E’ noto, anzi notorio, che Romano Prodi non ha mai amato WV (Walter Veltroni) & Co (i suoi associata). Li considera una ditta da non premiare in quanto alla origine delle sue sventure e del vero e proprio crollo del suo ormai ultimo (per sempre) Governo. Una ditta ingrata in quanto avrebbe volentieri ceduto loro con garbo Palazzo Chigi (ed annessi e connessi) nel 2011 quando lui avrebbe raggiunto l’età appropriata per fare il nonno politico-spirituale del neonato Partito Democratico (PD). Ora è stato nonnificato anzitempo ed anche costretto a fare buon viso a cattivo gioco ed a mostrare simpatia e supporto per la compagnia di giro (in autobus) WV & Co dei cui è Presidente onorario.
Come riuscire a rovinare la ditta, portandola (ove possibile) al fallimento, pur dando ad intendere di essere il principale leader spirituale e sostenitore? Interrogativo a cui è arduo dare una risposta. Seguendo lo shakespeariano Macbeth , si dovrebbe andare a chiedere consiglio (alle streghe) in una radura di un bosco scozzese. Ma, in Italia, le streghe sono rare. Ed i boschi scozzesi ancora di più.
I nostri informatori dalla profonda Emilia ci dicono che il consueto manipolo di Prodi si è dato convegno nella villa di famiglia, nel modenese, di un noto economista specializzato in fonti di energia; là ormai da decenni, con l’aiuto di una medium, si chiede consiglio all’aldilà. E’ stato invocato Don Sturzo, il quale , però, non si è fatto proprio vedere. Ormai il prete liberale ha molto poca considerazione per questo rampollo superirizzato e più statalista di quel La Pira con cui in vita ebbe un aspro carteggio.
Si presentò, invece, Mefistofele in persona, fresco fresco dal Teatro Massimo di Palermo dove era in scena quel 24 gennaio in cui (a ragione dei complotti di WV & Co) si è arrivati alla sfiducia, con sfratto, nei confronti dei nostri eroi. Mefistofele, esperto distruttore pure di chi ha le migliori intenzioni, venne abbracciato con affetto dai nostri prodi nella pianura modenese.
E si prodigò in consigli. Primo, si collegassero a Internet facendo (con Google o Dogpile) una ricerca cliccando le parole “Casa della Libertà-CdL” e “Programma elettorale 2006”. Scaricati i dieci punti del 2006 li portassero a WV & Co come base per ispirare la piattaforma elettorale del PD (da rimaneggiare qua e là per farla sembrare nuova). Tanto presi a negoziare accordi e candidatura con questo e quello, e così poco usi alla lettura (WV dai tempi – dicono le pagelle- del Liceo Tasso), i compilatori di programmi sarebbero stati ben lieti di avere un prête-à-porter pronto all’uso e lo avrebbero in buona parte scopiazzato. Ciò vuol dire che il programma CdL del 2006 era sbagliato? Niente affatto, precisò Mefistofele con tono luciferino. E’, però, sufficientemente spostato al centro, anzi al centrodestra, da mettere in fuga una fascia importante del bacino elettorale potenziale di WV & Co. E farla correre verso l’Arcobaleno.
In secondo luogo, i prodiani inducessero WV & Co a fare accordi elettorali (in barba alla proclamata “solitudine del maratoneta”, roba da topi di cineteca in quanto è proprio al Labirinto Cine Club a Via Pompeo Magno che WV ne ha tratto l’ispirazione vedendo un film britannico, così intitolato, degli Anni 60). “La vendetta – ha aggiunto Mefistofele sussurrando un verso di Lorenzo Da Ponte – è un piacere serbato ai saggi”. Che i prodiani se lo godessero tutto: intese di vario tipo con i dipietristi ed i pannellani porterebbero allo scontro le varie “anime”, per così dire, del PD: garantisti contro giustizialisti, laicisti contro cattolici. La maniera peggiore per fare la campagna elettorale. E se queste strategie non bastassero? Chiesero nella notte emiliana i prodiani mentre i bicchieri suonavano e da sotto il tavolo si sentiva più di un colpo. “Il buco”, affermò perentoriamente Mefistofele. Termine, al tempo stesso, eloquente e misterioso. Ove, nonostante tutto, per disgrazia di Dio ed in barba alla volontà della Nazione, si arrivasse ad un pareggio, o qualcosa di analogo, non resta che l’arma del “buco, la falla di bilancio lascia in eredità dalla triade Prodi-TPS-Visco (senza che WV & Co se ne accorgessero) al nuovo Governo, il quale dovrà, comunque, o arrabbattarsi con qualche miscela di ritocchi alle spese ed alle entrate oppure rinegoziare gli accordi con l'Eurogruppo. Nell'immediato chiunque sarà a Palazzo Chigi e a via Venti Settembre dovrà colmare una falla di 8-10 miliardi di euro per raggiungere, a fine anno, gli impegni sottoscritti con gli altri Stati dell'area dell'euro. In caso di pareggio e di tentativo di “larghe intese”, nel “buco” sprofonderà WV. Così come sprofondò Occhetto, sussurrò Mefistofele . Allontanandosi nella nebbia emiliana.
venerdì 29 febbraio 2008
STRAUSS RISUONA IN BUCA
Nelle buche d’orchestra dei teatri lirici risuonano, tra la fine di febbraio e la prima metà di marzo, le note di Richard Strauss, e più precisamente due dei più noti atti unici del compositore di Monaco di Baviera :Subito dopo una ripresa de “Il cavaliere della rosa” a Genova è in scena a Torini un nuovo allestimento di “Salome” (con la regia di Robert Carsen e la bacchetta di Gianandrea Noseda) mentre l’opera di Belgrado ne porta la propria produzione di repertorio, tra cui c’è anche il dramma dell’eroina morbosa e lussuriosa a Ravenna, Rovigo ed altri teatri.
Al Regio di Torino, l’allestimento è osé: la protagonista non si toglie i veli ma sette giovanotti che recitano in palcoscenico con lei sono in desabillé, mentre è di impianto tradizionale la produzione serba. Firenze e Venezia, invece, ospitano due allestimenti di “Elektra”, primo dei sette capolavori del binomio Richard Strauss- Hugo von Hofmannsthal, sono anche scena; nel capoluogo toscano la messainscena vede una nuova coproduzione di Robert Carsen (con il Teatro Nomori di Tokio) ed a Venezia sale sul palco quella di Klaus Michael Gruber che inaugurò nel dicembre 2003 la stagione del San Carlo. In questi giorni, inoltre, nella penisola iberica l’edizione di ”Elektra” di Barcellona viene mostrata in 50 sale cinematografiche in diretta
Nel catalogo Strauss- Hofmannsthal, “Elektra” è uno dei lavori rappresentati con maggiore frequenza in Italia: negli ultimi anni si è visto alla Scala, all’Opera di Roma, al Maggio Musicale fiorentino, al Massimo Bellini di Catania, al Filarmonico di Verona, nonché nei Festival di Taormina, Macerata, Pompei e Spoleto. Nella vulgata di storia della musica, la magia di “Elektra” viene illustrata nel prodigio, al tempo stesso, di complementarità e di contrasto tra il testo di Hofmannsthal e la partitura di Strauss; circolare il primo (con il proprio epicentro nel confronto-scontro tra Elektra e Klytämnestra); vettoriale il secondo sino all’orgia sonora in do maggiore del finale. L’edizione fiorentina (su cui ci soffermiamo data l’importanza dell’allestimento e della direzione musicale di Seji Ozawa) mostra come sia l’azione sia la musica abbiano una struttura ad ellisse; un’introduzione quasi contrappuntistica (il dialogo delle ancelle per preparare al monologo di Elektra) si snoda in una vasta parte centrale in cui il confronto tra Elektra e Klytämnestra (colmo di disperazione) è inserito tra due altri confronti – quelli tra Elektra e Chrysothemis (rispettivamente sul significato della vita e sul valore della vendetta); in tutta questa parte centrale si sovrappongono due tonalità musicali molto differenti per unificarsi dalla scena del ritorno di Orest e del duplice assassinio e predisporre, quindi, il do maggiore della danza macabra finale.
Nell’edizione fiorentina la Reggia dei Atridi a Micine sono tre mura grigie che racchiudono il palcoscenico.In questo clima tra il claustrofobico e l’ossessivo, Elektra, Christothemis ,lo loro ancelle sono in scarne tuniche nere, Orest ed il suo precettore in grigio, Klytämnestra e Augestih in bianco (le scene di Michael Levine, costumi di Vasul Matuz, luci di Peter van Praet). La tragedia si svolge serrata tanto più che Ozawa legge la partitura dandole una concezione lirica, soffermandosi sulle sofferenza dei personaggi e facendo esprimere dall’orchestra un fasto di colori , ascoltato solo in recenti esecuzioni di Abbado. Tutte di gran livello di voci. Notissime nel ruolo Agnes Balsta ( Klytämnestra) e Susan Bullock (Elektra), la vera scoperta, per il pubblico italiano, è la straordinaria Chrysothemis di Christine Goerke.
Al Regio di Torino, l’allestimento è osé: la protagonista non si toglie i veli ma sette giovanotti che recitano in palcoscenico con lei sono in desabillé, mentre è di impianto tradizionale la produzione serba. Firenze e Venezia, invece, ospitano due allestimenti di “Elektra”, primo dei sette capolavori del binomio Richard Strauss- Hugo von Hofmannsthal, sono anche scena; nel capoluogo toscano la messainscena vede una nuova coproduzione di Robert Carsen (con il Teatro Nomori di Tokio) ed a Venezia sale sul palco quella di Klaus Michael Gruber che inaugurò nel dicembre 2003 la stagione del San Carlo. In questi giorni, inoltre, nella penisola iberica l’edizione di ”Elektra” di Barcellona viene mostrata in 50 sale cinematografiche in diretta
Nel catalogo Strauss- Hofmannsthal, “Elektra” è uno dei lavori rappresentati con maggiore frequenza in Italia: negli ultimi anni si è visto alla Scala, all’Opera di Roma, al Maggio Musicale fiorentino, al Massimo Bellini di Catania, al Filarmonico di Verona, nonché nei Festival di Taormina, Macerata, Pompei e Spoleto. Nella vulgata di storia della musica, la magia di “Elektra” viene illustrata nel prodigio, al tempo stesso, di complementarità e di contrasto tra il testo di Hofmannsthal e la partitura di Strauss; circolare il primo (con il proprio epicentro nel confronto-scontro tra Elektra e Klytämnestra); vettoriale il secondo sino all’orgia sonora in do maggiore del finale. L’edizione fiorentina (su cui ci soffermiamo data l’importanza dell’allestimento e della direzione musicale di Seji Ozawa) mostra come sia l’azione sia la musica abbiano una struttura ad ellisse; un’introduzione quasi contrappuntistica (il dialogo delle ancelle per preparare al monologo di Elektra) si snoda in una vasta parte centrale in cui il confronto tra Elektra e Klytämnestra (colmo di disperazione) è inserito tra due altri confronti – quelli tra Elektra e Chrysothemis (rispettivamente sul significato della vita e sul valore della vendetta); in tutta questa parte centrale si sovrappongono due tonalità musicali molto differenti per unificarsi dalla scena del ritorno di Orest e del duplice assassinio e predisporre, quindi, il do maggiore della danza macabra finale.
Nell’edizione fiorentina la Reggia dei Atridi a Micine sono tre mura grigie che racchiudono il palcoscenico.In questo clima tra il claustrofobico e l’ossessivo, Elektra, Christothemis ,lo loro ancelle sono in scarne tuniche nere, Orest ed il suo precettore in grigio, Klytämnestra e Augestih in bianco (le scene di Michael Levine, costumi di Vasul Matuz, luci di Peter van Praet). La tragedia si svolge serrata tanto più che Ozawa legge la partitura dandole una concezione lirica, soffermandosi sulle sofferenza dei personaggi e facendo esprimere dall’orchestra un fasto di colori , ascoltato solo in recenti esecuzioni di Abbado. Tutte di gran livello di voci. Notissime nel ruolo Agnes Balsta ( Klytämnestra) e Susan Bullock (Elektra), la vera scoperta, per il pubblico italiano, è la straordinaria Chrysothemis di Christine Goerke.
giovedì 28 febbraio 2008
RUSALKA a Roma
Roma/ Teatro dell’Opera
RUSALKA
Opera fantastica in tre atti di Antonin Dvořák
Una recensione del capolavoro di Dvořák per il teatro in musica necessita una duplice premessa: la scarsa fortuna delle opere fantastiche nell’Italia dell’Ottocento e del Novecento ed il ruolo del compositore nello sviluppo dell’opera nella Cèchia.
Agli italiani, si potrebbe dire, non piacciono le favole. Tendenzialmente scettici e disillusi, abbiamo poca dimestichezza con il fiabesco nella letteratura in generale. Probabilmente l’unico apporto alla letteratura mondiale nel genere è “L’Orlando Furioso” dell’Ariosto. Nella narrativa possiamo vantare unicamente una favola per bambini: “Pinocchio” di Collodi. Nel teatro, le stupende favole di Carlo Gozzi vennero offuscate dalle commedie borghesi di Carlo Goldoni. Nel teatro in musica, il favolistica finì con il Barocco. I tentativi di Mascagni, Malipiero e pochi altri di riprendere il genere che, all’inizio del Novecento aveva grande fortuna in Germania, Francia e nell’Europa centrale ed orientale, fallirono miseramente: anche quando suscitarono reazioni positive dalla critica, il pubblico voltò loro le spalle. E’ vero che la pucciniana “Turandot” viene situata nella Cina “dei tempi delle favole”, ma né il libretto né la musica hanno un vero elemento magico: l’accento è sul dramma intimo in un quadro, per certi aspetti, autobiografico. Lo ha ben compreso il regista Henning Brockhaus nella sua recente lettura dell’ultima opera di Giacomo Puccini.
Eppure proprio “la musa bizzarra ed altera”, l’opera lirica, nata in Italia e che in Italia ha avuto la sua più lunga e più importante stagione come spettacolo commerciale per il grande pubblico di tutti i ceti sociali, si presta meravigliosamente al fiabesco per la fusione di azione scenica, canto, danza ed orchestra. E come tale nasce a Firenze . Nel nostro Paese il fantastico sparisce alla fine del Settecento: la stessa “Armida” di Rossina, pur ispirata al fiabesco dell’Ariosto, diventa innanzitutto un’opera erotico-sensuale. Il melodramma del romanticismo italiano quasi rigetta il fiabesco, centrale invece all’opera tedesca (si pensi a Marschner, Weber, allo stesso Wagner) dello stesso periodo, nonché a quella del Novecento (si pensi a Strauss). Nella Francia della Terza Repubblica il fiabesco viene utilizzato per dilatare nel mito i temi della società borghese nel periodo dell’industrializzazione trionfante (si pensi a “Cendrillon”, “Chérubin” e “Le Joungleur de Nôtre Dame-” di Massenet). In Europa centrale ed orientale, le favole antiche (unitamente alla storia nazionale) alimentano la nascita di forme di teatro in musica che prendono nettamente le distanze da quelle assunte in Europa occidentale.
Dvořák ha, nel corso della sua vita, costantemente avuto l’ambizione di diventare un grande autore di teatro in musica: sette delle otto opera precedenti “Rusalka” traevano ispirazione o da truculenti drammi storici o da commedie, pure essere storiche o semi-storiche (l’obiettivo era dar vita ad una scuola operistica nazionale boema) Si avvicino al fiabesco in “Il Diavolo e Caterina”, lavoro in cui all’orchestra viene dato un peso sinfonico e nel canto ci si avvicina al declamato. Grazie al direttore del Teatro Nazionale, Frantisek Subert, il compositore conobbe un lavoro del giovane scrittore Jaroslav Kvapil, in seguito una figura importante del teatro boemo. Trovò congeniale il libretto, che era stato in precedenza offerto senza successo ad altri musicisti. Anche “Rusalka” era nell’alveo del racconto fiabesco, nel mondo della natura incantata particolarmente caro alla sensibilità del compositore Dvorák, che vi si era ispirato per vari altri lavori, e in particolare per il gruppo di poemi sinfonici tratti dalle ballate popolari di Erben (1896), tra cui ve n’è uno intitolato appunto “Spirito delle acque”. In “Rusalka” il fiabesco è di carattere sentimentale e simbolico, anziché comico e fantastico come nell’opera immediatamente precedente, “Il diavolo e Caterina”. Kvapil si ispirò al tema della creatura acquatica che prende natura umana per amore pagandone le conseguenze: un antico motivo della letteratura nordica ripreso con ampiezza dal romanticismo, di cui sono esempi ben noti la novella “Undine” dell’ugonotto tedesco Friedrich de La Motte-Fouqué e la “Sirenetta” di Hans Christian Andersen; il poeta vi aggiunse inoltre altri elementi eterogenei, in particolare legati al folklore popolare boemo. L’opera è diventata col tempo, assieme alla “Sposa venduta” di Smetana, il maggiore classico del teatro boemo.
