispedirlo tra diavoli e zolfo. Nei due atti, parti in prosa si alternano a numeri musicali; tra questi ultimi, quelli a carattere più marcatamente diabolico (che preannunciano Wagner, anche quello di Lohengrin) ad arie, duetti, terzetti e concertati di stampo mozartiano (con richiami al virtuosismo del bel canto italiano). Non mancano situazioni, e musica, da opera buffa.
Der Vampyr è una proposta interessante, a pochi anni di distanza dalla prima italiana, a Cagliari, di quello che viene considerato il capolavoro di Marschner, Hans Heiling. Pierluigi Pizzi (autore di regia, scene e costumi) situa l'azione in una Gran Bretagna dove le feste pre-matrimoniali diventano piccole orge e si balla il rock-and-roll. La scena unica è un lugubre cimitero con un bel green da campo da golf. La scelta, però, non convince e fa perdere il carattere eclettico del testo e della partitura. Il carattere multifronte della scrittura orchestrale e vocale è colto a pieno, invece, da Roberto Abbado: nella «ouverture» si respira Mozart, al demoniaco si giustappongono echi rossiniani. Ciò nonostante, il lavoro ha una sua unità e integrità. Di livello il cast internazionale, specialmente i quattro protagonisti: Carmela Remigio, Donata D'Annunzio Lombardi, Detlef Rof, John Osborn, affiancati da una dozzina di altri solisti e da un coro che ha un ruolo importante. (riproduzione riservata)
Der Vampyr è una proposta interessante, a pochi anni di distanza dalla prima italiana, a Cagliari, di quello che viene considerato il capolavoro di Marschner, Hans Heiling. Pierluigi Pizzi (autore di regia, scene e costumi) situa l'azione in una Gran Bretagna dove le feste pre-matrimoniali diventano piccole orge e si balla il rock-and-roll. La scena unica è un lugubre cimitero con un bel green da campo da golf. La scelta, però, non convince e fa perdere il carattere eclettico del testo e della partitura. Il carattere multifronte della scrittura orchestrale e vocale è colto a pieno, invece, da Roberto Abbado: nella «ouverture» si respira Mozart, al demoniaco si giustappongono echi rossiniani. Ciò nonostante, il lavoro ha una sua unità e integrità. Di livello il cast internazionale, specialmente i quattro protagonisti: Carmela Remigio, Donata D'Annunzio Lombardi, Detlef Rof, John Osborn, affiancati da una dozzina di altri solisti e da un coro che ha un ruolo importante. (riproduzione riservata)
EUROPA E USA CONDANNATE A DIVIDERSI SUI SISTEMI DI CONTROLLO DEI MERCATI, Libero 20 novembre
Berlino. Un accordo transatlantico sulle regole per la finanza internazionale è fattibile, ma non scontati. Questa una delle sensazioni che si coglie dalla International Regulatory Reform Conference 2008 (Irrc 2008) organizzata dalla Bertelsmann Stiftung in collaborazione con le maggiori organizzazioni internazionali (Banca mondiale, Ocse, Commissione Europea), istituzioni private ( tra cui Ernst Young Institute for Better Government, Eipa, Society for Risk Analysis) ed Università (tra cui Pennysvania, Exeter, King’s College). L’Irrc è da circa un lustro un evento annuale ; si accede unicamente per invito e vengono invitati unicamente esperti del campo. E’ nata con l’obiettivo generale di semplificare e rendere più trasparente la regolazione pubblica e delle politiche pubbliche. Organizzata in “linee di lavoro” e sessioni plenarie, , quest’anno i 500 esperti venuti da tutto il mondo, si danno convengo dal 16 al 18 novembre. La macchina organizzativa dell’Irrc 2008 è stata messa in moto molto prima che la crisi finanziaria internazionale in atto avesse le caratteristiche di questi ultimi mesi tali da indurre alla convocazione del G20 – ad esempio, a me l’invito a partecipare è arrivato in agosto. Tuttavia, dato che si tiene all’indomani del G20 consente di prendere il polso su punti di vista ed impressioni di esperti della materia a proposito delle conclusioni della riunione appena conclusasi a Washington. Il tema non è all’ordine del giorno, ma se ne parla in numerose “linee di lavoro” dell’Irrc – ad esempio in quella sull’analisi di rischio- nonché in conversazioni tra i partecipanti.
Incoraggiante, ad esempio, il punto di vista di C. Burden Gray (Inviato Speciale per gli Affari Europei - in scadenza di mandato- dell’Amministrazione George W.Bush a Bruxelles). Gray sottolinea che “Usa ed Ue non debbono più avere differenze in materia di analisi d’impatto della regolazione (soprattutto in tema di finanza e di bache”; ciò “è possibile e fattibile” in quanto “a livello tecnico le differenze non sono insormontabili”. E le differenze politiche sono spesso ammantate da “veli tecnici” che celano, in sostanza, interessi (quasi sempre legittimi) di scuole di pensiero. Meno ottimista ma molto chiaro, il Vice Presidente della Banca mondiale (con delegate per settore finanziario privato) e Capo Economista della Società finanziaria internazionale, Michael Klein. Sottolinea come le radici dei nodi venuti al pettine in questi ultimi anni siano profonde: si è passati da economie (nella cui struttura di produzione predominano manifattura e agricoltura) dove la concorrenza ed il funzionamento delle regole del mercato sono “facili” ed economie di servizi “dove è difficile introdurre la concorrenza ed il mercato. In esse si deve fare ricorso ad un equilibrio delicato tra coordinamento (da parte della mano pubblica) e mercato. Un equilibrio difficile. Secondo Klein, il G20 ha mostrato due tendenze ancora marcatamente distinte e distanti. Nella visione, per così dire, “americana” le semplificazione e la maggiore trasparenza delle regole (e della loro attuazione) sarebbero la leva per sciogliere i nodi. In quella “europea”, soprattutto dell’Europa continentale, ed “asiatica”, l’accento è su un maggiore intervento regolamentare (sia nazionale sia internazionale) auspicabilmente di migliore qualità e su un forte scetticismo nei confronti del mercato sia delle autorità di regolazione e di vigilanza- serpeggia il principio secondo cui “sarebbe meglio rimettere i problemi in mano agli eletti”. I quali, però, sono spesso catturati da interessi particolaristici.
Due letture, se non proprio contrapposte, quanto meno divergenti . Esse riassumono bene l’atmosfera che si avverte del centro di conferenze Axica, a due passi dalla Porta di Brandeburgo. L’accordo transatlantico , dunque, è possibile ma non dietro l’angolo.
Incoraggiante, ad esempio, il punto di vista di C. Burden Gray (Inviato Speciale per gli Affari Europei - in scadenza di mandato- dell’Amministrazione George W.Bush a Bruxelles). Gray sottolinea che “Usa ed Ue non debbono più avere differenze in materia di analisi d’impatto della regolazione (soprattutto in tema di finanza e di bache”; ciò “è possibile e fattibile” in quanto “a livello tecnico le differenze non sono insormontabili”. E le differenze politiche sono spesso ammantate da “veli tecnici” che celano, in sostanza, interessi (quasi sempre legittimi) di scuole di pensiero. Meno ottimista ma molto chiaro, il Vice Presidente della Banca mondiale (con delegate per settore finanziario privato) e Capo Economista della Società finanziaria internazionale, Michael Klein. Sottolinea come le radici dei nodi venuti al pettine in questi ultimi anni siano profonde: si è passati da economie (nella cui struttura di produzione predominano manifattura e agricoltura) dove la concorrenza ed il funzionamento delle regole del mercato sono “facili” ed economie di servizi “dove è difficile introdurre la concorrenza ed il mercato. In esse si deve fare ricorso ad un equilibrio delicato tra coordinamento (da parte della mano pubblica) e mercato. Un equilibrio difficile. Secondo Klein, il G20 ha mostrato due tendenze ancora marcatamente distinte e distanti. Nella visione, per così dire, “americana” le semplificazione e la maggiore trasparenza delle regole (e della loro attuazione) sarebbero la leva per sciogliere i nodi. In quella “europea”, soprattutto dell’Europa continentale, ed “asiatica”, l’accento è su un maggiore intervento regolamentare (sia nazionale sia internazionale) auspicabilmente di migliore qualità e su un forte scetticismo nei confronti del mercato sia delle autorità di regolazione e di vigilanza- serpeggia il principio secondo cui “sarebbe meglio rimettere i problemi in mano agli eletti”. I quali, però, sono spesso catturati da interessi particolaristici.
Due letture, se non proprio contrapposte, quanto meno divergenti . Esse riassumono bene l’atmosfera che si avverte del centro di conferenze Axica, a due passi dalla Porta di Brandeburgo. L’accordo transatlantico , dunque, è possibile ma non dietro l’angolo.
mercoledì 19 novembre 2008
I VAMPIRI SONO TRA NOI Il Velino 18 novembre
La sera del 15 novembre, l’elegante pubblico per l’inaugurazione della stagione 2008-2009 del Teatro Comunale di Bologna (molti sono arrivati correndo dalla “Lettura Annuale” dell’Associazione “Il Mulino” nell’aula magna dell’università evento carissimo all’intellighentsia lib-lab) è stato accolto da striscioni e manifesti delle maestranze di una fondazione lirica su cui incombe lo spettro del commissariamento. Elegante l’ultimo presentato da tutta la compagnia quando, tre ore più tardi, si raccoglievano gli applausi del pubblico: “I vampiri non siamo noi”. Nell’intervallo, Unipol ha servito a tutti gli spettatori, vini, tartine, sandwich e pasticcini, segno che, come Santa Romana Chiesa, il teatro è povero, ma non indigente. In effetti, anche se i vampiri non sono le maestranze del comunale, occorre chiedersi se non ci siamo vampiri nel funzionamento delle fondazioni liriche, o se non ci siano stati per numerosi anni. Come mai non si è ancora dato vita ad un cartellone nazionale in cui molte opere di gradimento al grande pubblico verrebbero circuitate tra fondazioni liriche con risparmi di allestimenti e di cachet per gli artisti (anche se non risolverebbe i problemi delle masse artistiche e maestranze tecnico-amministrative)? Perché pullulano i teatri “di tradizione”? Perché tanto poco si fa in materia di co-produzioni? Perché un Teatro sull’orlo del baratro , come il Comunale di Bologna, acquista pagine intere di pubblicità redazionale su quotidiani di grande tiratura?
