Tra le cattive notizie emerse dal G7 a Tokyo di fine settimana c’è ne una particolarmente negativa: la “credit crunch” negli Usa si sta espandendo all’Europa più velocemente del previsto, nonostante la riduzione del tasso d’interesse Usa e l’apertura dei rubinetti del credito da parte della Bce. Al punto che i Paesi dalle finanze pubbliche in buono stato sono stati invitati (per la prima volta dai tempi della crisi petrolifera dell’inizio Anni 70) a rispondere con manovre di bilancio pubblico reflazioniste (quindi, allentando i vincoli alla spesa pubblica per sostenere la domanda aggregata).
Il motivo per cui la crisi del credito si espande più velocemente all’Europa è che le restrizioni sono molto più severe oggi di quelle avutesi a cavallo tra la fine degli Anni 80 e l’inizio degli Anni 90 in seguito alla crisi delle casse di risparmio, di quelle risultanti dal fallimento dello hedge fund Long Term Capital Market (LTCM) alla metà degli Anni 90, di quelle dell’implosione della bolla delle “dot.com” della net economy alla fine dello scorso decennio. Ciò a sua volta si spiega con la scarsa capacità da parte di revisori e sindaci non sanno di valutare attività registrate in bilancio nella casella “liquidità e titoli commerciabili” ma che di fatto, nelle attuali condizioni, nessuno è pronto ad acquistare – in pratica non hanno, quindi, valore di mercato e non possono essere quantizzate al prezzo a cui sono state inizialmente comprate. Il fenomeno non riguarda soltanto il settore finanziario; occorre analizzare, sulla base di giudizi soggettivi, i singoli titoli di attività finanziarie strutturate molto complesse. Ciò complica e rallenta le operazioni di credito; in molti casi, nuove valutazioni della situazione finanziaria di un’impresa, comportano lo stop a prestiti in fase avanzata di negoziato. E una riduzione dei tassi di interesse non porta giovamento a chi non può in ogni caso prendere in prestito, a ragione di nuove e più critiche valutazioni della sua solvibilità.
Purtroppo l’Europa non dispone delle robuste protezioni esistenti in Asia sotto forma di elevati livelli di riserve che, anche a ragione dei limiti dei rispettivi mercati interni, hanno dato origine a “fondi sovrani”). E allora ecco che le previsioni econometriche dei 20 maggiori istituti privati indicano un rallentamento non solo nell’anno in corso ma anche nel seguente (per l’area dell’euro le stime di crescita del pil variano tra l’1,3% ed il 2,4% nel 2008 e tra l’1,3% ed il 2,3% per il 2009). Quindi, una frenata non più brusca ma più lunga di quanto anticipato (sempre dei 20 istituti) solo un mese fa. In questo quadro, l’Italia se la passa peggio: una crescita tra lo 0,8% e l’1.8% nel 2008 con una leggera ripresa – crescita tra l’1,1% ed il 2.1% nel 2009. Dato che la legge finanziaria è stata costruita su ipotesi di aumento del pil attorno all’1,5% , ciò può comportare all’”assestamento di bilancio”, in giugno, la necessità di una manovra di aggiustamento tra gli 8 ed i 12 miliardi di euro – oppure rinegoziare il programma di rientro definito con l’Ue. Ove in marzo, le stime preliminari delle entrate indicassero l’eventuale di un nuovo “tesoretto”, buon senso consiglierebbe di non impegnarlo prima di giugno: può servire a saldare una falla che viene anche da lontano ma di cui si vedono già le dimensioni quantitative.
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