La vicenda è molto semplice. La ninfa Rusalka è innamorata del Principe. Per incontrarlo, è disposta ad assumere sembianze umane, pur al prezzo di perdere la parola. Il giovane si innamora ma non troppo: nel giorno delle nozze segue senza farsi troppi problemi una rabbiosa e passionale principessa straniera cattura le sue attenzioni. Rusalka ritorna al lago, avviata a un destino di tristezza eterna. Il principe non riesce però a liberarsi dell'ossessione-Rusalka. Morirà chiedendo perdono tra le sue braccia. Il fiabesco (siamo all’inizio del Novecento) si coniuga, quindi, con il simbolismo: il desiderio di diventare donna dell’essere semi-sovrumano e la passione-maledizione.
Siamo, però, lontani anni luce dal contemporaneo Debussy oppure da Janáček, i cui capolavori sarebbero stati composti, nel teatro cèco, soltanto qualche lustro più tardi. Dvořák , sotto molto aspetti, è il nesso tra Smetana e Janáček, rivolto però all’Ottocento mentre il moravo era lanciato verso un Novecento la cui portata innovativa venne compresa da pochi dei suoi contemporanei. Il temperamento di Dvořák è lirico e melodico, per se utilizza un grande organico ed i lietmotive wagneriani (ossia non mnemonici ma legati a personaggi ed a situazioni) : l’attenzione è più sul contesto e sui singoli personaggi che sull’azione drammatica. Inoltre, il sinfonismo non può non permeare l’intera partitura. Mentre nella scrittura vocale, il declamato wagneriano si trasforma in leider anche a più voci (come nel duetto finale) e le voci fanno da contrappunto all’orchestra (come nel quadro iniziale delle ninfe).
La scarsa fortuna di “Rusalka” in Italia deve attribuirsi in gran misura alla poca attenzione di critici e pubblico nei confronti del fiabesco, nonché alle difficoltà di realizzazione scenica. Tuttavia, qualcosa sta mutando: l’opera che mancava dalla scene romane dalla stagione 1992-93 (quando ebbe la sua “prima” nella capitale) ha avuto un grande successo a Torino due anni fa. Un nuovo allestimento è annunciato alla Scala per la prossima stagione. Inoltre, il fiabesco sta tornando in scena: Cagliari inaugura la stagione 2008 con una delle opere più fiabesche di Rimski-Korsakov : “La leggenda della città invisibile di Kitez”.
L’allestimento viene dal Teatro Dvořák (una sala di circa 600 posti) di Ostrava (una città di 300.000 abitanti nel Nord Est della Repubblica Chéchia- quindi ai confini con la Polonia e con la Slovacchia). E’ un buon esempio di come teatri relativamente piccoli, e relativamente minori, dell’Europa centrali riescono con pochi mezzi a creare produzioni dignitose. I tre atti sono divisi da un solo intervallo. La scena unica (di Jaroslav Marina) ed i costumi (Helena Helena Anýžová ) sono ispirati al visivo di Klimt – quindi all’epoca ed al clima in cui l’opera venne concepita. Efficace , e descrittiva, la regia di Ludeck Golat. L’aziona di dipana rapida senza concedere agli spettatori un solo minuto di stanchezza o noia nelle due ore ed un quarto dello spettacolo.
Strepitosa la resa orchestrale sotto l’abile direzione di Günter Neuhold. Dvořák è probabilmente uno dei maggiori orchestratori europei del periodo tra la fine dell’Ottocento e l’inizio dell’Ottocento. L’orchestra del Teatro dell’Opera di Roma dà una grande lettura della passione degli archi, su cui si staglia la delicatezza dell’arpa (specie negli asolo) e la melanconia dei celli e dei fagotti. Il clima fiabesco, ma dolente, viene interpretato magnificamente.
I cantati sono in gran misura giovani ed attraenti, il che non nuoce. Tra le voci spicca Anna-Louise Bozga (nel ruolo della protagonista); un soprano lirico spinto a tutto tondo, che può raggiungere quasi momenti wagneriani in quanto ha una tessitura ampia ed un volume adatto anche alle dimensioni del Teatro Costanzi di Roma. Buona, ma non eccelsa, la prova di Kostyantyn Andreyez: la parte è scritta per un heldentenor dal timpo chiaro (un Ben Heppner negli anni migliori quale quello nella versione in disco di riferimento – quella diretta da Sir Charles Mackerras). Andreyez è un tenore lirico spinto con un volume uso più ai teatri dell’Europa centrale e orientale che alla vasta cavea del Costanzi. Non tiene il passo con la sfolgorante vocalità della Bozga (specialmente nel duetto finale). Di ottimo livello Andreas Marco (Lo Spirito della Acque) specialmente per la capacità di scendere dalla mmezza-voce alle tonalità più gravi. Efficaci Francesca Franci (La Maga) e Patrizia Orciai (La Principessa straniera). Ottime le numerose parti minori, specialmente le Ninfe.
Grande successe, ma troppe file vuoti e troppi palchi spenti la sera della prima.
Giuseppe Pennisi
Roma, Teatro dell’Opera 22 febbraio 2008
LA LOCANDINA
RUSALKA
Opera fantastica in tre atti di Antonin Dvořák Libretto di Jaroslav Kvapli
· Regia
Ludek Golat
· Scene
Jaroslav Malina
· Costumi
Helena Anýžová
· Movimenti coreografici
Luigi Martelletta
· Rusalka
Angeles Blancas Gulin / Il principe
Kostyantyn Andreyev /
· Ježibaba, strega
Francesca Franci
· Lo spirito dell’acqua
Andreas Macco
· La principessa straniera
Patrizia Orciani
· Prima ninfa del bosco
Anna Maria Wilk
· Seconda ninfa del bosco
Katarzyna Medlarska
· Terza ninfa del bosco
Katarina Nikolich
· Il guardiacaccia
Armando Ariostini
· Lo sguattero
Gemma Gabriella Stimola
· Un cacciatore
Francesco Musinu
Direzione musicale
Günter Neuhold
Maestro del Coro
Gea Garatti Ansini
RUSALKA
Opera fantastica in tre atti di Antonin Dvořák
Una recensione del capolavoro di Dvořák per il teatro in musica necessita una duplice premessa: la scarsa fortuna delle opere fantastiche nell’Italia dell’Ottocento e del Novecento ed il ruolo del compositore nello sviluppo dell’opera nella Cèchia.
Agli italiani, si potrebbe dire, non piacciono le favole. Tendenzialmente scettici e disillusi, abbiamo poca dimestichezza con il fiabesco nella letteratura in generale. Probabilmente l’unico apporto alla letteratura mondiale nel genere è “L’Orlando Furioso” dell’Ariosto. Nella narrativa possiamo vantare unicamente una favola per bambini: “Pinocchio” di Collodi. Nel teatro, le stupende favole di Carlo Gozzi vennero offuscate dalle commedie borghesi di Carlo Goldoni. Nel teatro in musica, il favolistica finì con il Barocco. I tentativi di Mascagni, Malipiero e pochi altri di riprendere il genere che, all’inizio del Novecento aveva grande fortuna in Germania, Francia e nell’Europa centrale ed orientale, fallirono miseramente: anche quando suscitarono reazioni positive dalla critica, il pubblico voltò loro le spalle. E’ vero che la pucciniana “Turandot” viene situata nella Cina “dei tempi delle favole”, ma né il libretto né la musica hanno un vero elemento magico: l’accento è sul dramma intimo in un quadro, per certi aspetti, autobiografico. Lo ha ben compreso il regista Henning Brockhaus nella sua recente lettura dell’ultima opera di Giacomo Puccini.
Eppure proprio “la musa bizzarra ed altera”, l’opera lirica, nata in Italia e che in Italia ha avuto la sua più lunga e più importante stagione come spettacolo commerciale per il grande pubblico di tutti i ceti sociali, si presta meravigliosamente al fiabesco per la fusione di azione scenica, canto, danza ed orchestra. E come tale nasce a Firenze . Nel nostro Paese il fantastico sparisce alla fine del Settecento: la stessa “Armida” di Rossina, pur ispirata al fiabesco dell’Ariosto, diventa innanzitutto un’opera erotico-sensuale. Il melodramma del romanticismo italiano quasi rigetta il fiabesco, centrale invece all’opera tedesca (si pensi a Marschner, Weber, allo stesso Wagner) dello stesso periodo, nonché a quella del Novecento (si pensi a Strauss). Nella Francia della Terza Repubblica il fiabesco viene utilizzato per dilatare nel mito i temi della società borghese nel periodo dell’industrializzazione trionfante (si pensi a “Cendrillon”, “Chérubin” e “Le Joungleur de Nôtre Dame-” di Massenet). In Europa centrale ed orientale, le favole antiche (unitamente alla storia nazionale) alimentano la nascita di forme di teatro in musica che prendono nettamente le distanze da quelle assunte in Europa occidentale.
Dvořák ha, nel corso della sua vita, costantemente avuto l’ambizione di diventare un grande autore di teatro in musica: sette delle otto opera precedenti “Rusalka” traevano ispirazione o da truculenti drammi storici o da commedie, pure essere storiche o semi-storiche (l’obiettivo era dar vita ad una scuola operistica nazionale boema) Si avvicino al fiabesco in “Il Diavolo e Caterina”, lavoro in cui all’orchestra viene dato un peso sinfonico e nel canto ci si avvicina al declamato. Grazie al direttore del Teatro Nazionale, Frantisek Subert, il compositore conobbe un lavoro del giovane scrittore Jaroslav Kvapil, in seguito una figura importante del teatro boemo. Trovò congeniale il libretto, che era stato in precedenza offerto senza successo ad altri musicisti. Anche “Rusalka” era nell’alveo del racconto fiabesco, nel mondo della natura incantata particolarmente caro alla sensibilità del compositore Dvorák, che vi si era ispirato per vari altri lavori, e in particolare per il gruppo di poemi sinfonici tratti dalle ballate popolari di Erben (1896), tra cui ve n’è uno intitolato appunto “Spirito delle acque”. In “Rusalka” il fiabesco è di carattere sentimentale e simbolico, anziché comico e fantastico come nell’opera immediatamente precedente, “Il diavolo e Caterina”. Kvapil si ispirò al tema della creatura acquatica che prende natura umana per amore pagandone le conseguenze: un antico motivo della letteratura nordica ripreso con ampiezza dal romanticismo, di cui sono esempi ben noti la novella “Undine” dell’ugonotto tedesco Friedrich de La Motte-Fouqué e la “Sirenetta” di Hans Christian Andersen; il poeta vi aggiunse inoltre altri elementi eterogenei, in particolare legati al folklore popolare boemo. L’opera è diventata col tempo, assieme alla “Sposa venduta” di Smetana, il maggiore classico del teatro boemo.
La vicenda è molto semplice. La ninfa Rusalka è innamorata del Principe. Per incontrarlo, è disposta ad assumere sembianze umane, pur al prezzo di perdere la parola. Il giovane si innamora ma non troppo: nel giorno delle nozze segue senza farsi troppi problemi una rabbiosa e passionale principessa straniera cattura le sue attenzioni. Rusalka ritorna al lago, avviata a un destino di tristezza eterna. Il principe non riesce però a liberarsi dell'ossessione-Rusalka. Morirà chiedendo perdono tra le sue braccia. Il fiabesco (siamo all’inizio del Novecento) si coniuga, quindi, con il simbolismo: il desiderio di diventare donna dell’essere semi-sovrumano e la passione-maledizione.
Siamo, però, lontani anni luce dal contemporaneo Debussy oppure da Janáček, i cui capolavori sarebbero stati composti, nel teatro cèco, soltanto qualche lustro più tardi. Dvořák , sotto molto aspetti, è il nesso tra Smetana e Janáček, rivolto però all’Ottocento mentre il moravo era lanciato verso un Novecento la cui portata innovativa venne compresa da pochi dei suoi contemporanei. Il temperamento di Dvořák è lirico e melodico, per se utilizza un grande organico ed i lietmotive wagneriani (ossia non mnemonici ma legati a personaggi ed a situazioni) : l’attenzione è più sul contesto e sui singoli personaggi che sull’azione drammatica. Inoltre, il sinfonismo non può non permeare l’intera partitura. Mentre nella scrittura vocale, il declamato wagneriano si trasforma in leider anche a più voci (come nel duetto finale) e le voci fanno da contrappunto all’orchestra (come nel quadro iniziale delle ninfe).
La scarsa fortuna di “Rusalka” in Italia deve attribuirsi in gran misura alla poca attenzione di critici e pubblico nei confronti del fiabesco, nonché alle difficoltà di realizzazione scenica. Tuttavia, qualcosa sta mutando: l’opera che mancava dalla scene romane dalla stagione 1992-93 (quando ebbe la sua “prima” nella capitale) ha avuto un grande successo a Torino due anni fa. Un nuovo allestimento è annunciato alla Scala per la prossima stagione. Inoltre, il fiabesco sta tornando in scena: Cagliari inaugura la stagione 2008 con una delle opere più fiabesche di Rimski-Korsakov : “La leggenda della città invisibile di Kitez”.
L’allestimento viene dal Teatro Dvořák (una sala di circa 600 posti) di Ostrava (una città di 300.000 abitanti nel Nord Est della Repubblica Chéchia- quindi ai confini con la Polonia e con la Slovacchia). E’ un buon esempio di come teatri relativamente piccoli, e relativamente minori, dell’Europa centrali riescono con pochi mezzi a creare produzioni dignitose. I tre atti sono divisi da un solo intervallo. La scena unica (di Jaroslav Marina) ed i costumi (Helena Helena Anýžová ) sono ispirati al visivo di Klimt – quindi all’epoca ed al clima in cui l’opera venne concepita. Efficace , e descrittiva, la regia di Ludeck Golat. L’aziona di dipana rapida senza concedere agli spettatori un solo minuto di stanchezza o noia nelle due ore ed un quarto dello spettacolo.
Strepitosa la resa orchestrale sotto l’abile direzione di Günter Neuhold. Dvořák è probabilmente uno dei maggiori orchestratori europei del periodo tra la fine dell’Ottocento e l’inizio dell’Ottocento. L’orchestra del Teatro dell’Opera di Roma dà una grande lettura della passione degli archi, su cui si staglia la delicatezza dell’arpa (specie negli asolo) e la melanconia dei celli e dei fagotti. Il clima fiabesco, ma dolente, viene interpretato magnificamente.
I cantati sono in gran misura giovani ed attraenti, il che non nuoce. Tra le voci spicca Anna-Louise Bozga (nel ruolo della protagonista); un soprano lirico spinto a tutto tondo, che può raggiungere quasi momenti wagneriani in quanto ha una tessitura ampia ed un volume adatto anche alle dimensioni del Teatro Costanzi di Roma. Buona, ma non eccelsa, la prova di Kostyantyn Andreyez: la parte è scritta per un heldentenor dal timpo chiaro (un Ben Heppner negli anni migliori quale quello nella versione in disco di riferimento – quella diretta da Sir Charles Mackerras). Andreyez è un tenore lirico spinto con un volume uso più ai teatri dell’Europa centrale e orientale che alla vasta cavea del Costanzi. Non tiene il passo con la sfolgorante vocalità della Bozga (specialmente nel duetto finale). Di ottimo livello Andreas Marco (Lo Spirito della Acque) specialmente per la capacità di scendere dalla mmezza-voce alle tonalità più gravi. Efficaci Francesca Franci (La Maga) e Patrizia Orciai (La Principessa straniera). Ottime le numerose parti minori, specialmente le Ninfe.