Ma andiamo all’opera . Tratta un romanzo di J.W. Polidori e da un “play” di successo nella Parigi del 1820 (ripreso a Broadway una trentina di anni fà), si volge Sozia: il Vampiro emerge dall’oltretomba (che gli sta stretto, nonostante le orge ed i sacrifici di belle ragazze nude , primo quadro del primo atto), ma può restare nella terra unicamente se riesce ad uccidere tre vergini in 24 ore. Due ragazze in procinto di sposarsi finiscono sue prede ma la terza (ed il proprio fidanzato) si ribellano e rispediscono. In linea con il teatro in musica tedesco dell’inizio dell’Ottocento, nei due atti, parti in prosa si alternano a numeri musicali; sotto il profilo strettamente musicale, momenti a carattere più marcatamente “diabolico” (che preannunciano il Wagner di “Die fliegende Höllander” ed anche di “Lohengrin”) ad arie, duetti, terzetti e concertati di stampo mozartiano (con pure richiami al virtuosismo del “bel canto” italiano) . Non mancano situazioni, e musica, da “operabuffa” (quale il quartetto dei beoni nel primo quadro del secondo atto) che ricordano gioielli come quelli di Nicolai.
Marschner ebbe grande successo in Germania e Gran Bretagna nella prima metà dell’Ottocento. Già metà del 19simo secolo, il più autorevole critico dell’epoca, Eduard Hanslick, definì “Der Vampyr” “sintomo di un Romanticismo morbosamente sovreccitato, che dominò la nostra musica operistica negli anni 20 e 30”. “Der Vampyr” sparì dai cartelloni sino a quando venne rilanciata, nel 1924, dal compositore Hans Pfitzner, che la giudicava “una perla della musica operistica tedesca”. Richard Wagner, che verso il 1840 stava approntando lui stesso un’opera demoniaca (per l’appunto “Die fliegende Höllander”), vi aveva aggiunto un’aria di proprio pugno. “Der Vampyr” è una proposta interessante, a pochi di distanza dalla “prima” italiana, a Cagliari, di quello che considero il capolavoro di Marschner, la “grande opera romantica” a carattere fantastico “Hans Heiling”.
Pierluigi Pizzi (autore di regia, scene e costumi) situa l’azione in una Gran Bretagna circa 1950, dove le feste pre-matrimoniali diventano oretta, si fornica educatamente e si ballano ritmi moderni (la musica si adatta bene). Nel programma di sala Pizzi spiega le sue scelte : collocare l’opera “in un tempo fuori dal tempo”, enfatizzare un elemento fisso (una radura) utilizzando molto le luci per cambiare atmosfere, Tuttavia, la scena pare un lugubre cimitero con un “green” da campo da golf. Resto perplesso in quanto da un lato manca l’elemento gotico e dall’altro si avverte l’ironia di un lavoro in cui lo stesso Vampiro afferma di avere il cuore dolce (ha una carica erotica analoga a quello di un adolescente in piena esplosione ormonale) e la sua ultima preda (ed il di lei fidanzato) danno sfoggio di tutte le acrobazia della vocalità a cavallo tra fine Settecento ed inizio Ottocento.
Dell’esecuzione musicale (di grande livello) si tratta in altra sede. Resta un interrogativo: se si resuscita il vampiro di Marschner perché solo 6 recite a Bologna e non co-produrlo con altri teatri per effettuare sinergie e contenere i costi?
Ma andiamo all’opera . Tratta un romanzo di J.W. Polidori e da un “play” di successo nella Parigi del 1820 (ripreso a Broadway una trentina di anni fà), si volge Sozia: il Vampiro emerge dall’oltretomba (che gli sta stretto, nonostante le orge ed i sacrifici di belle ragazze nude , primo quadro del primo atto), ma può restare nella terra unicamente se riesce ad uccidere tre vergini in 24 ore. Due ragazze in procinto di sposarsi finiscono sue prede ma la terza (ed il proprio fidanzato) si ribellano e rispediscono. In linea con il teatro in musica tedesco dell’inizio dell’Ottocento, nei due atti, parti in prosa si alternano a numeri musicali; sotto il profilo strettamente musicale, momenti a carattere più marcatamente “diabolico” (che preannunciano il Wagner di “Die fliegende Höllander” ed anche di “Lohengrin”) ad arie, duetti, terzetti e concertati di stampo mozartiano (con pure richiami al virtuosismo del “bel canto” italiano) . Non mancano situazioni, e musica, da “operabuffa” (quale il quartetto dei beoni nel primo quadro del secondo atto) che ricordano gioielli come quelli di Nicolai.
Marschner ebbe grande successo in Germania e Gran Bretagna nella prima metà dell’Ottocento. Già metà del 19simo secolo, il più autorevole critico dell’epoca, Eduard Hanslick, definì “Der Vampyr” “sintomo di un Romanticismo morbosamente sovreccitato, che dominò la nostra musica operistica negli anni 20 e 30”. “Der Vampyr” sparì dai cartelloni sino a quando venne rilanciata, nel 1924, dal compositore Hans Pfitzner, che la giudicava “una perla della musica operistica tedesca”. Richard Wagner, che verso il 1840 stava approntando lui stesso un’opera demoniaca (per l’appunto “Die fliegende Höllander”), vi aveva aggiunto un’aria di proprio pugno. “Der Vampyr” è una proposta interessante, a pochi di distanza dalla “prima” italiana, a Cagliari, di quello che considero il capolavoro di Marschner, la “grande opera romantica” a carattere fantastico “Hans Heiling”.
Pierluigi Pizzi (autore di regia, scene e costumi) situa l’azione in una Gran Bretagna circa 1950, dove le feste pre-matrimoniali diventano oretta, si fornica educatamente e si ballano ritmi moderni (la musica si adatta bene). Nel programma di sala Pizzi spiega le sue scelte : collocare l’opera “in un tempo fuori dal tempo”, enfatizzare un elemento fisso (una radura) utilizzando molto le luci per cambiare atmosfere, Tuttavia, la scena pare un lugubre cimitero con un “green” da campo da golf. Resto perplesso in quanto da un lato manca l’elemento gotico e dall’altro si avverte l’ironia di un lavoro in cui lo stesso Vampiro afferma di avere il cuore dolce (ha una carica erotica analoga a quello di un adolescente in piena esplosione ormonale) e la sua ultima preda (ed il di lei fidanzato) danno sfoggio di tutte le acrobazia della vocalità a cavallo tra fine Settecento ed inizio Ottocento.
Dell’esecuzione musicale (di grande livello) si tratta in altra sede. Resta un interrogativo: se si resuscita il vampiro di Marschner perché solo 6 recite a Bologna e non co-produrlo con altri teatri per effettuare sinergie e contenere i costi?
I DUE TAVOLI DI OBAMA PER SUPERARE L’IMPASSE Libero del 18 Novembre
La settimana appena iniziata ci dirà se il G20 ha raggiunto il proprio scopo immediato: “tenere alto il morale delle truppe” e frenare ulteriori crolli dei mercati e rallentamenti (maggiori di quanto già previsto) dell’economia reale. Entro la fine dell’anno potremo dire se il G20 ha centrato il suo obiettivo di breve periodo: impedire il ritorno (alla grande) del protezionismo e la dichiarazione di morte della Doha development agenda (Dda), il negoziato multilaterale sugli scambi in corso, in sono all’Organizzazione mondiale del commercio(Omc/Wto); dal novembre 2001. Non prima della primavera prossima, potremo cominciare ad intravedere se l’Amministrazione americana (guidata da Barack Omaba) è in grado di portare avanti con successo il gioco su due tavoli (la Washington-che-può parla ironicamente di “doppio gioco”) essenziale per mantenere gli aspetti centrali delle promesse a medio e lungo termine formulate nel comunicato del G20 del 15 novembre.
Spieghiamo perché. L’America è, oggi come prima, il perno del sistema economico internazionale: la crisi finanziaria è nata negli Stati Uniti (anche se, come vedremo. ha origini più lontane),si sta propagando nel resto del mondo e, quindi, è dagli Usa che deve trovare soluzione. La soluzione, però, ha un doppio volto: da un lato (o se vogliamo su un tavolo), la Casa Bianca deve individuarla (ed attuarla) con l’Asia (al fine di stroncare le radici di crisi analoghe); da un altro (il secolo tavolo) deve lavorare con l’Europa per definire una nuova architettura istituzionale e nuove regole. La crisi “subprime” (chiamiamola così per semplificare) ha le proprie origini in Asia, ma è con l’Ue che gli Usa condividono, da oltre 60 anni, cultura ed esperienze per la costruzione e l’applicazione di architetture e regole per la finanza e l’economia mondiale. Il gioco è difficile proprio perché doppio.
