In questi giorni, gli schierameni politici stanno mettendo a punto i programmi con cui presentarsi agli elettori. I temi economici acquistano nuova centralità in seguito alla pubblicaziobne delle previsioni pubblicate dalla Commisione Europea: sfortunatamente, confermano le stime quantitative de L'Occidentale secondo cui nel 2008 la crescita del pil dell'Italia sarà rasoterra.
Le determinanti sono molteplici. Già alla fine degli Anni Novanta un'analisi della Banca d'Italia ne attribuiva la responsabilità al forte aumento della pressione fiscale (sette punti percentuali del pil) attuato dai Governi di centro-sinistra nella fase del percorso verso l'unione monetaria (invece di giungere all'euro riducende la spesa corrente). Il Governo Prodi-Padoa Schioppa- Visco, con la guida politico-spirituale di Walter Veltroni, ha preseguito sulla strada dell'incremento della pressione e dei vincoli mettendo un'ipoteca sul futuro della crescita italiana.
Altre determinanti (la bassa produttività del lavoro) non dipendo interamente dalla sfera politica. Ce ne è, però, una che è fortemente correlata all'azione di Governo ed alle misure lesgislative: il peso del debito pubblico il cui stock è al 105% del pil ed il cui servizio (per ammortamento ed interessi assorbe il 3% del pil, percentuale che potrebbe aumentare se, come non è impossibile, i tassi d'interesse viaggiano, ancorché leggermente, all'insù). E' un fardello sul potenziale di crescita dell'Italia (rispetto alle altre econonomie europee).
Nell'immediato chiunque sarà a Palazzo Chigi e via Venti Settembre dovrà colmare una falla di 8-10 miliardi di euro per raggiungere, a fine anno, gli impegni sottoscritti con gli altri Stati dell'area dell'euro.
E' un'eredità pesante lasciata dalla triade Prodi-TPS-Visco (con la benedizione di Veltroni) al nuovo Governo, il quale dovrà o arrabbattarsi con qualche miscela di ritocchi alle spese ed alle entrate oppure rinegoziare gli accordi con l'Eurogruppo.
Ipotizzando che, per grazia di Dio e per volontà della Nazione, si riesca a saldare il buco annunciato di breve periodo, resta il dilemma di quale strategia seguire per ridurrel'onere del debito, con le sue conseguenze negative sulla crescita dei redditi, della produzione, dei consumi, dell'occupazione e del benessere in generale degli italiani.
Ci sono due percorsi possibili. Uno prevede un ripiano lento e progressivo, mantenendo un avanzo primario (saldo positivo tra entrate e spese) pari al 5% del pil per i prossimi 15-20 anni. Il secondo comporta un'operazione shock per tagliare una fetta del debito nell'ambito di pochi anni. Sono ambedue fattibili. Il primo, però, vuole dire un lungo periodo di crescita lenta in quanto il 10% circa delle entrate dovrà essere indirizzato non alla produzione di beni pubblici (giustizia, difesa) o di beni sociali (istruzione, sanità, previdenza) o di servizi a cittadini ed imprese ma al graduale smaltimento del debito.
Il secondo non è facile in un contesto finanziario internazionale in cui, a ragione delle tensioni in corso sin dall'estate, si stanno esaurendo titolarizzazioni e cartolarizzazioni, nonostante al mondo la liquidità non sia mai stata così ampia.
Tuttavia, una strategia diretta a privatizzare Eni, Enel, Rai, Finmeccanica, Fincantieri, Fintecna, Sviluppo Italia, municipalizzate e quant'altro, potrebbe ridurre lo stock di debito dal 105% all'80-85% del pil nell'arco di cinque anni, sempre che sia coniugata con una strategia parallela di liberalizzazione dei mercati dei servizi, dei prodotti e dei fattori di produzione.
Potrebbe essere la chiave per far rialzare l'Italia e metterla al passo con il resto d'Europa.
Da non pagare: No
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