Grande successe, ma troppe file vuoti e troppi palchi spenti la sera della prima.
Giuseppe Pennisi
Roma, Teatro dell’Opera 22 febbraio 2008
LA LOCANDINA
RUSALKA
Opera fantastica in tre atti di Antonin Dvořák Libretto di Jaroslav Kvapli
· Regia
Ludek Golat
· Scene
Jaroslav Malina
· Costumi
Helena Anýžová
· Movimenti coreografici
Luigi Martelletta
· Rusalka
Angeles Blancas Gulin / Il principe
Kostyantyn Andreyev /
· Ježibaba, strega
Francesca Franci
· Lo spirito dell’acqua
Andreas Macco
· La principessa straniera
Patrizia Orciani
· Prima ninfa del bosco
Anna Maria Wilk
· Seconda ninfa del bosco
Katarzyna Medlarska
· Terza ninfa del bosco
Katarina Nikolich
· Il guardiacaccia
Armando Ariostini
· Lo sguattero
Gemma Gabriella Stimola
· Un cacciatore
Francesco Musinu
Direzione musicale
Günter Neuhold
Maestro del Coro
Gea Garatti Ansini
TROVATORE A CATANIA
Catania/Teatro Massimo Bellini
IL TROVATORE
Dramma in quattro parti di Salvatore Cammaramo- Musica di Giuseppe Verdi
“Il Trovatore” è opera troppo conosciuta perché sia necessaria, od anche solamente opportuna, una nota di presentazione da parte del vostro chroniqueur. Quindi, questa recensione tratta esclusivamente dello spettacolo visto ed ascoltato il 26 febbraio al al Teatro Massimo Bellini di Catania, una “prima” in grande stile con la partecipazione di ambasciatori stranieri e la proiezione dello spettacolo in diretta nella piazza antistante, addobbata con falò e, ovviamente, una pira. Sono almeno una dozzina d’anni che l’opera mancava dalla città etnea. Per l’occasione, non si è ripreso né un allestimento di repertorio né produzioni noleggiate da altri teatri.
Il Direttore degli allestimenti scenici del Massimo Bellini, Roberto Laganà Manoli ha firmato scene, costumi e regia. Segue un approccio tradizione. Ciò non è affatto male dopo versioni in cui la Spagna tra la fine del Medioevo e l’inizio del Rinascimento è stata trasportata nell’Italia della battaglia di Custioza, in un impianto metallurgico, o nel contesto della guerra civile americana. L’allestimento scenico è semplice: un impianto unico con fondali su cui vengono proiettate immagini (dalle montagne innevate del primo quadro del secondo atto al visivo ispirato a Bruegel e Bőchlin). Efficaci, ma senza grande innovazione, i movimenti scenici. Ottima l’idea di interrompere con un solo intervallo le quattro parti (otto quadri) del macchinoso libretto di Cammarano. Una notazione: pieno accordo con allestimenti a basso costo (specialmente di questi tempi), ma perché nessun regista e scenografo riprende l’idea della produzione di Luchino Visconti, in cartellone alla Scala del 1966 al 1978? Era semplice e geniale: il primo quadro di ciascuno dei quattro atti si svolgeva sul boccascena in un’atmosfera notturna, ma al suo termini si apriva a tutto palcoscenico in piena luce (od in una luce di tramonto nel secondo quadro del primo atto oppure di alba nel quadro finale). E’ un chiaro-scuro che viene dall’orchestra. Mentre l’allestimento di Laganà Manoli è essenzialmente tutto in penombra, anche se non così buia come quella di Pizzi al Maggio Fiorentino del 2001.
Ma Il Trovatore più che azione teatrale, scene e costumi – ricordo una produzione ai limiti del grottesco al Metropolitan di New York negli Anni 70- è musica pura, soprattutto vocale. Antonio Pirolli è un diligente e coscienzioso concertatore di teatro di repertorio (è direttore musicale generale dell’Opera di Stato di Istanbul); una direzione musicale, quindi, puntuale ma senza scavare negli anfratti di una partitura più affascinante di quanto non si pensi. La sua è una lettura a supporto delle voci, quasi ad esaltare la vocalità de Il Trovatore . Efficace il coro guidato da Tiziana Carlini.
Alla “prima” abbiamo avuto due Leonore: Dmitra Theodossiou nella prima parte e Katia Pellegrino nella seconda. La Theodossiou, che ha al suo attivo almeno 100 interpretazioni de Il Trovatore, ha affrontato il palcoscenico nonostante che fosse ammalata (probabilmente la brutta influenza di stagione). Con la sua perizia tecnica e professionalità, ha dribblato le difficoltà di “Tacea la notte placida”, schivandone il sovracuto e contenendone la coloratura, specialmente nella “cabaletta”. Non è riapparsa dopo l’intervallo. La Pellegrino ha dovuto cantare L’onda dei suoni mistici, In questa oscura notte ed il duetto finale quasi a freddo- senza potersi “caricare” gradualmente nelle prime due parti. Non ha lo stile della Theodossiou ed un vibrato piuttosto stridulo.
Di buon livello la Azucena di Irina Makarova ; anche lei una veterana del ruolo, in grado di scendere molto efficacemente nelle tonalità gravi, ha una forte presenza scenica ed una dizione perfetta. Alexandru Agache è un Conte di Luna provetto, morbido in Il balen del suo bel viso, tormentano in Abuso io forse, entra perfettamente nel personaggio. Marco Spotti un Ferrando di bel timbro vocale e di bella presenza scenica – sa di essere un bel ragazzo e se ne compiace-; dovrebbe mostrare maggiore agilità nel racconto del primo quadro.
Veniamo adesso al trionfatore della serata: il giovane coreano Francesco Hong nel ruolo di Manrico. Da alcuni anni canta in Italia per lo più in circuiti considerati minori, ma si è esibito anche al Comunale di Firenze ed all’Arena di Verona e tra un paio di settimane impersonerà Manrico al Caio Felice di Genova. E’ un tenore lirico spinto con una bella pasta vocale, un timbro molto chiaro, un volume tale da sovrastare tutti gli altri e quasi da fare tremare i candelabri del Massimo Bellini con il prolungato “do” del finale del terzo atto, una tessitura perfetta per il ruolo, un’estensione in grado di passare dagli acuti del terzo atto alla difficile mezza-voce del quarto. Non alto di statura ed un po’ abbondante di corporatura è a volte impacciato sulla scena. Ma non lo era José Carreras quando, all’inizio degli Anni 70, debuttò in “Tosca” alla New York City Opera, avendo al suo franco la felina e super-sexy Marilyn Niska? Auguriamogli di non fare errori (come tentare troppo presto “Otello” o simili) e di continuare a studiare: potrà diventare uno dei tenori verdiani di riferimento di questo primo scorcio del XXI secolo.
Ottima la risposta del pubblico con applausi in scena aperta e richieste di bis a Hong.
Giuseppe Pennisi
26 febbraio 2008
LA LOCANDINA
IL TROVATOREdi Giuseppe VerdiDirettoreANTONIO PIROLLIRegia, scene, costumi e luciROBERTO LAGANA' MANOLIMaestro del coroTIZIANA CARLINIIl Conte di Luna Alexandru Agache,
Leonora Dimitra Theodossiou, Katia Pellegrino Azucena Irina Makarova, Manrico Francesco Hong
Ferrando Marco Spotti, Ines Maria MottaRuiz Domenico GhegghiUn vecchio zingaro Armando CaforioUn messo Francesco La SpadaNuovo allestimento del Teatro Massimo BelliniOrchestra, coro, corpo di ballo e tecnici del Teatro Massimo Bellini
IL TROVATORE
Dramma in quattro parti di Salvatore Cammaramo- Musica di Giuseppe Verdi
“Il Trovatore” è opera troppo conosciuta perché sia necessaria, od anche solamente opportuna, una nota di presentazione da parte del vostro chroniqueur. Quindi, questa recensione tratta esclusivamente dello spettacolo visto ed ascoltato il 26 febbraio al al Teatro Massimo Bellini di Catania, una “prima” in grande stile con la partecipazione di ambasciatori stranieri e la proiezione dello spettacolo in diretta nella piazza antistante, addobbata con falò e, ovviamente, una pira. Sono almeno una dozzina d’anni che l’opera mancava dalla città etnea. Per l’occasione, non si è ripreso né un allestimento di repertorio né produzioni noleggiate da altri teatri.
Il Direttore degli allestimenti scenici del Massimo Bellini, Roberto Laganà Manoli ha firmato scene, costumi e regia. Segue un approccio tradizione. Ciò non è affatto male dopo versioni in cui la Spagna tra la fine del Medioevo e l’inizio del Rinascimento è stata trasportata nell’Italia della battaglia di Custioza, in un impianto metallurgico, o nel contesto della guerra civile americana. L’allestimento scenico è semplice: un impianto unico con fondali su cui vengono proiettate immagini (dalle montagne innevate del primo quadro del secondo atto al visivo ispirato a Bruegel e Bőchlin). Efficaci, ma senza grande innovazione, i movimenti scenici. Ottima l’idea di interrompere con un solo intervallo le quattro parti (otto quadri) del macchinoso libretto di Cammarano. Una notazione: pieno accordo con allestimenti a basso costo (specialmente di questi tempi), ma perché nessun regista e scenografo riprende l’idea della produzione di Luchino Visconti, in cartellone alla Scala del 1966 al 1978? Era semplice e geniale: il primo quadro di ciascuno dei quattro atti si svolgeva sul boccascena in un’atmosfera notturna, ma al suo termini si apriva a tutto palcoscenico in piena luce (od in una luce di tramonto nel secondo quadro del primo atto oppure di alba nel quadro finale). E’ un chiaro-scuro che viene dall’orchestra. Mentre l’allestimento di Laganà Manoli è essenzialmente tutto in penombra, anche se non così buia come quella di Pizzi al Maggio Fiorentino del 2001.
Ma Il Trovatore più che azione teatrale, scene e costumi – ricordo una produzione ai limiti del grottesco al Metropolitan di New York negli Anni 70- è musica pura, soprattutto vocale. Antonio Pirolli è un diligente e coscienzioso concertatore di teatro di repertorio (è direttore musicale generale dell’Opera di Stato di Istanbul); una direzione musicale, quindi, puntuale ma senza scavare negli anfratti di una partitura più affascinante di quanto non si pensi. La sua è una lettura a supporto delle voci, quasi ad esaltare la vocalità de Il Trovatore . Efficace il coro guidato da Tiziana Carlini.
Alla “prima” abbiamo avuto due Leonore: Dmitra Theodossiou nella prima parte e Katia Pellegrino nella seconda. La Theodossiou, che ha al suo attivo almeno 100 interpretazioni de Il Trovatore, ha affrontato il palcoscenico nonostante che fosse ammalata (probabilmente la brutta influenza di stagione). Con la sua perizia tecnica e professionalità, ha dribblato le difficoltà di “Tacea la notte placida”, schivandone il sovracuto e contenendone la coloratura, specialmente nella “cabaletta”. Non è riapparsa dopo l’intervallo. La Pellegrino ha dovuto cantare L’onda dei suoni mistici, In questa oscura notte ed il duetto finale quasi a freddo- senza potersi “caricare” gradualmente nelle prime due parti. Non ha lo stile della Theodossiou ed un vibrato piuttosto stridulo.
Di buon livello la Azucena di Irina Makarova ; anche lei una veterana del ruolo, in grado di scendere molto efficacemente nelle tonalità gravi, ha una forte presenza scenica ed una dizione perfetta. Alexandru Agache è un Conte di Luna provetto, morbido in Il balen del suo bel viso, tormentano in Abuso io forse, entra perfettamente nel personaggio. Marco Spotti un Ferrando di bel timbro vocale e di bella presenza scenica – sa di essere un bel ragazzo e se ne compiace-; dovrebbe mostrare maggiore agilità nel racconto del primo quadro.
Veniamo adesso al trionfatore della serata: il giovane coreano Francesco Hong nel ruolo di Manrico. Da alcuni anni canta in Italia per lo più in circuiti considerati minori, ma si è esibito anche al Comunale di Firenze ed all’Arena di Verona e tra un paio di settimane impersonerà Manrico al Caio Felice di Genova. E’ un tenore lirico spinto con una bella pasta vocale, un timbro molto chiaro, un volume tale da sovrastare tutti gli altri e quasi da fare tremare i candelabri del Massimo Bellini con il prolungato “do” del finale del terzo atto, una tessitura perfetta per il ruolo, un’estensione in grado di passare dagli acuti del terzo atto alla difficile mezza-voce del quarto. Non alto di statura ed un po’ abbondante di corporatura è a volte impacciato sulla scena. Ma non lo era José Carreras quando, all’inizio degli Anni 70, debuttò in “Tosca” alla New York City Opera, avendo al suo franco la felina e super-sexy Marilyn Niska? Auguriamogli di non fare errori (come tentare troppo presto “Otello” o simili) e di continuare a studiare: potrà diventare uno dei tenori verdiani di riferimento di questo primo scorcio del XXI secolo.
Ottima la risposta del pubblico con applausi in scena aperta e richieste di bis a Hong.
Giuseppe Pennisi
26 febbraio 2008
LA LOCANDINA
IL TROVATOREdi Giuseppe VerdiDirettoreANTONIO PIROLLIRegia, scene, costumi e luciROBERTO LAGANA' MANOLIMaestro del coroTIZIANA CARLINIIl Conte di Luna Alexandru Agache,
Leonora Dimitra Theodossiou, Katia Pellegrino Azucena Irina Makarova, Manrico Francesco Hong
Ferrando Marco Spotti, Ines Maria MottaRuiz Domenico GhegghiUn vecchio zingaro Armando CaforioUn messo Francesco La SpadaNuovo allestimento del Teatro Massimo BelliniOrchestra, coro, corpo di ballo e tecnici del Teatro Massimo Bellini
AGLI ECONOMISTI NON SI ADDICE LA MARSINA
Così come il lutto si addice ad Elettra – secondo il drammone ( 9 ore di spettacolo) di Eugene O’Neill -, agli economisti non si addice la marsina. Nel tentativo di dare al PD l’immagine di soggetto politico di centro a vocazione maggioritaria, e di fare così dimenticare agli italiani l’esperienza del Governo Prodi (e dei quattro Governi succedutesi dal 1996 al 2001), WV (Walter Veltroni) ha lanciato una campagna acquisti tra gli economisti. Dio solo sa se ha bisogno di aiuto da parte di economisti: nel dodecalogo (termine infausto data la sorte avuta da quello stilato da Prodi un anno fa nella Reggia di Caserta) i buchi in materia economica sono pari alle contraddizioni. WV ha esigenza di un apporto serio per indicare agli elettori come a) risolvere la falla di 8-12 miliardi di euro che verosimilmente in giugno apparirà nei conti pubblici, b) dare corpo a liberalizzazioni e privatizzazioni, c) modificare parti del dodecalogo che irritano (a ragione) sindacati e donne. E via discorrendo.
Il corteggiamento di WV nei confronti degli economisti (specialmente di quelli che coniugano la vita accademica con la professione di editorialisti presso testate come “Il Corriere della Sera”,”Il Sole-24 Ore”, “La Stampa”, Repubblica”) non ha, però, l’obiettivo di correggere il dodecalogo. Vuole arruolare, nella veste di candidati e – chissà- di deputati e senatori firme autorevoli che lo fiancheggino sia che vinca sia che perda. E’ in fase avanzata – si dice – l’arruolamento dell’intera redazione del periodico on line www.lavoce.info.
Nell’augurare che i colleghi diano un’eloquente smentita, vorrei ricordare che nei 16 anni vissuti a Washington ho avuto grande dimestichezza con economisti di sentimenti “democratici” come Arthur Okun e di sentimenti “repubblicani” come Arthur Burns. Pur se ambedue furono, in differenti Amministrazioni, Presidenti del Comitato dei Consiglieri Economici della Casa Bianca (ed il secondo anche della Federal Reserve), non accettarono mai candidature od incarichi di parte proprio per preservare l’indipendenza e l’onestà intellettuale che deve contraddistinguere l’economista. Burns (grande giocatore di bridge) diceva che altrimenti anche i maggiori economisti avrebbero fatto la fine del gigante della musica Joseph Haydn- 1760 al 1690, alla corte degli Esterházy doveva indossare la marsina (come il resto della servitù). Più severo Okun (superbo inventore di cocktail al gin): alla corte di Hitler, il compositore Carl Orff non portava la marsina ma era come se lo facesse. WV non ricorda che il lavoro più noto di Orff (composto nel 1937 per un “evento”, si direbbe oggi, a Norimberga) venisse regolarmente suonato alle manifestazioni della Fgci da lui guidata. Accompagna ancora le “adunate” nelle città dove giunge il bus del PD. Freud, Jung e Adler (discordi su tante cose) avrebbero detto che è un lapsus rivelatore di ciò che intende fare con gli economisti e gli editorialisti “a Palazzo”.