Le radici asiatiche della crisi sono illustrate molto efficamente da Martin Wolf, a lungo mio amico e collega in Banca mondiale e da anni alla guida degli editorialisti del “Financial Times”, nel libro “Fixing Global Finance: How to Curb Financial Crises in the 21st Century” (Johns Hopkins University Press). L’America (ed il resto del mondo) sono finiti nella trappola del “subprime” a ragione della “crisi asiatica” di 12 anni fa. Da un verso, scottati dagli squilibri di breve periodo (alla base dell’instabilità, prevalentemente nel bacino del Pacifico, del 1996-98 ), i Paesi asiatici interessati hanno condotto politiche mirate ad accumulare avanzi della bilancia dei pagamenti (per tutelarsi da nuove tensioni) ; gli Usa erano ben lieti di dare loro una mano (portando il proprio disavanzo con l’estero annua al 6-7% del pil ed espandendo oltre misura il proprio debito con il resto del mondo). Parte dei surplus asiatici tornavano negli Usa, dove, in aggiunta, la politica della moneta era espansionista e quella di bilancio in squilibrio a ragione, tra l’altro, degli impegni per la sicurezza nazionale. E’ in questa euforia che hanno avuto origine gli eccessi (tra cui il “subprime” nelle sue varie forme e guise). Nel tavolo Usa-Asia , dunque, la partita deve mirare ad un accordo sulla riduzione degli squilibri finanziari mondiali - un breve un “maxi-Plaza agreement” (realizzato quando il mondo era molto più semplice). Non è compito facile perché ciò vuole dire nuove politiche negli Usa ed in Asia ed anche perché un rallentamento in Oriente (inevitabile per giungere a nuovi equilibri) danneggia un’Ue la cui crescita dipende in gran misura dalla domanda estera.
Non è molto più semplice il tavolo Usa-Ue. Ci sono alcuni punti essenziali su cui nel futuro percorso verso il riassetto, una rinnovata partnership atlantica Usa-Ue può lavorare con profitto:
· La chiave della futura architettura finanziaria internazionale è la trasparenza- ciò che né Fmi, né Ocse, né l’Institute of International Finance né la moltitudine di altre istituzioni sono state in grado di assicurare in questi ultimi venti anni. La trasparenza deve riguardare specialmente due aspetti: la leva finanziaria ed il rischio. Se questi due nodi sono risolti quelli della finanza strutturata “tossica” si risolvono senza perdere i benefici della finanza strutturata in buona salute.
· La regolazione e la vigilanza devono restare dominio dei singoli Stati (anche se nell’Ue è pensabile un graduale spostamento a livello sopranazionale) , ma le autorità di regolazione e di vigilanza devono avere per quanto possibile un approccio comune al fine di non distorcere la concorrenza tra intermediari finanziari, di varia natura, forma e guisa e contenere (ove non sia possibile evitarlo) l’”arbitraggio regolatorio” (ossia la scelta di effettuare operazioni là dove la regolazione e la vigilanza sono più lasche), una brutta moda di questi ultimi anni. Ciò comporta in molti Stati (soprattutto negli Usa ma anche in Italia) una semplificazione dell’architettura nazionale di regolazione e di vigilanza .
· Una più rapida convergenza dei metodi, delle tecniche, delle procedure e delle prassi nazionali ed un loro maggior coordinamento allo scopo, non solo come si è detto di promuovere la convergenza, ma anche e soprattutto quello di contenere il contagio , in caso di crisi.
· Una risposta equilibrata alle fasi di instabilità, evitando di disseminare panico e di buttare via il bambino con l’acqua sporta. La “damnatio” lanciata contro i derivati (nati, lo ripetiamo, nell’antica Mesopotamia) minaccia di frenare non la finanza ma anche l’economia internazionale, con costi elevati per tutti.
· Gli intermediari finanziari devono, come qualsiasi altro settore produttivo, pagare per i propri eccessi soprattutto se coniugati con promesse (non mantenute) ai propri clienti e con lasche analisi di rischio su titoli più o meno strutturati e su investimenti.
· I Governi devono operarsi per evitare la trappola di una Bretton Woods all’incontrario in cui, con il pretesto del riassetto delle regole e delle prassi in materia finanziaria, torni il protezionismo commerciali nelle vesti e nelle maschere più inconsuete.
Ci sono, però, differenze anche profonde all’interno dell’Ue su molti di questi punti. Tanto l’accordo con l’Asia quanto quello con l’Europa comportano per Obama un rinvio (forse di diversi anni) di molti impegni di politica interna assunti in campagna elettorale.
Sotto il profilo tecnico, “la teoria dei giochi” può aiutare a risolvere i giochi multipli (su più tavoli). Sempre, però, che si sia pronti ad accantonare puntate fatte con i partner che più conta: il proprio elettorato.
Spieghiamo perché. L’America è, oggi come prima, il perno del sistema economico internazionale: la crisi finanziaria è nata negli Stati Uniti (anche se, come vedremo. ha origini più lontane),si sta propagando nel resto del mondo e, quindi, è dagli Usa che deve trovare soluzione. La soluzione, però, ha un doppio volto: da un lato (o se vogliamo su un tavolo), la Casa Bianca deve individuarla (ed attuarla) con l’Asia (al fine di stroncare le radici di crisi analoghe); da un altro (il secolo tavolo) deve lavorare con l’Europa per definire una nuova architettura istituzionale e nuove regole. La crisi “subprime” (chiamiamola così per semplificare) ha le proprie origini in Asia, ma è con l’Ue che gli Usa condividono, da oltre 60 anni, cultura ed esperienze per la costruzione e l’applicazione di architetture e regole per la finanza e l’economia mondiale. Il gioco è difficile proprio perché doppio.
Le radici asiatiche della crisi sono illustrate molto efficamente da Martin Wolf, a lungo mio amico e collega in Banca mondiale e da anni alla guida degli editorialisti del “Financial Times”, nel libro “Fixing Global Finance: How to Curb Financial Crises in the 21st Century” (Johns Hopkins University Press). L’America (ed il resto del mondo) sono finiti nella trappola del “subprime” a ragione della “crisi asiatica” di 12 anni fa. Da un verso, scottati dagli squilibri di breve periodo (alla base dell’instabilità, prevalentemente nel bacino del Pacifico, del 1996-98 ), i Paesi asiatici interessati hanno condotto politiche mirate ad accumulare avanzi della bilancia dei pagamenti (per tutelarsi da nuove tensioni) ; gli Usa erano ben lieti di dare loro una mano (portando il proprio disavanzo con l’estero annua al 6-7% del pil ed espandendo oltre misura il proprio debito con il resto del mondo). Parte dei surplus asiatici tornavano negli Usa, dove, in aggiunta, la politica della moneta era espansionista e quella di bilancio in squilibrio a ragione, tra l’altro, degli impegni per la sicurezza nazionale. E’ in questa euforia che hanno avuto origine gli eccessi (tra cui il “subprime” nelle sue varie forme e guise). Nel tavolo Usa-Asia , dunque, la partita deve mirare ad un accordo sulla riduzione degli squilibri finanziari mondiali - un breve un “maxi-Plaza agreement” (realizzato quando il mondo era molto più semplice). Non è compito facile perché ciò vuole dire nuove politiche negli Usa ed in Asia ed anche perché un rallentamento in Oriente (inevitabile per giungere a nuovi equilibri) danneggia un’Ue la cui crescita dipende in gran misura dalla domanda estera.
Non è molto più semplice il tavolo Usa-Ue. Ci sono alcuni punti essenziali su cui nel futuro percorso verso il riassetto, una rinnovata partnership atlantica Usa-Ue può lavorare con profitto:
· La chiave della futura architettura finanziaria internazionale è la trasparenza- ciò che né Fmi, né Ocse, né l’Institute of International Finance né la moltitudine di altre istituzioni sono state in grado di assicurare in questi ultimi venti anni. La trasparenza deve riguardare specialmente due aspetti: la leva finanziaria ed il rischio. Se questi due nodi sono risolti quelli della finanza strutturata “tossica” si risolvono senza perdere i benefici della finanza strutturata in buona salute.
· La regolazione e la vigilanza devono restare dominio dei singoli Stati (anche se nell’Ue è pensabile un graduale spostamento a livello sopranazionale) , ma le autorità di regolazione e di vigilanza devono avere per quanto possibile un approccio comune al fine di non distorcere la concorrenza tra intermediari finanziari, di varia natura, forma e guisa e contenere (ove non sia possibile evitarlo) l’”arbitraggio regolatorio” (ossia la scelta di effettuare operazioni là dove la regolazione e la vigilanza sono più lasche), una brutta moda di questi ultimi anni. Ciò comporta in molti Stati (soprattutto negli Usa ma anche in Italia) una semplificazione dell’architettura nazionale di regolazione e di vigilanza .
· Una più rapida convergenza dei metodi, delle tecniche, delle procedure e delle prassi nazionali ed un loro maggior coordinamento allo scopo, non solo come si è detto di promuovere la convergenza, ma anche e soprattutto quello di contenere il contagio , in caso di crisi.
· Una risposta equilibrata alle fasi di instabilità, evitando di disseminare panico e di buttare via il bambino con l’acqua sporta. La “damnatio” lanciata contro i derivati (nati, lo ripetiamo, nell’antica Mesopotamia) minaccia di frenare non la finanza ma anche l’economia internazionale, con costi elevati per tutti.