Il corteggiamento di WV nei confronti degli economisti (specialmente di quelli che coniugano la vita accademica con la professione di editorialisti presso testate come “Il Corriere della Sera”,”Il Sole-24 Ore”, “La Stampa”, Repubblica”) non ha, però, l’obiettivo di correggere il dodecalogo. Vuole arruolare, nella veste di candidati e – chissà- di deputati e senatori firme autorevoli che lo fiancheggino sia che vinca sia che perda. E’ in fase avanzata – si dice – l’arruolamento dell’intera redazione del periodico on line www.lavoce.info.
Nell’augurare che i colleghi diano un’eloquente smentita, vorrei ricordare che nei 16 anni vissuti a Washington ho avuto grande dimestichezza con economisti di sentimenti “democratici” come Arthur Okun e di sentimenti “repubblicani” come Arthur Burns. Pur se ambedue furono, in differenti Amministrazioni, Presidenti del Comitato dei Consiglieri Economici della Casa Bianca (ed il secondo anche della Federal Reserve), non accettarono mai candidature od incarichi di parte proprio per preservare l’indipendenza e l’onestà intellettuale che deve contraddistinguere l’economista. Burns (grande giocatore di bridge) diceva che altrimenti anche i maggiori economisti avrebbero fatto la fine del gigante della musica Joseph Haydn- 1760 al 1690, alla corte degli Esterházy doveva indossare la marsina (come il resto della servitù). Più severo Okun (superbo inventore di cocktail al gin): alla corte di Hitler, il compositore Carl Orff non portava la marsina ma era come se lo facesse. WV non ricorda che il lavoro più noto di Orff (composto nel 1937 per un “evento”, si direbbe oggi, a Norimberga) venisse regolarmente suonato alle manifestazioni della Fgci da lui guidata. Accompagna ancora le “adunate” nelle città dove giunge il bus del PD. Freud, Jung e Adler (discordi su tante cose) avrebbero detto che è un lapsus rivelatore di ciò che intende fare con gli economisti e gli editorialisti “a Palazzo”.
LA POLPETTA AVVELENATA DI ROMANO PRODI
[27 feb 08] E’ noto, anzi notorio, che Romano Prodi considera Walter Veltroni & Co (i suoi associata) alla origine delle sue sventure e del vero e proprio crollo del suo ormai ultimo (per sempre) governo. Non si sarebbe verificato se Veltroni non avesse indicato l’intenzione di voler“correre da solo”, creando lo scompiglio tra i partitini della litigiosa coalizione. Prodi li vede come una ditta ingrata in quanto avrebbe volentieri ceduto loro con garbo Palazzo Chigi (ed annessi e connessi) nel 2011, una volta raggiunta l’età appropriata per fare il nonno politico-spirituale del neonato Partito democratico. Ora è stato nonnificato anzitempo ed anche costretto a fare buon viso a cattivo gioco ed a mostrare simpatia e supporto per la compagnia di giro (in autobus) Veltroni & Co della quale è presidente onorario.
In questa veste avrebbe offerto più di un suggerimento. Sarebbe stata sua l’idea di ispirare il programma del Pd (con i necessari aggiustamenti) a quello della Casa della libertà del 2006; in tal modo, si sarebbe dato un segnale di discontinuità. Inoltre, presi a negoziare accordi e candidatura con questo e quello, i compilatori di programmi sarebbero stati ben lieti di avere un prête-à-porter pronto all’uso e lo avrebbero in buona parte scopiazzato. Ciò vuol dire che il programma CdL del 2006 era sbagliato? No, ma era sufficientemente spostato al centro, anzi al centrodestra, da mettere in fuga una fascia importante del bacino elettorale potenziale di Veltroni & Co. E farla correre verso l’Arcobaleno. In secondo luogo, i prodiani hanno indotto il Pd a fare accordi elettorali (in barba alla proclamata “solitudine del maratoneta”, roba da topi di cineteca, ispirata forse da un film britannico, così intitolato, degli anni Sessanta).
Intese come quelle con i dipietristi ed i pannellani porterebbero allo scontro le varie anime, per così dire, del Pd: garantisti contro giustizialisti, laicisti contro cattolici. La maniera peggiore per fare la campagna elettorale. E se queste strategie non bastassero? Ove, nonostante tutto, per disgrazia di Dio ed in barba alla volontà della nazione, si arrivasse ad un pareggio, o qualcosa di analogo, non resta che l’arma del “buco”, la falla di bilancio lascia in eredità dalla triade Prodi-Padoa Schioppa-Visco (senza che Veltroni & Co se ne accorgessero) al nuovo governo, il quale dovrà, comunque, o arrabattarsi con qualche miscela di ritocchi alle spese ed alle entrate oppure rinegoziare gli accordi con l'Eurogruppo. Nell'immediato chiunque sarà a Palazzo Chigi e a via Venti Settembre dovrà colmare una falla di 8-10 miliardi di euro per raggiungere, a fine anno, gli impegni sottoscritti con gli altri Stati dell'area dell'euro. In caso di pareggio e di tentativo di larghe intese, nel “buco” sprofonderà Walter Veltroni.
In questa veste avrebbe offerto più di un suggerimento. Sarebbe stata sua l’idea di ispirare il programma del Pd (con i necessari aggiustamenti) a quello della Casa della libertà del 2006; in tal modo, si sarebbe dato un segnale di discontinuità. Inoltre, presi a negoziare accordi e candidatura con questo e quello, i compilatori di programmi sarebbero stati ben lieti di avere un prête-à-porter pronto all’uso e lo avrebbero in buona parte scopiazzato. Ciò vuol dire che il programma CdL del 2006 era sbagliato? No, ma era sufficientemente spostato al centro, anzi al centrodestra, da mettere in fuga una fascia importante del bacino elettorale potenziale di Veltroni & Co. E farla correre verso l’Arcobaleno. In secondo luogo, i prodiani hanno indotto il Pd a fare accordi elettorali (in barba alla proclamata “solitudine del maratoneta”, roba da topi di cineteca, ispirata forse da un film britannico, così intitolato, degli anni Sessanta).
Intese come quelle con i dipietristi ed i pannellani porterebbero allo scontro le varie anime, per così dire, del Pd: garantisti contro giustizialisti, laicisti contro cattolici. La maniera peggiore per fare la campagna elettorale. E se queste strategie non bastassero? Ove, nonostante tutto, per disgrazia di Dio ed in barba alla volontà della nazione, si arrivasse ad un pareggio, o qualcosa di analogo, non resta che l’arma del “buco”, la falla di bilancio lascia in eredità dalla triade Prodi-Padoa Schioppa-Visco (senza che Veltroni & Co se ne accorgessero) al nuovo governo, il quale dovrà, comunque, o arrabattarsi con qualche miscela di ritocchi alle spese ed alle entrate oppure rinegoziare gli accordi con l'Eurogruppo. Nell'immediato chiunque sarà a Palazzo Chigi e a via Venti Settembre dovrà colmare una falla di 8-10 miliardi di euro per raggiungere, a fine anno, gli impegni sottoscritti con gli altri Stati dell'area dell'euro. In caso di pareggio e di tentativo di larghe intese, nel “buco” sprofonderà Walter Veltroni.
La tempesta internazionale ha già travolto l'economia italiana ma il Pd non se ne è accorto da L'Occidentale del 28 febbraio
La tempesta internazionale in corso in questi giorni (ulteriore ribasso del valore internazionale del dollaro, aumenti delle quotazioni del petrolio e di altre materie prime, nonché delle derrate) avrà effetti sull’economia italiana e sulle politiche economiche con le quali i maggiori schieramenti propongono di affrontarne i nodi? La risposta non può che essere positiva.
In primo luogo, se gli economisti che collaborano con Walter Veltroni si mettessero ai loro computer e farebbero girare i loro modelli econometrici, si accorgerebbero che le implicazioni più pesanti sono quelle sulla piattaforma programmatica del Partito Democratico.
Una chiosa tecnica: la modellistica macro-economica in uso presso il PD si basa in gran misura sul lavoro pionieristico fatto circa mezzo secolo fa da Lawrence Klein – è, quindi, di impianto neo-keynesiano e la sua più importante variabile esogena è il commercio internazionale. In parole povere, e semplificando al massimo, quanto più cresce il resto del mondo e l’intercambio tanto più cresce la domanda per beni e servizi prodotti dall’Italia (sempre che si sia in grado di essere competitivi) e, con essa la produzione, l’occupazione, la massa salariale ed i consumi interni.
Alcune settimane fa, quando si disponeva solamente del “dodecalogo”, abbiamo sottolineato come a maggio-giugno i conti pubblici avrebbero evidenziato una falla di 8-12 miliardi di euro dato che la crescita del pil nel 2008 era allora stimabile allo 0,7% (invece dell’1,5% ipotizzato dalla triade Prodi-Padoa-Visco quando hanno messo a punto la manovra di bilancio per l’esercizio finanziario in corso.
Su L’Occidentale del 27 febbraio è stato messo in rilievo, non più sulla base del “dodecalogo” ma del programma appena presentato alla stampa e all’elettorato, che l’applicazione integrale delle misure proposte comporta (oltre ad una manovra di metà esercizio finanziario nel 2008) maggiori spese pubbliche e riduzioni di entrate valutabili, in prima approssimazione, in 40-60 miliardi di euro nel triennio 2009-2011.
Il rallentamento dell’economia internazionale rischia di comportare una crescita davvero rasoterra per l’Italia nel 2008 e nel 2009 (l’orizzonte temporale dei modelli econometrici a cui è fatto riferimento è di norma 24 mesi). Ciò dovrebbe comportare un drastico ridimensionamento del programma elettorale del PD tanto in materia di spese pubbliche (concessione all’area sindacale ed ai settori maggiormente intervestiti del partito) quanto in materia di riduzione di tasse ed imposta (promessa invece all’ala liberale, nonché tesa alla conquista del centro).
In secondo luogo, è prematuro esaminare le implicazioni sul programma del PdL poiché non ancora presentato. Alla luce degli avvenimenti degli ultimi giorni, tuttavia, sarebbe quanto mai opportuno tenere conto di un quadro internazionale che è notevolmente cambiato non solamente in termini di crescita ma anche e soprattutto di andamento dei prezzi e, dunque, di potere d’acquisto di individui e famiglie.
Anche se i mercati obbligazionari ed altri indicatori sembrano dire che si sta tornando ad una situazione analoga a quella degli Anni 70 (inflazione elevata e bassa crescita dell’economia reale), le determinanti sono profondamente differenti da quelle di allora: non siamo tanto alle prese con brusche variazioni delle ragioni di scambio e con il riassetto interno delle remunerazioni del lavoro e del capitale (come negli Anni 70) quanto con un mutamento strutturale dell’economia mondiale.
Ciò comporta – lo dice a tutto tondo l’ultimo rapporto Fao – la fine dei bassi costi delle derrate alimentari (dal 1850 al 1970 l’indice delle loro quotazione è aumentato appena del 50% per poi prendere un impennata che lo ha portato nel 2005 a superare di dieci volte il livello del 1850 ed all’ultima rilevazione di ben quindici volte). Questa determinante è più importante degli aumenti dei corsi del petrolio (cresciuti del 50% nel solo 2007). In tema di energia, c’è una gamma di alternative tecnologiche molto più ampia di quella in tema di produzione di cibo, la cui domanda è in rapida crescita poiché centinaia di milioni di persone stanno uscendo dalla miseria: mediamente un cinese mangiava 20 chili di carne l’anno nel 1985, oggi ne mangia 44 (e ci vogliono 8 chili di grano per produrne uno di carne).
Il Pdl dovrebbe sottolineare che non sono certo le politiche di bilancio e della moneta dei singoli Paesi Ocse (anche ove concertate) a potere incidere su questo fenomeno. Ancor meno possono fare eventuali politiche dei redditi nazionali o conati di quelle “europee”; lasciamo stare la politica dei redditi “mondiale” (di cui si conciò ai tempi di quel primo Governo Prodi in cui si finanziavano convegni sull’Ulivo mondiale e si progettava anche “mani pulite nel mondo”). Appartiene ad Alice nel Paese delle Meraviglie.
“Mr. Prezzi”, creato dal centrosinistra, è una via di mezzo tra politica dei redditi in surroga ed uno spaventapasseri con la funzione di essere quello con cui prendersela. Se si tenterà di introdurre controlli, potrà aggravare la situazione (con distorsioni dell’allocazione delle risorse), come provano tutte le esperienze del passato (soprattutto quella degli Usa nel 1971-73).
C’è una strategia alternativa: liberalizzare mercati (specialmente nei servizi) e ridurre regole (a quando i risultati dei tanti annunciati studi sull’impatto della regolazione?). Dovrebbe essere l’architrave del programma PdL. I mercati obbligazionari ed altri indicatori sembrano dire che si sta tornando ad una situazione analoga a quella degli Anni 70: inflazione elevata e bassa crescita dell’economia reale.
Le determinanti sono, però, profondamente differenti da quelle di allora: non siamo alle prese con brusche variazioni delle ragioni di scambio e con il riassetto interno delle remunerazioni del lavoro e del capitale (come negli Anni 70) ma con un mutamento strutturale dell’economia mondiale. Ciò comporta – lo dice a tutto tondo l’ultimo rapporto Fao – la fine dei bassi costi delle derrate alimentari (dal 1850 al 1970 l’indice delle loro quotazione è aumentato appena del 50% per poi prendere un impennata che lo ha portato nel 2005 a superare di dieci volte il livello del 1850 ed all’ultima rilevazione di ben quindici volte).
Questa determinante è più importante degli aumenti dei corsi del petrolio (cresciuti del 50% nel solo 2007). In tema di energia, c’è una gamma di alternative tecnologiche molto più ampia di quella in tema di produzione di cibo, la cui domanda è in rapida crescita poiché centinaia di milioni di persone stanno uscendo dalla miseria: mediamente un cinese mangiava 20 chili di carne l’anno nel 1985, oggi ne mangia 44 (e ci vogliono 8 chili di grano per produrne uno di carne).
Non sono certo le politiche di bilancio e della moneta dei singoli Paesi Ocse (anche ove concertate) a potere incidere su questo fenomeno. Ancor meno possono fare eventuali politiche dei redditi nazionali o conati di quelle “europee”; lasciamo la politica dei redditi “mondiale” (di cui alcuni concionano) ad Alice nel Paese delle Meraviglie. “Mr. Prezzi” è una politica dei redditi in surroga. Chi ne vestirà i panni sarà un malcapitato che avrà le funzioni di essere quello con cui prendersela. Se tenterà di introdurre controlli, potrà aggravare la situazione (con distorsioni dell’allocazione delle risorse), come provano tutte le esperienze del passato (soprattutto quella degli Usa nel 1971-73).
C’è una strategia alternativa: liberalizzare mercati (specialmente nei servizi) e ridurre regole (a quando i risultati dei tanti annunciati studi sull’impatto della regolazione?).
In primo luogo, se gli economisti che collaborano con Walter Veltroni si mettessero ai loro computer e farebbero girare i loro modelli econometrici, si accorgerebbero che le implicazioni più pesanti sono quelle sulla piattaforma programmatica del Partito Democratico.
Una chiosa tecnica: la modellistica macro-economica in uso presso il PD si basa in gran misura sul lavoro pionieristico fatto circa mezzo secolo fa da Lawrence Klein – è, quindi, di impianto neo-keynesiano e la sua più importante variabile esogena è il commercio internazionale. In parole povere, e semplificando al massimo, quanto più cresce il resto del mondo e l’intercambio tanto più cresce la domanda per beni e servizi prodotti dall’Italia (sempre che si sia in grado di essere competitivi) e, con essa la produzione, l’occupazione, la massa salariale ed i consumi interni.
Alcune settimane fa, quando si disponeva solamente del “dodecalogo”, abbiamo sottolineato come a maggio-giugno i conti pubblici avrebbero evidenziato una falla di 8-12 miliardi di euro dato che la crescita del pil nel 2008 era allora stimabile allo 0,7% (invece dell’1,5% ipotizzato dalla triade Prodi-Padoa-Visco quando hanno messo a punto la manovra di bilancio per l’esercizio finanziario in corso.
Su L’Occidentale del 27 febbraio è stato messo in rilievo, non più sulla base del “dodecalogo” ma del programma appena presentato alla stampa e all’elettorato, che l’applicazione integrale delle misure proposte comporta (oltre ad una manovra di metà esercizio finanziario nel 2008) maggiori spese pubbliche e riduzioni di entrate valutabili, in prima approssimazione, in 40-60 miliardi di euro nel triennio 2009-2011.
Il rallentamento dell’economia internazionale rischia di comportare una crescita davvero rasoterra per l’Italia nel 2008 e nel 2009 (l’orizzonte temporale dei modelli econometrici a cui è fatto riferimento è di norma 24 mesi). Ciò dovrebbe comportare un drastico ridimensionamento del programma elettorale del PD tanto in materia di spese pubbliche (concessione all’area sindacale ed ai settori maggiormente intervestiti del partito) quanto in materia di riduzione di tasse ed imposta (promessa invece all’ala liberale, nonché tesa alla conquista del centro).
In secondo luogo, è prematuro esaminare le implicazioni sul programma del PdL poiché non ancora presentato. Alla luce degli avvenimenti degli ultimi giorni, tuttavia, sarebbe quanto mai opportuno tenere conto di un quadro internazionale che è notevolmente cambiato non solamente in termini di crescita ma anche e soprattutto di andamento dei prezzi e, dunque, di potere d’acquisto di individui e famiglie.
Anche se i mercati obbligazionari ed altri indicatori sembrano dire che si sta tornando ad una situazione analoga a quella degli Anni 70 (inflazione elevata e bassa crescita dell’economia reale), le determinanti sono profondamente differenti da quelle di allora: non siamo tanto alle prese con brusche variazioni delle ragioni di scambio e con il riassetto interno delle remunerazioni del lavoro e del capitale (come negli Anni 70) quanto con un mutamento strutturale dell’economia mondiale.
Ciò comporta – lo dice a tutto tondo l’ultimo rapporto Fao – la fine dei bassi costi delle derrate alimentari (dal 1850 al 1970 l’indice delle loro quotazione è aumentato appena del 50% per poi prendere un impennata che lo ha portato nel 2005 a superare di dieci volte il livello del 1850 ed all’ultima rilevazione di ben quindici volte). Questa determinante è più importante degli aumenti dei corsi del petrolio (cresciuti del 50% nel solo 2007). In tema di energia, c’è una gamma di alternative tecnologiche molto più ampia di quella in tema di produzione di cibo, la cui domanda è in rapida crescita poiché centinaia di milioni di persone stanno uscendo dalla miseria: mediamente un cinese mangiava 20 chili di carne l’anno nel 1985, oggi ne mangia 44 (e ci vogliono 8 chili di grano per produrne uno di carne).
Il Pdl dovrebbe sottolineare che non sono certo le politiche di bilancio e della moneta dei singoli Paesi Ocse (anche ove concertate) a potere incidere su questo fenomeno. Ancor meno possono fare eventuali politiche dei redditi nazionali o conati di quelle “europee”; lasciamo stare la politica dei redditi “mondiale” (di cui si conciò ai tempi di quel primo Governo Prodi in cui si finanziavano convegni sull’Ulivo mondiale e si progettava anche “mani pulite nel mondo”). Appartiene ad Alice nel Paese delle Meraviglie.
“Mr. Prezzi”, creato dal centrosinistra, è una via di mezzo tra politica dei redditi in surroga ed uno spaventapasseri con la funzione di essere quello con cui prendersela. Se si tenterà di introdurre controlli, potrà aggravare la situazione (con distorsioni dell’allocazione delle risorse), come provano tutte le esperienze del passato (soprattutto quella degli Usa nel 1971-73).
C’è una strategia alternativa: liberalizzare mercati (specialmente nei servizi) e ridurre regole (a quando i risultati dei tanti annunciati studi sull’impatto della regolazione?). Dovrebbe essere l’architrave del programma PdL. I mercati obbligazionari ed altri indicatori sembrano dire che si sta tornando ad una situazione analoga a quella degli Anni 70: inflazione elevata e bassa crescita dell’economia reale.
Le determinanti sono, però, profondamente differenti da quelle di allora: non siamo alle prese con brusche variazioni delle ragioni di scambio e con il riassetto interno delle remunerazioni del lavoro e del capitale (come negli Anni 70) ma con un mutamento strutturale dell’economia mondiale. Ciò comporta – lo dice a tutto tondo l’ultimo rapporto Fao – la fine dei bassi costi delle derrate alimentari (dal 1850 al 1970 l’indice delle loro quotazione è aumentato appena del 50% per poi prendere un impennata che lo ha portato nel 2005 a superare di dieci volte il livello del 1850 ed all’ultima rilevazione di ben quindici volte).
Questa determinante è più importante degli aumenti dei corsi del petrolio (cresciuti del 50% nel solo 2007). In tema di energia, c’è una gamma di alternative tecnologiche molto più ampia di quella in tema di produzione di cibo, la cui domanda è in rapida crescita poiché centinaia di milioni di persone stanno uscendo dalla miseria: mediamente un cinese mangiava 20 chili di carne l’anno nel 1985, oggi ne mangia 44 (e ci vogliono 8 chili di grano per produrne uno di carne).
Non sono certo le politiche di bilancio e della moneta dei singoli Paesi Ocse (anche ove concertate) a potere incidere su questo fenomeno. Ancor meno possono fare eventuali politiche dei redditi nazionali o conati di quelle “europee”; lasciamo la politica dei redditi “mondiale” (di cui alcuni concionano) ad Alice nel Paese delle Meraviglie. “Mr. Prezzi” è una politica dei redditi in surroga. Chi ne vestirà i panni sarà un malcapitato che avrà le funzioni di essere quello con cui prendersela. Se tenterà di introdurre controlli, potrà aggravare la situazione (con distorsioni dell’allocazione delle risorse), come provano tutte le esperienze del passato (soprattutto quella degli Usa nel 1971-73).
C’è una strategia alternativa: liberalizzare mercati (specialmente nei servizi) e ridurre regole (a quando i risultati dei tanti annunciati studi sull’impatto della regolazione?).
sabato 23 febbraio 2008
Prodi, Padoa e Visco lasciano una falla di 10 miliardi da L'Occidentale del 23 febbraio
In questi giorni, gli schierameni politici stanno mettendo a punto i programmi con cui presentarsi agli elettori. I temi economici acquistano nuova centralità in seguito alla pubblicaziobne delle previsioni pubblicate dalla Commisione Europea: sfortunatamente, confermano le stime quantitative de L'Occidentale secondo cui nel 2008 la crescita del pil dell'Italia sarà rasoterra.
Le determinanti sono molteplici. Già alla fine degli Anni Novanta un'analisi della Banca d'Italia ne attribuiva la responsabilità al forte aumento della pressione fiscale (sette punti percentuali del pil) attuato dai Governi di centro-sinistra nella fase del percorso verso l'unione monetaria (invece di giungere all'euro riducende la spesa corrente). Il Governo Prodi-Padoa Schioppa- Visco, con la guida politico-spirituale di Walter Veltroni, ha preseguito sulla strada dell'incremento della pressione e dei vincoli mettendo un'ipoteca sul futuro della crescita italiana.
Altre determinanti (la bassa produttività del lavoro) non dipendo interamente dalla sfera politica. Ce ne è, però, una che è fortemente correlata all'azione di Governo ed alle misure lesgislative: il peso del debito pubblico il cui stock è al 105% del pil ed il cui servizio (per ammortamento ed interessi assorbe il 3% del pil, percentuale che potrebbe aumentare se, come non è impossibile, i tassi d'interesse viaggiano, ancorché leggermente, all'insù). E' un fardello sul potenziale di crescita dell'Italia (rispetto alle altre econonomie europee).
Nell'immediato chiunque sarà a Palazzo Chigi e via Venti Settembre dovrà colmare una falla di 8-10 miliardi di euro per raggiungere, a fine anno, gli impegni sottoscritti con gli altri Stati dell'area dell'euro.
E' un'eredità pesante lasciata dalla triade Prodi-TPS-Visco (con la benedizione di Veltroni) al nuovo Governo, il quale dovrà o arrabbattarsi con qualche miscela di ritocchi alle spese ed alle entrate oppure rinegoziare gli accordi con l'Eurogruppo.
Ipotizzando che, per grazia di Dio e per volontà della Nazione, si riesca a saldare il buco annunciato di breve periodo, resta il dilemma di quale strategia seguire per ridurrel'onere del debito, con le sue conseguenze negative sulla crescita dei redditi, della produzione, dei consumi, dell'occupazione e del benessere in generale degli italiani.
Ci sono due percorsi possibili. Uno prevede un ripiano lento e progressivo, mantenendo un avanzo primario (saldo positivo tra entrate e spese) pari al 5% del pil per i prossimi 15-20 anni. Il secondo comporta un'operazione shock per tagliare una fetta del debito nell'ambito di pochi anni. Sono ambedue fattibili. Il primo, però, vuole dire un lungo periodo di crescita lenta in quanto il 10% circa delle entrate dovrà essere indirizzato non alla produzione di beni pubblici (giustizia, difesa) o di beni sociali (istruzione, sanità, previdenza) o di servizi a cittadini ed imprese ma al graduale smaltimento del debito.
Il secondo non è facile in un contesto finanziario internazionale in cui, a ragione delle tensioni in corso sin dall'estate, si stanno esaurendo titolarizzazioni e cartolarizzazioni, nonostante al mondo la liquidità non sia mai stata così ampia.
Tuttavia, una strategia diretta a privatizzare Eni, Enel, Rai, Finmeccanica, Fincantieri, Fintecna, Sviluppo Italia, municipalizzate e quant'altro, potrebbe ridurre lo stock di debito dal 105% all'80-85% del pil nell'arco di cinque anni, sempre che sia coniugata con una strategia parallela di liberalizzazione dei mercati dei servizi, dei prodotti e dei fattori di produzione.
Potrebbe essere la chiave per far rialzare l'Italia e metterla al passo con il resto d'Europa.
Da non pagare: No
Le determinanti sono molteplici. Già alla fine degli Anni Novanta un'analisi della Banca d'Italia ne attribuiva la responsabilità al forte aumento della pressione fiscale (sette punti percentuali del pil) attuato dai Governi di centro-sinistra nella fase del percorso verso l'unione monetaria (invece di giungere all'euro riducende la spesa corrente). Il Governo Prodi-Padoa Schioppa- Visco, con la guida politico-spirituale di Walter Veltroni, ha preseguito sulla strada dell'incremento della pressione e dei vincoli mettendo un'ipoteca sul futuro della crescita italiana.
Altre determinanti (la bassa produttività del lavoro) non dipendo interamente dalla sfera politica. Ce ne è, però, una che è fortemente correlata all'azione di Governo ed alle misure lesgislative: il peso del debito pubblico il cui stock è al 105% del pil ed il cui servizio (per ammortamento ed interessi assorbe il 3% del pil, percentuale che potrebbe aumentare se, come non è impossibile, i tassi d'interesse viaggiano, ancorché leggermente, all'insù). E' un fardello sul potenziale di crescita dell'Italia (rispetto alle altre econonomie europee).
Nell'immediato chiunque sarà a Palazzo Chigi e via Venti Settembre dovrà colmare una falla di 8-10 miliardi di euro per raggiungere, a fine anno, gli impegni sottoscritti con gli altri Stati dell'area dell'euro.
E' un'eredità pesante lasciata dalla triade Prodi-TPS-Visco (con la benedizione di Veltroni) al nuovo Governo, il quale dovrà o arrabbattarsi con qualche miscela di ritocchi alle spese ed alle entrate oppure rinegoziare gli accordi con l'Eurogruppo.
Ipotizzando che, per grazia di Dio e per volontà della Nazione, si riesca a saldare il buco annunciato di breve periodo, resta il dilemma di quale strategia seguire per ridurrel'onere del debito, con le sue conseguenze negative sulla crescita dei redditi, della produzione, dei consumi, dell'occupazione e del benessere in generale degli italiani.
Ci sono due percorsi possibili. Uno prevede un ripiano lento e progressivo, mantenendo un avanzo primario (saldo positivo tra entrate e spese) pari al 5% del pil per i prossimi 15-20 anni. Il secondo comporta un'operazione shock per tagliare una fetta del debito nell'ambito di pochi anni. Sono ambedue fattibili. Il primo, però, vuole dire un lungo periodo di crescita lenta in quanto il 10% circa delle entrate dovrà essere indirizzato non alla produzione di beni pubblici (giustizia, difesa) o di beni sociali (istruzione, sanità, previdenza) o di servizi a cittadini ed imprese ma al graduale smaltimento del debito.
Il secondo non è facile in un contesto finanziario internazionale in cui, a ragione delle tensioni in corso sin dall'estate, si stanno esaurendo titolarizzazioni e cartolarizzazioni, nonostante al mondo la liquidità non sia mai stata così ampia.
Tuttavia, una strategia diretta a privatizzare Eni, Enel, Rai, Finmeccanica, Fincantieri, Fintecna, Sviluppo Italia, municipalizzate e quant'altro, potrebbe ridurre lo stock di debito dal 105% all'80-85% del pil nell'arco di cinque anni, sempre che sia coniugata con una strategia parallela di liberalizzazione dei mercati dei servizi, dei prodotti e dei fattori di produzione.
Potrebbe essere la chiave per far rialzare l'Italia e metterla al passo con il resto d'Europa.
Da non pagare: No
VELOCITA’ TUTTA DA ASCOLTARE
Il Novecento è stato chiamato “il secolo breve” (a ragione dalle rapide trasformazioni sociali che si sono verificate) ed il “secolo crudele” (a ragione dell’uso della tecnologia per il terrore e gli stermini di massa). Adesso, una mostra, inaugurata il 19 febbraio a Roma nel Pala Expò completamente rimesso a nuovo, lo chiama “il secolo veloce”. Il mito della velocità viene raccontato tramite oltre 350 opere e testimonianze sul secolo appena trascorso: quadri, auto d’epoca, motociclette, abiti, filmati e persino un aereo- una carrellata sul Novecento attraverso il concetto di velocità inteso come mito soprattutto, ma non esclusivamente, nel nostro Paese. Nell’ambito della mostra (che andrà in altre città), in particolare nell’elegante auditorium del Pala Expò, l’Accademia Filarmonica Romana ha organizzato una serie di concerti di musica da camera (a prezzi ridottissimi ed affollati principalmente da giovani) per dare spazio agli aspetti musicali della velocità (nel “secolo veloce” e non solo).
Il primo, il giorno dell’inaugurazione della mostra, è stato affidato a Daniele Lombardi. Il programma è stato dedicato quasi interamente alla musica rapidissima del futurismo europeo (non solo italiano ma anche francese, americano e russo), completato da due novità contemporanee che rievocano lo stile dell’avanguardia 1915-25. Si è passati da una strepitosa composizione di Alberto Savinio da fare sanguinare le mani (come avvenne alla prima assoluta organizzata a Parigi da Apollinaire) all’atonalità di Arthur Vincent Lourié, alla dodecafonia di Silvio Mix, al caberet vienneseggiante di Franco Casavola, al jazz intellettuale e raffinato di Giacinto Scelsi, al collage di frammenti di Gerge Anthell per concludere con due pezzi nuovissimi rispettivamente di Sylvano Bussotti e di Daniele Lombardi in persona. Lombardi ha mostrato una tecnica mozzafiato coniugata con il controllo assoluto dello strumento. Dopo “The Bad Boys of the Piano” (“I ragazzacci del pianoforte”) – questo il titolo del concerto inaugurale - è in programma una serata (il 26 febbraio) in memoria di John Cage con Margaret Leng Tan al pianoforte. La pianista di Singapore, considerata tra le maggiori interpreti del “pianoforte eccentrico” del Novecento, suonerà musiche di Cage, utilizzando singole corde di pianoforte, nonché radio, fischietti, bacinelle d’acqua, mazzi di carte (tutti oggetti impiegati in “Water Music” del 1952) e tre diversi tipi di piano: il pianoforte ‘classico’, il pianoforte giocattolo (ossia il Toy Piano, cui Cage dedica una Suite nel 1948) e il pianoforte “preparato”; il tutto corredato da proiezioni video. In programma anche il 4’33’’ che prevede da parte dell’esecutore di rispettare il silenzio per il tempo indicato nel titolo del brano.