· Gli intermediari finanziari devono, come qualsiasi altro settore produttivo, pagare per i propri eccessi soprattutto se coniugati con promesse (non mantenute) ai propri clienti e con lasche analisi di rischio su titoli più o meno strutturati e su investimenti.
· I Governi devono operarsi per evitare la trappola di una Bretton Woods all’incontrario in cui, con il pretesto del riassetto delle regole e delle prassi in materia finanziaria, torni il protezionismo commerciali nelle vesti e nelle maschere più inconsuete.
Ci sono, però, differenze anche profonde all’interno dell’Ue su molti di questi punti. Tanto l’accordo con l’Asia quanto quello con l’Europa comportano per Obama un rinvio (forse di diversi anni) di molti impegni di politica interna assunti in campagna elettorale.
Sotto il profilo tecnico, “la teoria dei giochi” può aiutare a risolvere i giochi multipli (su più tavoli). Sempre, però, che si sia pronti ad accantonare puntate fatte con i partner che più conta: il proprio elettorato.
"MEZZOGIORNO DI CUOCO": COME MANGIANO GLI ITALIANI Il Tempo 17 Novembre
Negli Anni 70, un capolavoro di Roberto Rossellini, commissionato dalla televisione francese, raccontava, in 90 minuti, la presa di potere di Luigi XIV documentando (in pieno rispetto d’unità di tempo, luogo e spazio) il ricco banchetto con il quale il giovane Re Sole mostrò a tutti di essere una spanna sopra gli altri. Con maggiori ambizioni, qualche anno fa, Kenneth F. Kiple e Kriemhild Conée Ornelas, ed una schiera di loro collaboratori, nei due volumi “The Cambridge History of Food Habitus” (ad un prezzo di listino di oltre 150 euro) hanno tracciato l’intera storia socio-politica dell’umanità attraverso non come ci si comporta a tavola (compito già svolto dall’antropologo Claude Lévi Strauss) ma come e cosa si mangia.
Si è dato obiettivi meno grandiosi, ma più vicini a noi, Giuseppe Romano, giornalista e docente universitario di piattaforme multimediali (oltre che raffinato buongustaio), con il suo “Mezzogiorno di Cuoco”: esaminare, attraverso le abitudini alimentari degli italiani, come è cambiata la società italiana dai tempi bui in cui si era appena entrati nella seconda mondiale all’oggi, ossia al periodo immediatamente precedente quella che potrebbe essere una lunga stagnazione. Le statistiche sono crude: all’inizio degli Anni 60 (in pieno miracolo economico) circa il 55% delle spese di consumo delle famiglie degli italiani erano per alimentari (e il 19% per altri generi di beni e servivi) mentre quando si stava per entrare nel XXI secoli, gli alimentari assorbivano meno del 20% dei consumi della famiglia-tipo (ed il 60% si dirigeva a beni e servizi di altra natura).
Utilizzando il metodo secondo cui, studiando un albero, si scopre molto di più sulle caratteristiche di un bosco che facendone una fotografia digitale da un elicottero, Romano esamina le abitudini alimentari degli italiani (e la trasformazione sociale) attraverso un unico prodotto: la carne, specialmente quella “in scatola”, prodotta in Italia in tempi d’autarchia prima ancora che arrivasse il “corned beef” americano del “Piano Marshall”. Da studioso dei media, esamina, quindi, l’evolversi della pubblicità, specialmente da quando la televisione è entrata nelle nostre case, il mutare della distribuzioni, le nuovi abitudini del “fast food” e dello “slow food”. Il racconto si ferma all’inizio di questo secolo: quando cominciano a mangiare carne cinesi ed indiani (ed i prezzi delle derrate vanno alle stelle).
Un saggio al tempo stesso divertente ed interessante che ricorderà agli anziani “come eravamo” ed insegnerà alle giovani generazioni che appena 50 anni fa la carne era riservata ai giorni di festa
Giuseppe Romano “Mezzogiorno di Cuoco” Venezia, Marsilio 2008 pp. 126 € 13
Si è dato obiettivi meno grandiosi, ma più vicini a noi, Giuseppe Romano, giornalista e docente universitario di piattaforme multimediali (oltre che raffinato buongustaio), con il suo “Mezzogiorno di Cuoco”: esaminare, attraverso le abitudini alimentari degli italiani, come è cambiata la società italiana dai tempi bui in cui si era appena entrati nella seconda mondiale all’oggi, ossia al periodo immediatamente precedente quella che potrebbe essere una lunga stagnazione. Le statistiche sono crude: all’inizio degli Anni 60 (in pieno miracolo economico) circa il 55% delle spese di consumo delle famiglie degli italiani erano per alimentari (e il 19% per altri generi di beni e servivi) mentre quando si stava per entrare nel XXI secoli, gli alimentari assorbivano meno del 20% dei consumi della famiglia-tipo (ed il 60% si dirigeva a beni e servizi di altra natura).
Utilizzando il metodo secondo cui, studiando un albero, si scopre molto di più sulle caratteristiche di un bosco che facendone una fotografia digitale da un elicottero, Romano esamina le abitudini alimentari degli italiani (e la trasformazione sociale) attraverso un unico prodotto: la carne, specialmente quella “in scatola”, prodotta in Italia in tempi d’autarchia prima ancora che arrivasse il “corned beef” americano del “Piano Marshall”. Da studioso dei media, esamina, quindi, l’evolversi della pubblicità, specialmente da quando la televisione è entrata nelle nostre case, il mutare della distribuzioni, le nuovi abitudini del “fast food” e dello “slow food”. Il racconto si ferma all’inizio di questo secolo: quando cominciano a mangiare carne cinesi ed indiani (ed i prezzi delle derrate vanno alle stelle).
Un saggio al tempo stesso divertente ed interessante che ricorderà agli anziani “come eravamo” ed insegnerà alle giovani generazioni che appena 50 anni fa la carne era riservata ai giorni di festa
Giuseppe Romano “Mezzogiorno di Cuoco” Venezia, Marsilio 2008 pp. 126 € 13
LA POVERTA’ AVANZA, MA ROMA HA LE CARTE IN REGOLA PER COMBATTERLA Il Tempo 17 Novembre
Il 12 novembre, all’Isae (Istituto studi ed analisi economica) è stato presentato il rapporto su “Politiche pubbliche e redistribuzione”, un documento che a cadenza annuale fa il punto sui temi della disuguaglianza e della povertà. L’edizione 2008 ricostruisce la situazione nell’Ue (prima dell’ingresso di Romania e Bulgaria) ed approfondisce alcuni temi all’ordine del giorno della politica, quali l’efficacia dell’Isee (indice di situazione economica prevalente) a 10 anni dalla sua introduzione, l’impatto del “fiscal drag” dal 2002 e le ipotesi su un’eventuale revisione della tassazione sul reddito (“quoziente familiare” ed altri strumenti.
Senza entrare nelle complesse problematiche sollevate dal rapporto, è utile chiedersi se alcune delle sue conclusioni possono essere utilizzate come strumenti per la lotta alla povertà a Roma e nel suo hinterland- tema che dovrebbe essere centrale sia alla politica di una Giunta comunale che ha particolare attenzione ai temi sociali sia alla formulazione di quella strategia di lungo periodo per la Capitale a cui sta lavorando la Commissione Marzano. A livello nazionale – afferma il Rapporto Isae- la percezione di povertà sta crescendo (sei famiglie su 10 si considerano oggi più povere di quanto lo fossero ieri) ed alcuni strumenti (quali l’Isee) lasciano a desiderare a ragione della qualità della base informativa per la loro applicazione (la banca dati del fisco che non riesce a cogliere fenomeni d’evasione e d’elusione).
Questi problemi riguardano anche Roma dove il 6% delle famiglie afferma di “tirare avanti con difficoltà” e l’8,8% “con molta difficoltà”; 2.000 persone vivono in strada, i disabili sono circa 140.000; più di un terzo dei bambini degli immigrati non osserva l’obbligo scolastico; la pubblica amministrazione ha smesso di svolgere la funzione di ammortizzatore occupazionale; una struttura produttiva basata su imprese familiari ha un alto tasso di vulnerabilità; una delle principali industrie (quella dell’aeronautica) sta per essere trascinata, da interessi corporativi, verso il baratro (con la perdita potenziale di 30.000 posti di lavoro). Le casse del Comune – ormai è noto – sono state lasciate a secco.
Tuttavia, Roma ha uno strumento per essere all’avanguardia nel campo del sociale. In primo luogo, è il primo grande comune a disporre di un SIS-C, ossia del Sistema Informativo Sociale messo a punto dalla Caritas (in base alla legge 328 del 2000) E’ il primo se non l’unico strumento del genere a livello nazionale: fornisce, in tempo reale, dati sui “veri poveri” e sull’efficienza e l’efficace di misure a loro favore. Da un lato, esso consente di integrare i dati provenienti dal fisco. Da un altro, esso permette di tarare meglio gli interventi al fine di massimizzare l’impatto di scarse risorse su chi è in maggiore stato di bisogno (il maximin del filosofo Rawls reso alla portata di tutti nel film “A Beautiful Mind” d’alcuni anni fa). La sfida c’è ed è enorme ma abbiamo anche il modo di rispondere.