A questi appuntamenti imperniati sull’avanguardia del secolo scorso seguono una serie di concerti allestiti per indicare la continuità della velocità nella storia della musica. Sono affidati al Quartetto Bernini, con Roberto Posseda al pianoforte, che eseguirà l’integrale dei quartetti di Mozart. Come si inserirà il salisburghese nel futurismo e nello sperimentalismo del Novecento e nel contesto di una mostra in cui i motori affiancano i quadri, le sculture, la moda ed i film d’epoca? E’ una risposta che daranno principalmente i giovani , spesso giovanissimi, se continueranno ad affollare la serie dei concerti così come hanno riempito ogni ordine di posto la prima serata. Per i dettagli www.filarmonicaromana.org
Il primo, il giorno dell’inaugurazione della mostra, è stato affidato a Daniele Lombardi. Il programma è stato dedicato quasi interamente alla musica rapidissima del futurismo europeo (non solo italiano ma anche francese, americano e russo), completato da due novità contemporanee che rievocano lo stile dell’avanguardia 1915-25. Si è passati da una strepitosa composizione di Alberto Savinio da fare sanguinare le mani (come avvenne alla prima assoluta organizzata a Parigi da Apollinaire) all’atonalità di Arthur Vincent Lourié, alla dodecafonia di Silvio Mix, al caberet vienneseggiante di Franco Casavola, al jazz intellettuale e raffinato di Giacinto Scelsi, al collage di frammenti di Gerge Anthell per concludere con due pezzi nuovissimi rispettivamente di Sylvano Bussotti e di Daniele Lombardi in persona. Lombardi ha mostrato una tecnica mozzafiato coniugata con il controllo assoluto dello strumento. Dopo “The Bad Boys of the Piano” (“I ragazzacci del pianoforte”) – questo il titolo del concerto inaugurale - è in programma una serata (il 26 febbraio) in memoria di John Cage con Margaret Leng Tan al pianoforte. La pianista di Singapore, considerata tra le maggiori interpreti del “pianoforte eccentrico” del Novecento, suonerà musiche di Cage, utilizzando singole corde di pianoforte, nonché radio, fischietti, bacinelle d’acqua, mazzi di carte (tutti oggetti impiegati in “Water Music” del 1952) e tre diversi tipi di piano: il pianoforte ‘classico’, il pianoforte giocattolo (ossia il Toy Piano, cui Cage dedica una Suite nel 1948) e il pianoforte “preparato”; il tutto corredato da proiezioni video. In programma anche il 4’33’’ che prevede da parte dell’esecutore di rispettare il silenzio per il tempo indicato nel titolo del brano.
A questi appuntamenti imperniati sull’avanguardia del secolo scorso seguono una serie di concerti allestiti per indicare la continuità della velocità nella storia della musica. Sono affidati al Quartetto Bernini, con Roberto Posseda al pianoforte, che eseguirà l’integrale dei quartetti di Mozart. Come si inserirà il salisburghese nel futurismo e nello sperimentalismo del Novecento e nel contesto di una mostra in cui i motori affiancano i quadri, le sculture, la moda ed i film d’epoca? E’ una risposta che daranno principalmente i giovani , spesso giovanissimi, se continueranno ad affollare la serie dei concerti così come hanno riempito ogni ordine di posto la prima serata. Per i dettagli www.filarmonicaromana.org
LA TEORIA DEI GIOCHI PER SALVARE LO SCALO VARESINO DI MALPENSA
La decisione del Tar di non concedere la sospensiva a APHolding permette, per ilil momento, la prosecuzione della trattativa tra Alitalia, da un lato, e AirFrance-Klm, dall’altro. Ciò non vuole dire né che l’accordo sia dietro l’angolo né che, nonostante lo zucchero messo all’ultimo momento dal Governo Prodi nel decreto mille proroghe, si sia risolto il nodo del grande aeroscalo nei pressi di Varese. Anzi, chiunque vincerà le prossime elezioni troverà, tra i tanti fascicoli problematici sulla sua scrivania, quello relativo al rebus di Malpensa , ossia cosa fare con una grande infrastruttura se – come pare probabile- viene a mancare l’attività economica (il traffico aereo) che è destinata a servire. E’ un’infrastruttura a destinazione irreversibile: un aeroporto costruito per essere un “hub” non può essere facilmente trasformato in un impianto industriale od in un centro commerciale. Il rebus è particolarmente difficile se va al Governo il PdL. La Lega Nord e buona parte dello schieramento settentrionale del PdL si è ripetutamente espresso a favore del mantenimento di un ruolo strategico per Malpensa. D’altro canto, in tempi non sospetti (con l’articolo “Malpensa: limiti e misfatti” su www.lavoce.info) due consiglieri economici del leader del Pd Walter Veltroni hanno già dato per scontato una ridimensionamento dell’infrastruttura nell’ipotesi in cui il regime di open skies non si allarghi rapidamente dai voli transatlantici (per i quali i cieli si apriranno a fine marzo) a quelli verso l'Asia e verso l'Africa.
Con il senno del poi, è facile dire che l’aeroporto e l’insieme degli scali nel Nord Italia non sono stati programmati con la cura e con le analisi economiche e finanziarie auspicabili per investimenti di tali portata: è sufficiente raffrontare la poca consistenza degli studi di fattibilità per Malpensa (peraltro mai divulgati ma che ho avuto modo di sfogliare quando dirigevo il nucleo di valutazione degli investimenti pubblici presso il Ministero del Bilancio) con lo spessore della analisi condotte, più o meno nello stesso periodo, per il terzo aeroporto di Londra (di cui chiunque poteva acquistare copia, per poche sterline, allo H.M. Stationery Office – l’equivalente del nostro Poligrafico dello Stato).
Tuttavia, l’infrastruttura ormai esiste, si stanno prendendo misure per migliorarne il funzionamento (ad esempio, tempo di attesa per i bagagli) e per accorciare la durata dei collegamento con Milano. Non è interesse di nessuno trattarla, contabilmente, come un “sunk cost” (costo da accantonarsi poiché “chi ha dato, ha dato; chi ha avuto, ha avuto”, come dice una canzone napoletana).
Se, come probabile, verrà definito un periodo di transizione prima che gran parte degli “slots” ora in carico ad Alitalia venga abbandonato, tale lasso di tempo deve essere utilizzato non solo per individuare nuovi vettori, probabilmente asiatici (e negoziare con loro l’utilizzazione dell’infrastruttura) ma anche per condurre una nuova analisi economica sia di Malpensa sia degli altri aeroporti dell’area. Non si tratta solo di aggiornare i dati (anche per tenere conto delle profonde modifiche intervenute nel traffico aereo da quando venne progettato l’”hub”) ma di trarre vantaggio dal progresso effettuato nelle metodologie economiche. Un esempio eloquente è la riorganizzazione degli aeroporti del Nord Europa effettuata negli anni scorsi sulla base di uno studio pionieristico condotto dall’Università di Rotterdam ed i cui esiti principali sono stati pubblicati sul periodico “Financial Management” (Han T.J. Smit “Infrastructure Investment as a Real Options Game: the case of European Airport Exapansion”). Una lezione importante è che utilizzando la strumentazione derivante dalla teoria delle opzioni reali e dalla teoria dei giochi si giunge a quantizzare aspetti non facilmente apparenti in un’analisi costi benefici tradizionale, quale il valore della “opzione di flessibilità” in caso di congestione del traffico negli altri scali. Soprattutto, nell’analisi degli aeroporti nel Nord Europa, la valutazione economica ha permesso di vedere come quelli meno vincolati da regolazioni pubbliche sulla loro crescita e da trattamenti preferenziali per quelle un tempo chiamate “compagnie di bandiera” sono quelli che meglio riescono ad esercitare le opzioni di crescita disponibili nel settore.
In Italia non si dispone di tutte le informazioni necessarie per condurre uno studio identico a quello dell’Università di Rotterdam. Manca un dato tecnico: nel 1996, con il primo Governo Prodi, l’Istat ha smesso di aggiornare la matrice di contabilità sociale del Paese (una rappresentazione analitica che consente di simulare impatti di strategie alternative). Si può, ciò nonostante, fare qualcosa di analogo come mostrano, ad esempio, alcuni lavori condotti durante la XIV Legislatura: l’analisi con opzione reali della transizione da televisione analogica e digitale terrestre (le cui conclusioni sono state recepite dal Governo dell’epoca ed i cui punti salienti sono riassunti nel volume Bezzi et altri “Valutazione in Azione”, F.Angeli) e quella del sistema di trasporti della Basilicata (disponibile presso il Ministero dello Sviluppo Economico).
Abbiamo quindi gli strumenti di base per risolvere il rebus di Malpensa. Non strappiamoci i capelli e non facciamoci prendere dalla disperazione.
Con il senno del poi, è facile dire che l’aeroporto e l’insieme degli scali nel Nord Italia non sono stati programmati con la cura e con le analisi economiche e finanziarie auspicabili per investimenti di tali portata: è sufficiente raffrontare la poca consistenza degli studi di fattibilità per Malpensa (peraltro mai divulgati ma che ho avuto modo di sfogliare quando dirigevo il nucleo di valutazione degli investimenti pubblici presso il Ministero del Bilancio) con lo spessore della analisi condotte, più o meno nello stesso periodo, per il terzo aeroporto di Londra (di cui chiunque poteva acquistare copia, per poche sterline, allo H.M. Stationery Office – l’equivalente del nostro Poligrafico dello Stato).
Tuttavia, l’infrastruttura ormai esiste, si stanno prendendo misure per migliorarne il funzionamento (ad esempio, tempo di attesa per i bagagli) e per accorciare la durata dei collegamento con Milano. Non è interesse di nessuno trattarla, contabilmente, come un “sunk cost” (costo da accantonarsi poiché “chi ha dato, ha dato; chi ha avuto, ha avuto”, come dice una canzone napoletana).
Se, come probabile, verrà definito un periodo di transizione prima che gran parte degli “slots” ora in carico ad Alitalia venga abbandonato, tale lasso di tempo deve essere utilizzato non solo per individuare nuovi vettori, probabilmente asiatici (e negoziare con loro l’utilizzazione dell’infrastruttura) ma anche per condurre una nuova analisi economica sia di Malpensa sia degli altri aeroporti dell’area. Non si tratta solo di aggiornare i dati (anche per tenere conto delle profonde modifiche intervenute nel traffico aereo da quando venne progettato l’”hub”) ma di trarre vantaggio dal progresso effettuato nelle metodologie economiche. Un esempio eloquente è la riorganizzazione degli aeroporti del Nord Europa effettuata negli anni scorsi sulla base di uno studio pionieristico condotto dall’Università di Rotterdam ed i cui esiti principali sono stati pubblicati sul periodico “Financial Management” (Han T.J. Smit “Infrastructure Investment as a Real Options Game: the case of European Airport Exapansion”). Una lezione importante è che utilizzando la strumentazione derivante dalla teoria delle opzioni reali e dalla teoria dei giochi si giunge a quantizzare aspetti non facilmente apparenti in un’analisi costi benefici tradizionale, quale il valore della “opzione di flessibilità” in caso di congestione del traffico negli altri scali. Soprattutto, nell’analisi degli aeroporti nel Nord Europa, la valutazione economica ha permesso di vedere come quelli meno vincolati da regolazioni pubbliche sulla loro crescita e da trattamenti preferenziali per quelle un tempo chiamate “compagnie di bandiera” sono quelli che meglio riescono ad esercitare le opzioni di crescita disponibili nel settore.
In Italia non si dispone di tutte le informazioni necessarie per condurre uno studio identico a quello dell’Università di Rotterdam. Manca un dato tecnico: nel 1996, con il primo Governo Prodi, l’Istat ha smesso di aggiornare la matrice di contabilità sociale del Paese (una rappresentazione analitica che consente di simulare impatti di strategie alternative). Si può, ciò nonostante, fare qualcosa di analogo come mostrano, ad esempio, alcuni lavori condotti durante la XIV Legislatura: l’analisi con opzione reali della transizione da televisione analogica e digitale terrestre (le cui conclusioni sono state recepite dal Governo dell’epoca ed i cui punti salienti sono riassunti nel volume Bezzi et altri “Valutazione in Azione”, F.Angeli) e quella del sistema di trasporti della Basilicata (disponibile presso il Ministero dello Sviluppo Economico).
Abbiamo quindi gli strumenti di base per risolvere il rebus di Malpensa. Non strappiamoci i capelli e non facciamoci prendere dalla disperazione.
ED ORA AD ALITALIA NON RESTA CHE ASPETTARE AIRFRANCE
Alle 20 e qualche minuto (quindi a mercati chiusi) del 20 febbraio un laconico comunicato ha informato che il Tar del Lazio ha respinto il ricorso presentato da AirOne per la sospensiva della trattativa in esclusiva tra Air France-Klm e Alitalia. La decisione è stata presa al termine di una camera di consiglio durata circa tre ore, seguita all'udienza svoltasi nel pomeriggio. Nonostante da settimane giungessero dichiarazioni ottimistiche tanto dal patron di AirOne , l’imprenditore abruzzese Carlo Toto quanto dalle banche e dai fondi (nonché gli altri imprenditori) che si erano mostrati disponibili ad affiancarlo nell’intrapresa, da qualche giorno si respirava aria di un responso negativo al marchingegno giuridico che avrebbe potuto riaprire i giochi e frenare la trattativa tra Alitalia ed AirFrance-Klm , rimettendo in pista APHolding,, la finanziaria controllata da Toto. In primo luogo, il 17 febbraio, il leader della Lega Nord, Umberto Bossi, ha effettuato un’apertura a AirFrance-Klm proprio nel corso di una manifestazione in quello che sarebbe dovuto essere l’”hub”: “Alitalia vada a AirFrance-Klm purchè si salvi Malpensa”. In seondo luogo, il 18 febbraio Alitalia ha annunciato che avrebbe tagliato altri voli dallo scalo spostando decine di collegamenti a Linate ed a Fiumicino: in breve, l’aeroporto nei pressi di Busto Arsizio, dopo avere perso 13 strategici voli intercontinentali, resterebbe collegato soltanto a nove città della Penisola (Treviso, Venezia, Firenze, Pisa, Roma, Napoli, Brindisi, Palermo e Catania). In terzo luogo – e questo era il segnale più eloquente- il 19 febbraio, alla vigilia, dunque, dell’udienza al Tar, un emendamento del Governo alla ddl di conversione in legge del decreto Milleproroghe prevede la cassa integrazione straordinaria per i dipendenti che finiranno in esubero, ad un costo complessivo, a carico dei contribuenti, per 255 milioni di euro. Ove ciò non bastasse, articoli su “IlSole-24Ore”, quotidiano che riflette gli umori della “business community” italiana; ponevano l’accento sulla fragilità finanziaria ed industriale di AirOne – quasi a voler dire che un’eventuale fusione con Alitalia avrebbe prodotto un’azienda al limite del collasso ma “too big to fail” , e tale dunque da imporre intervento pubblico per diversi anni ove non per sempre. I dati presentati dal quotidiano milanese non sono mai stati nettamente e totalmente smentiti anche se i portavoce di AirOne hanno sottolineato che la loro presentazione includeva distorsioni e forzature.