Senza entrare nelle complesse problematiche sollevate dal rapporto, è utile chiedersi se alcune delle sue conclusioni possono essere utilizzate come strumenti per la lotta alla povertà a Roma e nel suo hinterland- tema che dovrebbe essere centrale sia alla politica di una Giunta comunale che ha particolare attenzione ai temi sociali sia alla formulazione di quella strategia di lungo periodo per la Capitale a cui sta lavorando la Commissione Marzano. A livello nazionale – afferma il Rapporto Isae- la percezione di povertà sta crescendo (sei famiglie su 10 si considerano oggi più povere di quanto lo fossero ieri) ed alcuni strumenti (quali l’Isee) lasciano a desiderare a ragione della qualità della base informativa per la loro applicazione (la banca dati del fisco che non riesce a cogliere fenomeni d’evasione e d’elusione).
Questi problemi riguardano anche Roma dove il 6% delle famiglie afferma di “tirare avanti con difficoltà” e l’8,8% “con molta difficoltà”; 2.000 persone vivono in strada, i disabili sono circa 140.000; più di un terzo dei bambini degli immigrati non osserva l’obbligo scolastico; la pubblica amministrazione ha smesso di svolgere la funzione di ammortizzatore occupazionale; una struttura produttiva basata su imprese familiari ha un alto tasso di vulnerabilità; una delle principali industrie (quella dell’aeronautica) sta per essere trascinata, da interessi corporativi, verso il baratro (con la perdita potenziale di 30.000 posti di lavoro). Le casse del Comune – ormai è noto – sono state lasciate a secco.
Tuttavia, Roma ha uno strumento per essere all’avanguardia nel campo del sociale. In primo luogo, è il primo grande comune a disporre di un SIS-C, ossia del Sistema Informativo Sociale messo a punto dalla Caritas (in base alla legge 328 del 2000) E’ il primo se non l’unico strumento del genere a livello nazionale: fornisce, in tempo reale, dati sui “veri poveri” e sull’efficienza e l’efficace di misure a loro favore. Da un lato, esso consente di integrare i dati provenienti dal fisco. Da un altro, esso permette di tarare meglio gli interventi al fine di massimizzare l’impatto di scarse risorse su chi è in maggiore stato di bisogno (il maximin del filosofo Rawls reso alla portata di tutti nel film “A Beautiful Mind” d’alcuni anni fa). La sfida c’è ed è enorme ma abbiamo anche il modo di rispondere.
domenica 16 novembre 2008
Musica e politica – allora ed ora STRAUSS E QUEL VALZER FINIS EUROPAE Il Domenicale 15 Novembre
Dopo 35 anni di assenza approda a Roma (in scena in questi giorni) la "commedia in musica" del XX secolo più rappresentata in Europa: "Der Rosenkavalier" ("Il Cavaliere della Rosa") , per l'appunto "Komôdie für Musik", del cattolico liberale bavarese Richard Strauss e dell'integralista (di famiglia di ebrei convertiti) Hugo von Hofmannsthal. Costruita sulla base di un'idea del laicissimo ed europeissimo "Graf" (Conte) Harry Klesser, nato a Parigi da padre tedesco e madre irlandese, ma cresciuto tra Gran Bretagna, Francia e Germania. L’allestimento (di Ezio Frigerio), co-prodotto con l’Opéra National du Capitole di Tolosa e l’Opéra Bastille di Parigi, è, al tempo stesso, grandioso ed elegante; il bianco immacolato delle colonne corinzie si fonde con gli ori degli arredi. Il cast è di grande livello e la bachetta di Gianluigi Gelmetti accarezzante (sia la partitura sia il pubblico). In questi ultimi anni, un allestimento di Pier Luigi Pizzi, concepito per il Teatro Carlo Felice di Genova, si è visto a Milano ed a Palermo ed ora arriva a Cagliari. La "Komôdie für Musik" è stata messa in scena anche a Catania, a Firenze, Bologna, Spoleto, Trieste ed Napoli. L’approdo a Roma (città dove di Richard Strauss si rappresentano quasi esclusivamente “Salomé” ed “Elettra”) ha significati importanti ed è un’occasione per trattare del rapporto tra musica e politica sotto due punti di vista distinti. In primo luogo, il messaggio “politico” di una "Komôdie für Musik" di solito considerata uno spettacolo di mero intrattenimento. In secondo ruolo, la figura di Richard Strauss che mai lasciò la Germania durante il nazismo e subì in tarda età (era nato nel giugno 1864) l’onta di un processo (venne assolto e fu provato che nella sua posizione poté salvare molti intellettuali ebrei, in primo luogo Stefan Zweig). In breve, continua l’analisi del rapporto tra intellettuale e potere che il “Dom” conduce da circa quattro anni.
Il progetto di Kessler era una curiosa "contaminatio" di commedie di Molières, dei libretti scritti da Da Ponte per Mozart (in particolare "Le Nozze di Figaro"), di capitoli del "Wilhelm Meister Lehrjahre" di Goethe, di spunti dal "Die Mesitersinger von Nürnberg" di Wagner, nonché di intrecci tipici del teatro italiano (soprattutto Goldoni e Machiavelli). Nata con ambizioni puramente commerciali, rappresentata per la prima volta a Dresda il 27 gennaio 1911 e, nel giro di pochi mesi, sulle scene di tutti i maggiori teatri europei, trasformata in un film di successo nel 1925, "Der Rosenkavalier" avrebbe cantato la "finis Europa" in tutte e due le guerre mondiali. Tanto nel 1914-18 quanto nel 1939-45, i giovani Jules e Jim, tedeschi e francesi, fischiettavano, in trincea, il tempo di valzer che accompagna gran parte della "commedia in musica" (specialmente le ultime scene del secondo atto), un valzer che è stato rielaborato dallo stesso Richard Strauss in una "suite" orecchiabile per orchestra leggera, nonché in versioni ancor più semplici per pianoforte ed anche per pianola meccanica.
"Der Ronsenkavalier" può essere interpretato a vari livelli: a) una "commedia per adulti" (dietro la maschera superficiale di una pochade per fare cassetta) sulla formazione del giovane protagonista (quindi, una "Bildungsoper"); b) una "rievocazione in musica" del tempo andato; c) un messaggio politico alto e forte sulla transizione (il "Verwandlung" che ha un ruolo fondante nella cultura non solo tedesca ma europea nella seconda parte del XIX e nella prima del XX secolo e che è di grande rilievo all’Italia ed alla Roma di questo primo scorcio di XXI secolo)
La "Bildungsoper" si basa su spunti spudoratamente falsi. La "cerimonia della rosa" centrale all'intreccio non è mai stata parte delle tradizioni della Vienna nè del Settecento nè di altri secoli. Nell'Impero austriaco, il cambiamento sociale - la decadenza dell'aristocrazia di provincia ed il sorgere di una borghesia mercantile - si verifica anch'esso in un'epoca distinta e distante da quella della metà del XVIII secolo. Infine, il valzer il cui tempo scandisce momenti salienti della "commedia" (ed è entrato prepotentemente nella "vulgata" sul "Der Rosenkavalier") è stato inventato diversi decenni dopo il periodo in cui si svolge la vicenda
Quale è il messaggio? Per Richard Strauss, nato nel 1864, già celebre nel 1880 ed ancora in attività nel 1949, e per Hugo von Hofmannsthal , nato dieci anni dopo e morto venti prima del suo sodale, la politica del secolo che va dalla battaglia di Sedan al secondo dopo-guerra (passando per la Marna e per il "blitzkrieg"), è stata solo un rumore di fondo, un brusio fuori scena, di un messaggio più alto, e, quindi, paradossalmente più "politico", modellato compiutamente per la prima volta proprio in "Der Rosenkavalier" e ripreso poi in altri lavori comuni - segnatamente nel "Die Frau ohne Schatten”- nonché dal compositore, ormai solo e quasi ottantenne, in "Capriccio": l'inarrestabilità della trasformazione e della modernizzazione. Marie-Thèrese, la Marescialla 33nne, "dà" Octavian, il giovane 17nne, a Sophie, fanciulla 16nne, perché sa che chi difende l'esistente perde sempre. Analogamente, il flusso inarestabile della sinfonia wagneriana si fonde con i terzetti mozartiani, la polifonia, la vocalità italiana ed il teatro "leggero" alla ricerca di qualcosa che supera gli stessi primi approcci di dodecafonia perché, anche nella composizione e nella "commedia in musica", chi difende l'esistente perde sempre.
Questo messaggio venne mantenuto da Strauss anche negli anni in cui, dal 1933 al 1935, fu Presidente della Camera Musicale Tedesca; era troppo popolare in Patria ed all’estero perché venisse osteggiato dal regime. Più che il suo epistolario, lo rivela la sua “conversazione in musica” “Capriccio” andata in scena a Monaco il 28 ottobre 1942, con il suo appello (non troppo implicito) ad agevolare il cambiamento (anche mostrando di non decidere).
Curiosamente, in Italia, c’è ancora chi associa Richard Strauss ad uno dei periodi più bui della Germania , mentre pochi ricordano che l’autore di “Carmina Burana”, spesso cantato ai Festival dell’Unità, è quel Karl Orff, effettivo compositore di Corte a Casa Hitler ed il cui lavoro era stato concepito per una manifestazione a Francoforte della gioventù nazista.
L’ignoranza è sovente un galantuomo ancora più efficace del tempo.
Riferimenti
M. Bortolotto G. "La Serpe in Seno- Sulla musica di Richard Strauss“, Milano, Adelphi, 2007
L. Lo russo “Orfeo al servizio del Fürer- Totalitarismo e musica nella Germania del Terzo Reich” Palermo, Epos 2008
Heinz-Mohor e Volker Sommer "Die Rose, Entfaltung eines Symbols" Monaco, Eugen Diederichs Verlag, 1988
H. von Hofmannsthal- H. Graf Kessler "Briefwechsel 1998-129" Francoforte, Insel 1968
H. von Hofmannsthal- R. Strauss "Epistolario" Milano, Adelphi 1993
A. Jefferson "Richard Strauss: "Der Rosenkavalier", Cambridge, Cambridge University Press, 1985
Q. Principe "Serpenti in forma di rosa" introduzione E. Jünger "Sulle scogliere di marmo" Parma, Guanda 1988
Box – L’intreccio
Andiamo, innanzitutto, alla "commedia per adulti" ricordando i punti salienti dell'intreccio. Siamo nella Vienna della metà del Settecento. Il "cavaliere" (con la minuscola) è un giovane biondo e snello aristrocatico, Octavian, che, a 17 anni e due mesi, tutto sa sull'eros e sul sesso ma nulla sull'amore : la breve e concitata ouverture ne rappresenta l'orgasmo e il primo atto si apre, dopo una notte di passione, con uno slancio di tenerezze (frammisto ad orgoglio per la propria prestazione) del ragazzo alla 33enne "Marescialla" Marie-Thèrese Principessa Werdenberg. Colto sul fatto - o più precisamente nel letto- e costretto ad indossare i panni femminili della cameriera di Marie-Thèrese , attira, con la sua avvenenza qual che sia la guisa, le attenzioni del Barone Ochs, volgare signorotto di provincia e cugino della "Marescialla". Ochs è giunto improvvisamente in visita di prima mattina alla ricerca di un paggio che, secondo il costume dell'epoca, porti come pegno d'amore e di fidanzamento una rosa d'argento alla 14nne Sophie Faninal, figlia di un ricco commerciante borghese, insignito, di recente, di un titolo nobiliare di quart'ordine: in tal modo, il barone risolverebbe due problemi - nozze con prole e ripiano dei debiti. La "Marescialla", un pò per celia un perché già consapevole che "oggi, domani od un altro giorno" il biondo e snello giovanotto, a cui tutto ha insegnato, la lascerà per qualche altra donna, designa Octavian per l'incombenza. Al primo sguardo con la pupattola Sophie, il "cavaliere" prova l'amore (o, almeno, crede di provarlo), perde l'innocenza (se mai ne ha avuta), ossolda furfanti (tra cui, alcuni "pentiti di professione" quali Valzacchi definito , nel libretto, "intrigante italiano" e Annina "sua compagna") per screditare Ochs e far sì che le progettate nozze saltino all'aria. Dopo altri travestimenti, imbrogli, visite a locande di malaffare ed anche un duello, sbeffeggiato Ochs e reso soddisfatto e canzonato il ricco Faninal, sarà Marie-Thèrese in persona a "consegnare" a Sophie un Octavian scaltritosi nel giro di due giorni; mentre "Cioccolattino" ( nomignolo del paggetto negro della "Marescialla") raccoglie un fazzoletto di pizzo intriso da una lacrima, una sola, di Marie-Thèrese, si scorgono già all'orizzonte, dapontaniamente parlando, "i giuramenti di quel labbro menzogner".
Nell'impostazione iniziale, il lavoro sarebbe dovuto essere una farsa incentrata sulle peripezie buffonesche del Barone Ochs (Jefferson, 1985 ). Successivamente, nella saggistica e negli allestimenti in teatro, l'attenzione si è sempre più spostata sul personaggio della "Marescialla" (un ruolo difficilissimo sotto il profilo scenico e vocale); l'accento viene posto , in particolare sulla lucida consapevolezza di Marie-Thèrese del "tempo-che-passa" e sulla sua "rinuncia" ad Octavian - analoga a quella del 45nee Hans Sachs che nel "Die Meistersinger" getta la pur adorata 20nne Eva nelle braccia del 23nne Walter von Stolzing (altro "cavaliere", questa volta di Franconia, finito in un mondo borghese) . A una lettura più accorta, tuttavia, il perno della "commedia per adulti" trova proprio il suo fulcro nella "maturazione" di Octavian, il solo personaggio quasi sempre in scena, anche se in abiti ora maschili ed ora femminili . Una "Bildungsoper", un'opera sulla formazione e crescita di un giovane dalla adolscenza alla maturità, quindi, nel solco della tradizione tedesca, ed europea, del "Bildungsroman" - per questo i riferimenti con il "Wilhelm Meister" goethiano, nonché l'uso esplicito dell'eros. L'eros, di cui "Der Rosenkavalier" è impregato dall'inizio alla fine, è centrale alla "Bildungsoper" tedesca : si pensi al lungo amplesso con cui si conclude, con l'iniziazione del protagonista, il "Siegfried" di Wagner. Proprio in quel periodo, invece, con il melodramma romantico, l'eros scompare dall'opera italiana: tra il rossiniano "Conte Ory" del 1828 (ultima opera erotica prima del romanticismo) alla pucciniana "Manon Lescaut" del 1893 (prima opera verista con carica erotica), in Italia nel teatro lirico, l'eros non è più in scena. A titolo di raffronto, ai 45 minuti dell'amplesso del giovane Siegfried, corrispondono i due del rapporto mercenario tra il Duca di Mantova e Maddalena nel "Rigoletto" ed i tre minuti e mezzo della "grande scena d'amore" tra Alvaro e Leonora ne "La Forza del Destino".
Il progetto di Kessler era una curiosa "contaminatio" di commedie di Molières, dei libretti scritti da Da Ponte per Mozart (in particolare "Le Nozze di Figaro"), di capitoli del "Wilhelm Meister Lehrjahre" di Goethe, di spunti dal "Die Mesitersinger von Nürnberg" di Wagner, nonché di intrecci tipici del teatro italiano (soprattutto Goldoni e Machiavelli). Nata con ambizioni puramente commerciali, rappresentata per la prima volta a Dresda il 27 gennaio 1911 e, nel giro di pochi mesi, sulle scene di tutti i maggiori teatri europei, trasformata in un film di successo nel 1925, "Der Rosenkavalier" avrebbe cantato la "finis Europa" in tutte e due le guerre mondiali. Tanto nel 1914-18 quanto nel 1939-45, i giovani Jules e Jim, tedeschi e francesi, fischiettavano, in trincea, il tempo di valzer che accompagna gran parte della "commedia in musica" (specialmente le ultime scene del secondo atto), un valzer che è stato rielaborato dallo stesso Richard Strauss in una "suite" orecchiabile per orchestra leggera, nonché in versioni ancor più semplici per pianoforte ed anche per pianola meccanica.
"Der Ronsenkavalier" può essere interpretato a vari livelli: a) una "commedia per adulti" (dietro la maschera superficiale di una pochade per fare cassetta) sulla formazione del giovane protagonista (quindi, una "Bildungsoper"); b) una "rievocazione in musica" del tempo andato; c) un messaggio politico alto e forte sulla transizione (il "Verwandlung" che ha un ruolo fondante nella cultura non solo tedesca ma europea nella seconda parte del XIX e nella prima del XX secolo e che è di grande rilievo all’Italia ed alla Roma di questo primo scorcio di XXI secolo)
La "Bildungsoper" si basa su spunti spudoratamente falsi. La "cerimonia della rosa" centrale all'intreccio non è mai stata parte delle tradizioni della Vienna nè del Settecento nè di altri secoli. Nell'Impero austriaco, il cambiamento sociale - la decadenza dell'aristocrazia di provincia ed il sorgere di una borghesia mercantile - si verifica anch'esso in un'epoca distinta e distante da quella della metà del XVIII secolo. Infine, il valzer il cui tempo scandisce momenti salienti della "commedia" (ed è entrato prepotentemente nella "vulgata" sul "Der Rosenkavalier") è stato inventato diversi decenni dopo il periodo in cui si svolge la vicenda
Quale è il messaggio? Per Richard Strauss, nato nel 1864, già celebre nel 1880 ed ancora in attività nel 1949, e per Hugo von Hofmannsthal , nato dieci anni dopo e morto venti prima del suo sodale, la politica del secolo che va dalla battaglia di Sedan al secondo dopo-guerra (passando per la Marna e per il "blitzkrieg"), è stata solo un rumore di fondo, un brusio fuori scena, di un messaggio più alto, e, quindi, paradossalmente più "politico", modellato compiutamente per la prima volta proprio in "Der Rosenkavalier" e ripreso poi in altri lavori comuni - segnatamente nel "Die Frau ohne Schatten”- nonché dal compositore, ormai solo e quasi ottantenne, in "Capriccio": l'inarrestabilità della trasformazione e della modernizzazione. Marie-Thèrese, la Marescialla 33nne, "dà" Octavian, il giovane 17nne, a Sophie, fanciulla 16nne, perché sa che chi difende l'esistente perde sempre. Analogamente, il flusso inarestabile della sinfonia wagneriana si fonde con i terzetti mozartiani, la polifonia, la vocalità italiana ed il teatro "leggero" alla ricerca di qualcosa che supera gli stessi primi approcci di dodecafonia perché, anche nella composizione e nella "commedia in musica", chi difende l'esistente perde sempre.