In breve, la possibilità di cassa integrazione completa un quadro coerente con la decisione Alitalia di ridurre i voli da Malpensa e dall’atteggiamento più morbido del leader della Lega Nord nei confronti di AirFrance-Klm. Tutti segnali che il Tar non avrebbe riaperto i giochi. Interessante la motivazione con la quale si respinge la sospensiva (alla trattativa in corso tra Alitalia e AirFrance-Klm) richiesta da AirOne. Nell'ordinanza siglata dal presidente della III Sezione, Stefano Baccarini e dall'estensore Domenico Lundini, si motiva il respingimento dell'istanza cautelare poiché "non sussistono i presupposti per l'accoglimento dell'istanza cautelare, sia per la carenza di elementi di irreparabilità del danno, sia per la mancanza di 'fumus boni iuris'". AirOne ha annunciato un ricorso al Consiglio di Stato. A Palazzo Spada vige naturalmente il riserbo, ma, nei suoi corridoi, a chi pone domande si risponde con un’alzata di braccia ed occhiate intensi agli affreschi sul soffitto. Come dire che se il ricorso mai arriverà si tratterà di una perdita di tempo per tutti. Tanto netta e chiara è la motivazione del Tar. Questi gli aspetti salienti “in punta di diritto”.
Sotto il profilo economico, il dato principale è che la prosecuzione della trattativa esclusiva con AirFrance-Klm allontana (speriamo per sempre) lo spettro del fallimento di Alitalia e promette la nascita di un “campione europeo” con le carte per diventare “campione internazionale”; tale “campione” avrebbe azionisti anche italiani. Sempre sotto il profilo economico resta il nodo di Malpensa . Per mal programmato che sia stata, l’infrastruttura ormai esiste, si stanno prendendo misure per migliorarne il funzionamento (ad esempio, tempo di attesa per i bagagli) e per accorciare la durata dei collegamento con Milano. Non è interesse di nessuno trattarla, contabilmente, come un “sunk cost” (costo da accantonarsi poiché “chi ha dato, ha dato; chi ha avuto, ha avuto”, come dice una canzone napoletana). Occorrerà studiare con cura la sua utilizzazione riorganizzando al meglio l’insieme degli aeroporti dell’Italia settentrionali: si possono trarre lezioni utili dalle analisi effettuate, a cavallo tra la fine del XX e l’inizio del XXI secolo, per riorganizzare gli aeroporti nel Nord Europa (pur sotto la competenza amministrativa di diversi Stati).
Siamo, però, in campagna elettorale . Dunque, occorre esaminare anche “the politics”(gli aspetti puramente politici) della decisione del Tar. Il fatto che sia stata preceduta da aperture della Lega Nord ad Alitalia, della concessione della cassa integrazione straordinaria, da una serie di articoli su un’importante testata vuole dire che ormai il mondo della politica non prende più in nessuna considerazione il tentativo di AirOne. A sinistra vige la proprietà transitiva: gli amici dei miei avversari sono i miei avversari. Nota la dimestichezza tra Carlo Toto e Romano Prodi, non ci si poteva altro dal buonista Walter Veltroni. Quel che resta del centro è alle prese con travagli complicati tra rose e scudi. Nel PdL , Silvio Berlusconi ha alzato la voce in difesa dell’”italianità” della compagnia: un’interpretazione potrebbe essere quella secondo cui la partecipazione azionaria del Tesoro e di investitori italiani alla nuova azienda (risultato della fusione) ed una voce del CdA potrebbero assicurare tale requisito. Alla luce del “buco annunciato” – 8-12 miliardi da racimolare in giugno per fare fronte all’eredità di Prodi (e del compatto che oggi propone Veltroni- non ci sono mezzi finanziari per salvataggi. Quindi (ed in tal modo si deve leggere l’invito di Umberto Bossi) più utile e più promettente destinare la risorsa più scarsa – il tempo- per riprogrammare gli scali del Nord (e alimentare così Malpensa).
In breve, la possibilità di cassa integrazione completa un quadro coerente con la decisione Alitalia di ridurre i voli da Malpensa e dall’atteggiamento più morbido del leader della Lega Nord nei confronti di AirFrance-Klm. Tutti segnali che il Tar non avrebbe riaperto i giochi. Interessante la motivazione con la quale si respinge la sospensiva (alla trattativa in corso tra Alitalia e AirFrance-Klm) richiesta da AirOne. Nell'ordinanza siglata dal presidente della III Sezione, Stefano Baccarini e dall'estensore Domenico Lundini, si motiva il respingimento dell'istanza cautelare poiché "non sussistono i presupposti per l'accoglimento dell'istanza cautelare, sia per la carenza di elementi di irreparabilità del danno, sia per la mancanza di 'fumus boni iuris'". AirOne ha annunciato un ricorso al Consiglio di Stato. A Palazzo Spada vige naturalmente il riserbo, ma, nei suoi corridoi, a chi pone domande si risponde con un’alzata di braccia ed occhiate intensi agli affreschi sul soffitto. Come dire che se il ricorso mai arriverà si tratterà di una perdita di tempo per tutti. Tanto netta e chiara è la motivazione del Tar. Questi gli aspetti salienti “in punta di diritto”.
Sotto il profilo economico, il dato principale è che la prosecuzione della trattativa esclusiva con AirFrance-Klm allontana (speriamo per sempre) lo spettro del fallimento di Alitalia e promette la nascita di un “campione europeo” con le carte per diventare “campione internazionale”; tale “campione” avrebbe azionisti anche italiani. Sempre sotto il profilo economico resta il nodo di Malpensa . Per mal programmato che sia stata, l’infrastruttura ormai esiste, si stanno prendendo misure per migliorarne il funzionamento (ad esempio, tempo di attesa per i bagagli) e per accorciare la durata dei collegamento con Milano. Non è interesse di nessuno trattarla, contabilmente, come un “sunk cost” (costo da accantonarsi poiché “chi ha dato, ha dato; chi ha avuto, ha avuto”, come dice una canzone napoletana). Occorrerà studiare con cura la sua utilizzazione riorganizzando al meglio l’insieme degli aeroporti dell’Italia settentrionali: si possono trarre lezioni utili dalle analisi effettuate, a cavallo tra la fine del XX e l’inizio del XXI secolo, per riorganizzare gli aeroporti nel Nord Europa (pur sotto la competenza amministrativa di diversi Stati).
Siamo, però, in campagna elettorale . Dunque, occorre esaminare anche “the politics”(gli aspetti puramente politici) della decisione del Tar. Il fatto che sia stata preceduta da aperture della Lega Nord ad Alitalia, della concessione della cassa integrazione straordinaria, da una serie di articoli su un’importante testata vuole dire che ormai il mondo della politica non prende più in nessuna considerazione il tentativo di AirOne. A sinistra vige la proprietà transitiva: gli amici dei miei avversari sono i miei avversari. Nota la dimestichezza tra Carlo Toto e Romano Prodi, non ci si poteva altro dal buonista Walter Veltroni. Quel che resta del centro è alle prese con travagli complicati tra rose e scudi. Nel PdL , Silvio Berlusconi ha alzato la voce in difesa dell’”italianità” della compagnia: un’interpretazione potrebbe essere quella secondo cui la partecipazione azionaria del Tesoro e di investitori italiani alla nuova azienda (risultato della fusione) ed una voce del CdA potrebbero assicurare tale requisito. Alla luce del “buco annunciato” – 8-12 miliardi da racimolare in giugno per fare fronte all’eredità di Prodi (e del compatto che oggi propone Veltroni- non ci sono mezzi finanziari per salvataggi. Quindi (ed in tal modo si deve leggere l’invito di Umberto Bossi) più utile e più promettente destinare la risorsa più scarsa – il tempo- per riprogrammare gli scali del Nord (e alimentare così Malpensa).
LA POLITICA ECONOMICA DEL PARTITO DEMOCRATICO NON CONVINCE
. Se si dovesse giudicare sulla base delle dichiarazioni del suo leader, Walter Veltroni (VW), la politica economica del Partito Democratico (PD) non meriterebbe neanche il tradizionale “18 e sigaro toscano (che non si negano a nessuno)” , secondo la cinica tradizione di molte università italiane (nessuna peraltro frequentata dal nostro che pare non abbia neanche completato la scuola secondaria superiore).
WV è inciampato in primo luogo sullo stato dei conti pubblici lasciati in eredità dal Governo Prodi. Ha ammiccato gli occhi alle stime di sindacati ed altri a proposito di un eventuale “tesoretto” di ben 10 miliardi di euro. Lo ha frenato lo stesso Ministro dell’Economia TPS che ha suggerito di attendere i dati della trimestrale di cassa che verrà diramata a metà marzo. Anche nell’eventualità che nei primi mesi del 2008 il gettito effettivo aumenti più delle previsioni, non ci sarebbe – per dirla alla romana – trippa per gatti. Le stime non sono rosee: la sera del 14 febbraio il “consensus” dei 20 istituti econometrici privati internazionali ha annunciato un ulteriore rallentamento dell’economia italiana nel 2008 rispetto alle elaborazioni di due mesi fa. In media si sfiora un aumento del pil del’1% ma 9 istituti ne prevedono uno attorno allo 0,5%. La finanziaria è stata costruita ipotizzando incrementi del pil tra l’1,5% e l’1,7%. L’effetto congiunto di esaurimento degli effetti dei condoni e dei concordati e di rallentamento, fa si che è più realistico parlare “buco annunciato”. Le mie stime lo pongono tra gli 8 ed i 12 miliardi – l’equivalente di una legge finanziaria degli Anni Novanta. Con un margine d’errore del 50%, restiamo nell’ordine di almeno 4-6 miliardi , una cifra che non si può raggranellare con qualche ritardo alle erogazioni per pagamenti, facendoli slittare dall’esercizio 2008 a quello 2009. Chi sarà in carica in maggio-giugno dovrà spalmarla su sei mesi all’assestamento di bilancio: difficile tagliare spese per un’entità (almeno) tra i 2 miliardi ed i 600 milioni al mese.
Ove ciò non bastasse, WV ha promesso riduzioni del carico fiscale ma non della spesa pubblica che dal 2000 al 2006 (ultimo anno per il quale si dispone di un consuntivo) la spesa pubblica è passata dal 46,2% al 50,5% del pil: stime preliminari Ocse-Fmi la portano al 51% del pil nel 2007. Non ha, infine, preso posizione sulle richieste dei sindacati del pubblico impiego che chiedono a gran voce aumenti salariali tali da aggravare la spesa pubblica di circa 7 miliardi già nel 2008.
Il silenzio in materia di spesa è davvero assordante. In questi giorni, la Banca Mondiale pubblicava (e metteva on line) un’analisi comparata del nesso tra spesa pubblica e crescita basata su un lavoro econometrico in cui si esamina l’esperienza di 140 Paesi (118 in via di sviluppo e 21 appartenenti all’Ocse) in un lasso di tempo (1972-2005) sufficientemente lungo da essere significativo. La crescita (definita in quanto aumento del pil pro-capite del 2% l’anno per almeno un lustro) si verifica quando per almeno cinque anni di seguito la spesa primaria (ossia al netto del pagamento degli interessi sul debito) non cresce più dell’1% l’anno e l’indebitamento netto delle pubbliche amministrazioni non supera mai il tetto del 2% del pil. Perché si verifichino queste due condizioni, occorre un’effettiva cura dimagrante della macchina pubblica italiana con i suoi annessi e connessi: non basta promettere che non verrà ulteriormente aumentata la pressione fiscale. Il Popolo delle Libertà (PdL) ha fornito indicazioni specifiche quali a) abrogazione della contro-riforma della previdenza varata dal Governo Prodi alla fine del 2007; c) terapia d’urto per colmare il “buco annunciato” d) introduzione di meritocrazia negli apparati pubblici (Ministeri e Regioni in primo luogo).
Quanto meno contraddittorie, poi, le proposte di WV sulla legiferazione di minimi salariali. Uno dei maggiori studiosi svedesi, Assar Lindbeck, da sempre considerato contiguo alla sinistra, ha avuto il Premio Nobel per l’Economia proprio perché ha dimostrato come il “minimum wage” danneggia individui e famiglie negli scalini più bassi dei redditi e dei consumi. Edmud Phelps (altro beniamino della sinistra) ha mostrato in un libro, giudicato una pietra miliare in materia, le implicazioni macro-economiche negative (per le politiche di crescita) di un “salario minimo”. Soprattutto,i studi comprati dell’Ocse e dell’Oil (Organizzazione internazionale del lavoro- agenzia delle Nazioni Unite nei cui organi di governo e di gestione sono rappresentati i sindacati) documentano che nei Paesi in cui esiste il “minumun wage” la contrattazione collettiva nazionale non riguarda minimi salariali (punto centrale del sindacalismo dell’Europa continentale , e fiore all’occhiello, ad esempio, della IG Metall). La fine della contrattazione collettiva è stata chiesta da tempo dall’economista PdL Renato Brunetta. La proposta di WV, quindi, se portata avanti, ridurre il ruolo dei suoi grandi elettori principali, i sindacati.
Un lungo elenco di economisti italiani si dice consigliere del PdL. Dovrebbero chiedersi se i loro consigli vengono ascolati.
WV è inciampato in primo luogo sullo stato dei conti pubblici lasciati in eredità dal Governo Prodi. Ha ammiccato gli occhi alle stime di sindacati ed altri a proposito di un eventuale “tesoretto” di ben 10 miliardi di euro. Lo ha frenato lo stesso Ministro dell’Economia TPS che ha suggerito di attendere i dati della trimestrale di cassa che verrà diramata a metà marzo. Anche nell’eventualità che nei primi mesi del 2008 il gettito effettivo aumenti più delle previsioni, non ci sarebbe – per dirla alla romana – trippa per gatti. Le stime non sono rosee: la sera del 14 febbraio il “consensus” dei 20 istituti econometrici privati internazionali ha annunciato un ulteriore rallentamento dell’economia italiana nel 2008 rispetto alle elaborazioni di due mesi fa. In media si sfiora un aumento del pil del’1% ma 9 istituti ne prevedono uno attorno allo 0,5%. La finanziaria è stata costruita ipotizzando incrementi del pil tra l’1,5% e l’1,7%. L’effetto congiunto di esaurimento degli effetti dei condoni e dei concordati e di rallentamento, fa si che è più realistico parlare “buco annunciato”. Le mie stime lo pongono tra gli 8 ed i 12 miliardi – l’equivalente di una legge finanziaria degli Anni Novanta. Con un margine d’errore del 50%, restiamo nell’ordine di almeno 4-6 miliardi , una cifra che non si può raggranellare con qualche ritardo alle erogazioni per pagamenti, facendoli slittare dall’esercizio 2008 a quello 2009. Chi sarà in carica in maggio-giugno dovrà spalmarla su sei mesi all’assestamento di bilancio: difficile tagliare spese per un’entità (almeno) tra i 2 miliardi ed i 600 milioni al mese.
Ove ciò non bastasse, WV ha promesso riduzioni del carico fiscale ma non della spesa pubblica che dal 2000 al 2006 (ultimo anno per il quale si dispone di un consuntivo) la spesa pubblica è passata dal 46,2% al 50,5% del pil: stime preliminari Ocse-Fmi la portano al 51% del pil nel 2007. Non ha, infine, preso posizione sulle richieste dei sindacati del pubblico impiego che chiedono a gran voce aumenti salariali tali da aggravare la spesa pubblica di circa 7 miliardi già nel 2008.
Il silenzio in materia di spesa è davvero assordante. In questi giorni, la Banca Mondiale pubblicava (e metteva on line) un’analisi comparata del nesso tra spesa pubblica e crescita basata su un lavoro econometrico in cui si esamina l’esperienza di 140 Paesi (118 in via di sviluppo e 21 appartenenti all’Ocse) in un lasso di tempo (1972-2005) sufficientemente lungo da essere significativo. La crescita (definita in quanto aumento del pil pro-capite del 2% l’anno per almeno un lustro) si verifica quando per almeno cinque anni di seguito la spesa primaria (ossia al netto del pagamento degli interessi sul debito) non cresce più dell’1% l’anno e l’indebitamento netto delle pubbliche amministrazioni non supera mai il tetto del 2% del pil. Perché si verifichino queste due condizioni, occorre un’effettiva cura dimagrante della macchina pubblica italiana con i suoi annessi e connessi: non basta promettere che non verrà ulteriormente aumentata la pressione fiscale. Il Popolo delle Libertà (PdL) ha fornito indicazioni specifiche quali a) abrogazione della contro-riforma della previdenza varata dal Governo Prodi alla fine del 2007; c) terapia d’urto per colmare il “buco annunciato” d) introduzione di meritocrazia negli apparati pubblici (Ministeri e Regioni in primo luogo).