Questo messaggio venne mantenuto da Strauss anche negli anni in cui, dal 1933 al 1935, fu Presidente della Camera Musicale Tedesca; era troppo popolare in Patria ed all’estero perché venisse osteggiato dal regime. Più che il suo epistolario, lo rivela la sua “conversazione in musica” “Capriccio” andata in scena a Monaco il 28 ottobre 1942, con il suo appello (non troppo implicito) ad agevolare il cambiamento (anche mostrando di non decidere).
Curiosamente, in Italia, c’è ancora chi associa Richard Strauss ad uno dei periodi più bui della Germania , mentre pochi ricordano che l’autore di “Carmina Burana”, spesso cantato ai Festival dell’Unità, è quel Karl Orff, effettivo compositore di Corte a Casa Hitler ed il cui lavoro era stato concepito per una manifestazione a Francoforte della gioventù nazista.
L’ignoranza è sovente un galantuomo ancora più efficace del tempo.
Riferimenti
M. Bortolotto G. "La Serpe in Seno- Sulla musica di Richard Strauss“, Milano, Adelphi, 2007
L. Lo russo “Orfeo al servizio del Fürer- Totalitarismo e musica nella Germania del Terzo Reich” Palermo, Epos 2008
Heinz-Mohor e Volker Sommer "Die Rose, Entfaltung eines Symbols" Monaco, Eugen Diederichs Verlag, 1988
H. von Hofmannsthal- H. Graf Kessler "Briefwechsel 1998-129" Francoforte, Insel 1968
H. von Hofmannsthal- R. Strauss "Epistolario" Milano, Adelphi 1993
A. Jefferson "Richard Strauss: "Der Rosenkavalier", Cambridge, Cambridge University Press, 1985
Q. Principe "Serpenti in forma di rosa" introduzione E. Jünger "Sulle scogliere di marmo" Parma, Guanda 1988
Box – L’intreccio
Andiamo, innanzitutto, alla "commedia per adulti" ricordando i punti salienti dell'intreccio. Siamo nella Vienna della metà del Settecento. Il "cavaliere" (con la minuscola) è un giovane biondo e snello aristrocatico, Octavian, che, a 17 anni e due mesi, tutto sa sull'eros e sul sesso ma nulla sull'amore : la breve e concitata ouverture ne rappresenta l'orgasmo e il primo atto si apre, dopo una notte di passione, con uno slancio di tenerezze (frammisto ad orgoglio per la propria prestazione) del ragazzo alla 33enne "Marescialla" Marie-Thèrese Principessa Werdenberg. Colto sul fatto - o più precisamente nel letto- e costretto ad indossare i panni femminili della cameriera di Marie-Thèrese , attira, con la sua avvenenza qual che sia la guisa, le attenzioni del Barone Ochs, volgare signorotto di provincia e cugino della "Marescialla". Ochs è giunto improvvisamente in visita di prima mattina alla ricerca di un paggio che, secondo il costume dell'epoca, porti come pegno d'amore e di fidanzamento una rosa d'argento alla 14nne Sophie Faninal, figlia di un ricco commerciante borghese, insignito, di recente, di un titolo nobiliare di quart'ordine: in tal modo, il barone risolverebbe due problemi - nozze con prole e ripiano dei debiti. La "Marescialla", un pò per celia un perché già consapevole che "oggi, domani od un altro giorno" il biondo e snello giovanotto, a cui tutto ha insegnato, la lascerà per qualche altra donna, designa Octavian per l'incombenza. Al primo sguardo con la pupattola Sophie, il "cavaliere" prova l'amore (o, almeno, crede di provarlo), perde l'innocenza (se mai ne ha avuta), ossolda furfanti (tra cui, alcuni "pentiti di professione" quali Valzacchi definito , nel libretto, "intrigante italiano" e Annina "sua compagna") per screditare Ochs e far sì che le progettate nozze saltino all'aria. Dopo altri travestimenti, imbrogli, visite a locande di malaffare ed anche un duello, sbeffeggiato Ochs e reso soddisfatto e canzonato il ricco Faninal, sarà Marie-Thèrese in persona a "consegnare" a Sophie un Octavian scaltritosi nel giro di due giorni; mentre "Cioccolattino" ( nomignolo del paggetto negro della "Marescialla") raccoglie un fazzoletto di pizzo intriso da una lacrima, una sola, di Marie-Thèrese, si scorgono già all'orizzonte, dapontaniamente parlando, "i giuramenti di quel labbro menzogner".
Nell'impostazione iniziale, il lavoro sarebbe dovuto essere una farsa incentrata sulle peripezie buffonesche del Barone Ochs (Jefferson, 1985 ). Successivamente, nella saggistica e negli allestimenti in teatro, l'attenzione si è sempre più spostata sul personaggio della "Marescialla" (un ruolo difficilissimo sotto il profilo scenico e vocale); l'accento viene posto , in particolare sulla lucida consapevolezza di Marie-Thèrese del "tempo-che-passa" e sulla sua "rinuncia" ad Octavian - analoga a quella del 45nee Hans Sachs che nel "Die Meistersinger" getta la pur adorata 20nne Eva nelle braccia del 23nne Walter von Stolzing (altro "cavaliere", questa volta di Franconia, finito in un mondo borghese) . A una lettura più accorta, tuttavia, il perno della "commedia per adulti" trova proprio il suo fulcro nella "maturazione" di Octavian, il solo personaggio quasi sempre in scena, anche se in abiti ora maschili ed ora femminili . Una "Bildungsoper", un'opera sulla formazione e crescita di un giovane dalla adolscenza alla maturità, quindi, nel solco della tradizione tedesca, ed europea, del "Bildungsroman" - per questo i riferimenti con il "Wilhelm Meister" goethiano, nonché l'uso esplicito dell'eros. L'eros, di cui "Der Rosenkavalier" è impregato dall'inizio alla fine, è centrale alla "Bildungsoper" tedesca : si pensi al lungo amplesso con cui si conclude, con l'iniziazione del protagonista, il "Siegfried" di Wagner. Proprio in quel periodo, invece, con il melodramma romantico, l'eros scompare dall'opera italiana: tra il rossiniano "Conte Ory" del 1828 (ultima opera erotica prima del romanticismo) alla pucciniana "Manon Lescaut" del 1893 (prima opera verista con carica erotica), in Italia nel teatro lirico, l'eros non è più in scena. A titolo di raffronto, ai 45 minuti dell'amplesso del giovane Siegfried, corrispondono i due del rapporto mercenario tra il Duca di Mantova e Maddalena nel "Rigoletto" ed i tre minuti e mezzo della "grande scena d'amore" tra Alvaro e Leonora ne "La Forza del Destino".
OGGI SI RIUNISCE IL G20 MA LA CRISI LA RISOLVERANNO L’EUROPA E L’AMERICA Libero 15 novembre
Tra molti miti (e qualche realtà), si riunisce questa sera (ora italiana) il G20, ossia i Capi di Stato e di Governo dei 20 Paesi che si ritieni “pesino” di più nell’economia mondiale. Il primo mito è che il G20 abbia poteri quasi taumaturgici e che sia in grado, se non di curare con una bacchetta magica i problemi della finanza e dell’economia internazionale, quanto meno di avviare il processo che porti ad una soluzione. Il secondo mito è che ampliando il consesso del G7 ai maggiori Paesi emergenti (Cina, India, Brasile, Russia e via discorrendo) la diagnosi sarà più accurata e la terapia più efficace (in quanto più e meglio condivisa). Il terzo mito è che, quale che sia la diagnosi, la medicina deve includere nuove regole e – ascoltate! – “una serie di collegi di supervisori” a livello internazionale come invocato dalla Federazione delle Banche Europee in un accorato appello inviato il 10 novembre.
Se questi miti non vengono smontati sarà davvero difficile individuare le aree in cui il G20 (o qualche altro G) potrà coniugare efficienza con efficacia ed evitare non solo la prosecuzione dell’esplosione della bolla ma anche quella che si profila come una lunga (pur se non necessariamente molto profonda) recessione internazionale. In primo luogo, il G20 non solo non ha virtù magiche (né di diagnosi né di terapia) ma solo un gruppo, o gruppetto o ancora gruppaccio, di malcapitati che si trovano a gestire disfunzione del processo d’internazionalizzazione che molti economisti seri avevano previsto (pur se non ne avevano azzeccato tempi e dimensioni). Lo analizzano accuratamente Gary Gordon della Università di Yale nel saggio “The Sub-Prime Panic” (Yale ICF Working Paper N. 08-25) e Joshua D.Coval e Erik Stafford (ambedue dell’Harvard Business School) con Jakub W.Jurek (Università di Princeton) in “The Economics of Structured Finance” (Harvard Business School Finance Working Paper n. 09 -060). In gran misura – come “Libero Mercato” ha documentato l’8 novembre – la crisi non nasce nelle politiche pubbliche ma in comportamenti privati sui quali i politici e le politiche possono ben poco incidere. A riguardo, non ha fondamento empirico l’ipotesi, diffusa in questi giorni in Italia, secondo cui alcune modifiche dell’imposizione tributaria sulle plusvalenze edilizie attuate dall’Amministrazione Clinton (ed accentuate nel 2004) sarebbero alla base della “bolla immobiliare” Usa. Uno studio della Banca federale di riserva di St. Louis (Bank of St, Louis Working Paper N. 20008-036A) esamina gli standard per i mutui edilizi a clienti di scarsa affidabilità praticati dal sistema d’intermediazione finanziaria Usa dal 1998 al 2007 e conclude che “contrariamente alla credenza popolare non c’è alcune prova di un loro alleggerimento” (ossia non è diventato più lasco di quanto non fosse in passato). E’ verosimile, però, che le banche centrali (di norma presentate come austere e severe) hanno aggravato la situazione sostenendo (con un’eccessiva immissione di liquidità una crescita che pensavano inarrestabile). Paul De Grawe (uno dei padri dell’unione monetaria) rafforza la tesi di Giovanni Magnifico (vedi “Libero Mercato” dell’8 novembre): gli “spiriti animali della politica monetaria” (CESifo Working Paper n. 2418) che danno luogo “ad onde alterne di pessimismo e d’ottimismo” e non tengono adeguatamente conto delle implicazioni micro-economiche della politica della moneta.
In secondo luogo, i nuovi soci del sinedrio che dovrebbe tentare di governare l’economia mondiale hanno interessi contrapposti sia nel loro interno sia con il G7. Lo si è visto a tutto tondo nel negoziato multilaterale sugli scambi, il defunto Doha Development Agenda dove i nuovi soci del G20 sono quasi venuti alle mani tra di loro. E’ bene dare loro un diritto di tribuna ma non aspettiamoci molto in termini di diagnosi o di terapia. Un nodo è chiaro a tutti: il tasso di cambio tra Cina e Usa. E’ ugualmente noto (lo si è visto su “Libero Mercato” del primo novembre) che la burocrazia celeste del continente cinese non ha alcuna intenzione di fare qualcosa a riguardo e che non saranno gli altri soci del G20 a convincerla. Ragionamenti analoghi si possono fare per Russia, Brasile, India e compagnia cantando. Mai come oggi, la diplomazia del dollaro e dell’euro è l’unico medico possibile per individuare e curare i guai della finanza e dell’economia mondiale. La crisi è nata all’interno di quella che un tempo veniva chiamata la comunità economica atlantica ed è all’interno di tale comunità che può e deve essere risolta. Alcune indicazioni sono state fornite da “Libero Mercato” dell’8 novembre.
In terzo luogo, con grande rispetto per il lavoro macro-economico del Fondo monetario (Fmi), è illusorio pensare che un potenziamento dello Fmi oppure “una serie di collegi di supervisori” a livello internazionale possono contribuire a risolvere problemi che non hanno diagnosticato tempestivamente sia nel recente passato sia nel 1987 (crisi debitoria dell’America Latina) sia nel 1996 (crisi debitoria asiatica).
Cosa può profilare una parteneshic economica atlantica (Usa-Ue, diplomazia del dollaro e dell’euro) oltre ai due punti indicati su “Libero Mercato” dell’8 novembre (in sintesi, un avvicinamento delle normative interne di regolazione e vigilanza finanziaria negli Usa e nell’Ue, un allentamento del patto di crescita e stabilità)? Un impegno di lungo periodo nel sostenere quelle che Katharina Pistor della School of Law della Columbia University (una giurista, quindi, non un’economista) chiama “la rete la “rete informale della finanza per tutelarsi a vicenda in tempi d’incertezza” "Global Network Finance: Organizational Hedging in Times of Uncertainty", diramato on linea in questi giorni Columbia Law and Economics Working Paper No. 339 è un lavoro che, mi auguro, gli sherpas abbiano letto e meditato (almeno quelli di Use e Ue). Traccia in modo eloquente gli elementi che già stanno emergendo di un nuovo sistema di “governance” della finanza internazionale ; tale sistema include banche, assicurazioni, fondi sovrani . “Nonostante tali organizzazioni abbiano regole, esperienze e prassi molto differenti stanno trasportando elementi di un regime da un sistema all’altro e ri-combinandoli dando vita ad un nuovo sistema basato su”. Agevolare la formazione di tale Global Finance Network (Gfn) è una strada più promettente di quella di fare crescere nuove burocrazie o di rafforzare quelle esistenti. Lo implica anche il più recente Paolo Baffi Research Center Paper n. 2008-52 in cui si modellizzano gli effetti economici della regolazione e supervisione bancaria.
Se questi miti non vengono smontati sarà davvero difficile individuare le aree in cui il G20 (o qualche altro G) potrà coniugare efficienza con efficacia ed evitare non solo la prosecuzione dell’esplosione della bolla ma anche quella che si profila come una lunga (pur se non necessariamente molto profonda) recessione internazionale. In primo luogo, il G20 non solo non ha virtù magiche (né di diagnosi né di terapia) ma solo un gruppo, o gruppetto o ancora gruppaccio, di malcapitati che si trovano a gestire disfunzione del processo d’internazionalizzazione che molti economisti seri avevano previsto (pur se non ne avevano azzeccato tempi e dimensioni). Lo analizzano accuratamente Gary Gordon della Università di Yale nel saggio “The Sub-Prime Panic” (Yale ICF Working Paper N. 08-25) e Joshua D.Coval e Erik Stafford (ambedue dell’Harvard Business School) con Jakub W.Jurek (Università di Princeton) in “The Economics of Structured Finance” (Harvard Business School Finance Working Paper n. 09 -060). In gran misura – come “Libero Mercato” ha documentato l’8 novembre – la crisi non nasce nelle politiche pubbliche ma in comportamenti privati sui quali i politici e le politiche possono ben poco incidere. A riguardo, non ha fondamento empirico l’ipotesi, diffusa in questi giorni in Italia, secondo cui alcune modifiche dell’imposizione tributaria sulle plusvalenze edilizie attuate dall’Amministrazione Clinton (ed accentuate nel 2004) sarebbero alla base della “bolla immobiliare” Usa. Uno studio della Banca federale di riserva di St. Louis (Bank of St, Louis Working Paper N. 20008-036A) esamina gli standard per i mutui edilizi a clienti di scarsa affidabilità praticati dal sistema d’intermediazione finanziaria Usa dal 1998 al 2007 e conclude che “contrariamente alla credenza popolare non c’è alcune prova di un loro alleggerimento” (ossia non è diventato più lasco di quanto non fosse in passato). E’ verosimile, però, che le banche centrali (di norma presentate come austere e severe) hanno aggravato la situazione sostenendo (con un’eccessiva immissione di liquidità una crescita che pensavano inarrestabile). Paul De Grawe (uno dei padri dell’unione monetaria) rafforza la tesi di Giovanni Magnifico (vedi “Libero Mercato” dell’8 novembre): gli “spiriti animali della politica monetaria” (CESifo Working Paper n. 2418) che danno luogo “ad onde alterne di pessimismo e d’ottimismo” e non tengono adeguatamente conto delle implicazioni micro-economiche della politica della moneta.
In secondo luogo, i nuovi soci del sinedrio che dovrebbe tentare di governare l’economia mondiale hanno interessi contrapposti sia nel loro interno sia con il G7. Lo si è visto a tutto tondo nel negoziato multilaterale sugli scambi, il defunto Doha Development Agenda dove i nuovi soci del G20 sono quasi venuti alle mani tra di loro. E’ bene dare loro un diritto di tribuna ma non aspettiamoci molto in termini di diagnosi o di terapia. Un nodo è chiaro a tutti: il tasso di cambio tra Cina e Usa. E’ ugualmente noto (lo si è visto su “Libero Mercato” del primo novembre) che la burocrazia celeste del continente cinese non ha alcuna intenzione di fare qualcosa a riguardo e che non saranno gli altri soci del G20 a convincerla. Ragionamenti analoghi si possono fare per Russia, Brasile, India e compagnia cantando. Mai come oggi, la diplomazia del dollaro e dell’euro è l’unico medico possibile per individuare e curare i guai della finanza e dell’economia mondiale. La crisi è nata all’interno di quella che un tempo veniva chiamata la comunità economica atlantica ed è all’interno di tale comunità che può e deve essere risolta. Alcune indicazioni sono state fornite da “Libero Mercato” dell’8 novembre.
In terzo luogo, con grande rispetto per il lavoro macro-economico del Fondo monetario (Fmi), è illusorio pensare che un potenziamento dello Fmi oppure “una serie di collegi di supervisori” a livello internazionale possono contribuire a risolvere problemi che non hanno diagnosticato tempestivamente sia nel recente passato sia nel 1987 (crisi debitoria dell’America Latina) sia nel 1996 (crisi debitoria asiatica).
Cosa può profilare una parteneshic economica atlantica (Usa-Ue, diplomazia del dollaro e dell’euro) oltre ai due punti indicati su “Libero Mercato” dell’8 novembre (in sintesi, un avvicinamento delle normative interne di regolazione e vigilanza finanziaria negli Usa e nell’Ue, un allentamento del patto di crescita e stabilità)? Un impegno di lungo periodo nel sostenere quelle che Katharina Pistor della School of Law della Columbia University (una giurista, quindi, non un’economista) chiama “la rete la “rete informale della finanza per tutelarsi a vicenda in tempi d’incertezza” "Global Network Finance: Organizational Hedging in Times of Uncertainty", diramato on linea in questi giorni Columbia Law and Economics Working Paper No. 339 è un lavoro che, mi auguro, gli sherpas abbiano letto e meditato (almeno quelli di Use e Ue). Traccia in modo eloquente gli elementi che già stanno emergendo di un nuovo sistema di “governance” della finanza internazionale ; tale sistema include banche, assicurazioni, fondi sovrani . “Nonostante tali organizzazioni abbiano regole, esperienze e prassi molto differenti stanno trasportando elementi di un regime da un sistema all’altro e ri-combinandoli dando vita ad un nuovo sistema basato su
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