Quanto meno contraddittorie, poi, le proposte di WV sulla legiferazione di minimi salariali. Uno dei maggiori studiosi svedesi, Assar Lindbeck, da sempre considerato contiguo alla sinistra, ha avuto il Premio Nobel per l’Economia proprio perché ha dimostrato come il “minimum wage” danneggia individui e famiglie negli scalini più bassi dei redditi e dei consumi. Edmud Phelps (altro beniamino della sinistra) ha mostrato in un libro, giudicato una pietra miliare in materia, le implicazioni macro-economiche negative (per le politiche di crescita) di un “salario minimo”. Soprattutto,i studi comprati dell’Ocse e dell’Oil (Organizzazione internazionale del lavoro- agenzia delle Nazioni Unite nei cui organi di governo e di gestione sono rappresentati i sindacati) documentano che nei Paesi in cui esiste il “minumun wage” la contrattazione collettiva nazionale non riguarda minimi salariali (punto centrale del sindacalismo dell’Europa continentale , e fiore all’occhiello, ad esempio, della IG Metall). La fine della contrattazione collettiva è stata chiesta da tempo dall’economista PdL Renato Brunetta. La proposta di WV, quindi, se portata avanti, ridurre il ruolo dei suoi grandi elettori principali, i sindacati.
Un lungo elenco di economisti italiani si dice consigliere del PdL. Dovrebbero chiedersi se i loro consigli vengono ascolati.
CARDIA ED I SENATARI DEI CDA
I Senatori preoccupano Lamberto Cardia. Non si tratta del Senato con cui mediava con abilità ed eleganza nelle suo numerose incarnazioni ministeriali nella veste di Capo di Gabinetto (cruciale quella circa venti anni fa quando era al fianco di Amintore Fanfani al Ministero del Bilancio e della Programmazione Economica) . Ma del “Senato della Borsa” quale definito in un saggio ancora inedito, ma la cui versione preliminare è stata vista sulla sua scrivania dai topi di biblioteca di Ex Libris. E’ un’analisi della composizione dei CdA delle aziende italiane quotate nel periodo 1998-2006; ne sono autori un funzionario della Commissione Europea e due professori nelle Università di Cambridge, Regno Unito, e di Napoli (la Federico II): lo studio mostra che un numero molto limitato di persone (per lo più di genere maschile) siede nei principali CdA, che le nomine incrociate sono la prassi e che il ricambio avviene principalmente quando qualche “Senatore della Borsa” è chiamato all’altro mondo. Il livello più alto di “connettività” (è questo il termine tecnico) sia ha nelle s.p.a. del Mib30 e dello S&P-Mib 40- ossia le Blue Chips. Ciò “solleva dubbi sul loro comportamento competitivo”. Questa conclusione lascerebbe il tempo che trova ove si trattasse delle i una ricerca effettuata unicamente da professorini. Ma la presenza, nella squadra, di un esperto della DG Mercato Interno della Commissione Europea può essere foriera di avvertimenti. Da anticipare e precedere.
Altro elemento che merita attenzione (specialmente in questa fase in cui il riassetto delle authority è stato in pratica accantonato) è lo svilupparsi in Europa di quel mercato secondario dei titoli che, di fatto, sfugge alla regolazione . Un lavoro della Università Pompeu Fabra di Barcellona (Nber Working Paper N. 13559) documenta come la debolezza delle istituzioni di regolazione e vigilanza (specialmente sotto il profilo della capacità di fare applicare le regole) è causa di inefficienza; lo studio sostiene (con analisi sia teoriche sia empiriche) che i mercati secondari sono, per così dire, una benedizione in maschera in quanto contribuiscono a restaurare l’efficienza. Tesi pericolosa perché indebolisce le richieste dirette a rendere più forti le authority . Soprattutto in una fase in cui i mercati dei titoli sono alle prese con nuovi protagonisti come il private equity, di cui nell’ultimo numero del Journal of Corporate Finance un saggio di docenti della London Business School chiede se non sia doveroso aumentare la trasparenza. Aumentando potestà e risorse delle autorità di regolazione e vigilanza sulle Borse.
Altro elemento che merita attenzione (specialmente in questa fase in cui il riassetto delle authority è stato in pratica accantonato) è lo svilupparsi in Europa di quel mercato secondario dei titoli che, di fatto, sfugge alla regolazione . Un lavoro della Università Pompeu Fabra di Barcellona (Nber Working Paper N. 13559) documenta come la debolezza delle istituzioni di regolazione e vigilanza (specialmente sotto il profilo della capacità di fare applicare le regole) è causa di inefficienza; lo studio sostiene (con analisi sia teoriche sia empiriche) che i mercati secondari sono, per così dire, una benedizione in maschera in quanto contribuiscono a restaurare l’efficienza. Tesi pericolosa perché indebolisce le richieste dirette a rendere più forti le authority . Soprattutto in una fase in cui i mercati dei titoli sono alle prese con nuovi protagonisti come il private equity, di cui nell’ultimo numero del Journal of Corporate Finance un saggio di docenti della London Business School chiede se non sia doveroso aumentare la trasparenza. Aumentando potestà e risorse delle autorità di regolazione e vigilanza sulle Borse.
giovedì 21 febbraio 2008
LA VELTRONIECONOMICS NON PIACE AI SINDACATI
I sindacati (soprattutto la Cgil) sono stati il grande elettore dell’Unione nel 2006. Svolgeranno un ruolo analogo nel 2008 rispetto al Partito Democratico (PD)? La risposta può essere negativa. Il 16 febbraio numerosi sindacalisti erano alla Fiera di Roma ad ascoltare il programma economico con cui WV (Walter Veltroni) intende presentarsi all’elettrorato. E’ riassunto in un dodecalogo. Per i sindacalisti che credono nella scaramanzia è naturale ricordare che a Prodi non portò molto bene il dodecalogo concluso un anno fa nella Vanvitelliana Reggia di Caserta. Soprattutto, alcuni dei 12 punti non rappresentano tesi condivise dal “grande sindacato”. Non sono mancati i sindacalisti che lo hanno fatto sapere. O una correzione di rotta (da parte di WV) o una correzione di voto (da parte di segmenti più o meno importanti del sindacato).
Il punto più difficile da ingoiare è il 9. La proposta Agenzia nazionale per la sicurezza e (la lotta alla) precarietà è un carrozzone ma toglierebbe a patronati sindacali molte delle loro funzioni, Il salario minimo garantito spunta l’arma principale delle confederazioni – la contrattazione collettiva nazionale. L’Organizzazione Internazionali del Lavoro documenta che ciò è avvenuto in quasi tutti i Paesi dove è stato introdotto. Inoltre, un economista considerato tra i numi della sinistra, Assar Lindbeck, ha ottenuto il Nobel proprio per i saggi in cui dimostra che il “minimum wage” danneggia individui e famiglie negli scalini più bassi dei redditi e dei consumi. Considerazioni analoghe (sulle distorsioni macro-economiche della misura) sono alla base del pensiero Edmud Phelps (altro beniamino della sinistra sindacale). Di recente in Germania, la IG Metall si è schierata contro un provvedimento analogo.
Piace poco (a sindacalisti, come la Cisl e molti settori dell’Uil, che hanno basi importanti nel pubblico impiego) il punto 3. Le riduzioni alla spesa pubblica, infatti, verrebbero effettuate principalmente riducendo organici (tramite l’accorpamento di uffici) e l’introduzione di quella meritocrazia (bonus individuali e simili), nonché la mobilità interna della Pa prevista nel punto 10. Tali misure considerate anatema dalle fasce più anziane di statali, proprio i più attivi nel sindacato e da cui il sindacato più dipende per proselitismo. Si tratta, intendiamoci bene, di passi essenziali per migliorare la macchina pubblica (oltre che per contenere la dinamica della spesa). Per la base sindacale, però, cozzano con un retaggio storico ultra-centenario.
Il punto 4 dà sui nervi (e soprattutto piglia nelle tasche) delle parti del sindacato che esprimono i lavoratori autonomi. Le riduzioni fiscali promesse (e la stessa “dote tributaria” del punto 7) sono esplicitamente limitate ai lavoratori dipendenti, lasciando esercenti, commercianti, padroncini, artigiani e via discorrendo a bocca asciutta. A confederazioni la maggioranza dei cui iscritti è composta da pensionati non è gradita, infine, l’aura di giovanilismo che pervade il catalogo.
Non sorprendiamoci se saranno i sindacati a scompigliare il voto.
Il punto più difficile da ingoiare è il 9. La proposta Agenzia nazionale per la sicurezza e (la lotta alla) precarietà è un carrozzone ma toglierebbe a patronati sindacali molte delle loro funzioni, Il salario minimo garantito spunta l’arma principale delle confederazioni – la contrattazione collettiva nazionale. L’Organizzazione Internazionali del Lavoro documenta che ciò è avvenuto in quasi tutti i Paesi dove è stato introdotto. Inoltre, un economista considerato tra i numi della sinistra, Assar Lindbeck, ha ottenuto il Nobel proprio per i saggi in cui dimostra che il “minimum wage” danneggia individui e famiglie negli scalini più bassi dei redditi e dei consumi. Considerazioni analoghe (sulle distorsioni macro-economiche della misura) sono alla base del pensiero Edmud Phelps (altro beniamino della sinistra sindacale). Di recente in Germania, la IG Metall si è schierata contro un provvedimento analogo.
Piace poco (a sindacalisti, come la Cisl e molti settori dell’Uil, che hanno basi importanti nel pubblico impiego) il punto 3. Le riduzioni alla spesa pubblica, infatti, verrebbero effettuate principalmente riducendo organici (tramite l’accorpamento di uffici) e l’introduzione di quella meritocrazia (bonus individuali e simili), nonché la mobilità interna della Pa prevista nel punto 10. Tali misure considerate anatema dalle fasce più anziane di statali, proprio i più attivi nel sindacato e da cui il sindacato più dipende per proselitismo. Si tratta, intendiamoci bene, di passi essenziali per migliorare la macchina pubblica (oltre che per contenere la dinamica della spesa). Per la base sindacale, però, cozzano con un retaggio storico ultra-centenario.
Il punto 4 dà sui nervi (e soprattutto piglia nelle tasche) delle parti del sindacato che esprimono i lavoratori autonomi. Le riduzioni fiscali promesse (e la stessa “dote tributaria” del punto 7) sono esplicitamente limitate ai lavoratori dipendenti, lasciando esercenti, commercianti, padroncini, artigiani e via discorrendo a bocca asciutta. A confederazioni la maggioranza dei cui iscritti è composta da pensionati non è gradita, infine, l’aura di giovanilismo che pervade il catalogo.
Non sorprendiamoci se saranno i sindacati a scompigliare il voto.
lunedì 18 febbraio 2008
NEI 12 PUNTI DELLA VELTRONIECONOMICS NON C’E’ POSTO PER ALITALIA
Una lettura attenta dei 12 punti del programma del Partito Democratico (PD) alla Fiera di Roma mostra che la Veltronieconomcs si ispira più a Erica Jong che a Barak Obama. Ha, infatti, paura di volare. Le stesse stampelle femministe previste nel programma (quali quelle del punto 5 sul lavoro delle donne) si riallacciano al femminismo Usa degli Anni 70 ed 80, per l’appunto quello di Erica Jong non alle neo-feminist economics della seconda metà degli Anni 90 e dell’inizio del XXI; ove lo avesse fatto avrebbe contemplato l’equiparazione dell’età previdenziale per le donne (ove non la possibilità di estendere la vita attiva, dato che lo donne vivono mediamente 8 anni più degli uomini, compensandola con congedi più lunghi in età in cui crescono i figli).
Altro punto in cui, anche letteralmente, traspare la paura di volare della Veltronieconomics è l’ambiguità in materia di privatizzazioni e di liberalizzazioni. Nessuno dei 12 punti è dedicato specificatamente al tema anche se molti hanno un’aria di ciò che in inglese viene chiamato “liberalish” – ossia “liberal”, non liberale, ma non troppo. Ove si privatizzasse tutto il privatizzabile (lo si ascolti bene presso il Partito della Libertà – PdL) , lo stock di debito pubblico scenderebbe, secondo i miei calcoli, dal 105% all’80-85% del pil , contribuendo alla riduzione della spesa per il servizio del debito, ammortamento ed interessi, ma non necessariamente alla spesa primaria per il funzionamento della macchina pubblica, alle spese sociale e via discorrendo (punto 3 della Veltronieconomics). Per essere efficaci – è noto – le privatizzazioni devono fare parte di un programma di liberalizzazioni (di cui non c’è traccia nella Veltroeconomics). Oggidì, poi, la madre di tutte le privatizzazioni è quella dell’Alitalia. In merito alla quale non c’è neanche un vago accenno. Nonostante che si entri in dettagli sulle nuove università (punto 8), sulla banda larga (punto 12), sulle case in affitto (punto 6) e simili.
Perché? Nel loft e dintorni non si sa che pesci pigliare. Da un lato, si vuole corteggiare il voto del Nord (che naturalmente chiede salvaguardie per Malpensa). Da un altro, non si vuole smentire l’operato del Governo Prodi e meno che meno, nell’eventualità di una vittoria elettorale, trovarsi a gestire il probabile fallimento di Alitalia. Da un altro ancora vige la proprietà transitiva (di cui WV, ossia Walter Veltroni, era maestro, al Tasso, negli anni delle scuole secondarie inferiori): gli amici dei miei avversari sono miei avversari – è noto che il “patron” di Air One Carlo Totò sia amico di Romano Prodi e che, nonostante gli abbracci di facciata, WV consideri il professore bolognese un pesante fardello. Quindi, meglio seguire la massima di Maurice Chevalier in un capolavoro di René Clair (WV si intende di storia del cinema): Le Silence est d’Or . il silenzio è d’oro.
Tuttavia, mentre gli altri punti del programma possono restare nel vago – e tentare di raccogliere consensi a destra ed a manca, proprio grazie alla paura di volare alto- su Alitalia WV dovrà abbastanza presto dire la sua – finendo per scontentare qualcuno. Infatti, non soltanto il 14 marzo si chiude la trattativa tra la compagnia di bandiera italiana e AirFrance-Klm, ma soprattutto l’ultimo CdA che alla Magliana la cassa è davvero striminzita. Se non si trova un acquirente che ricapitalizzi, arriva il liquidatore mettendo a repentaglio almeno 20.000 posti di lavoro a Roma e dintorni – un regalo avvelenato al candidato della sinistra a Sindaco della Capitale nonché argomento che potrebbe fare ribaltare i risultati delle elezioni senatoriali in Lazio.
Altro punto in cui, anche letteralmente, traspare la paura di volare della Veltronieconomics è l’ambiguità in materia di privatizzazioni e di liberalizzazioni. Nessuno dei 12 punti è dedicato specificatamente al tema anche se molti hanno un’aria di ciò che in inglese viene chiamato “liberalish” – ossia “liberal”, non liberale, ma non troppo. Ove si privatizzasse tutto il privatizzabile (lo si ascolti bene presso il Partito della Libertà – PdL) , lo stock di debito pubblico scenderebbe, secondo i miei calcoli, dal 105% all’80-85% del pil , contribuendo alla riduzione della spesa per il servizio del debito, ammortamento ed interessi, ma non necessariamente alla spesa primaria per il funzionamento della macchina pubblica, alle spese sociale e via discorrendo (punto 3 della Veltronieconomics). Per essere efficaci – è noto – le privatizzazioni devono fare parte di un programma di liberalizzazioni (di cui non c’è traccia nella Veltroeconomics). Oggidì, poi, la madre di tutte le privatizzazioni è quella dell’Alitalia. In merito alla quale non c’è neanche un vago accenno. Nonostante che si entri in dettagli sulle nuove università (punto 8), sulla banda larga (punto 12), sulle case in affitto (punto 6) e simili.
Perché? Nel loft e dintorni non si sa che pesci pigliare. Da un lato, si vuole corteggiare il voto del Nord (che naturalmente chiede salvaguardie per Malpensa). Da un altro, non si vuole smentire l’operato del Governo Prodi e meno che meno, nell’eventualità di una vittoria elettorale, trovarsi a gestire il probabile fallimento di Alitalia. Da un altro ancora vige la proprietà transitiva (di cui WV, ossia Walter Veltroni, era maestro, al Tasso, negli anni delle scuole secondarie inferiori): gli amici dei miei avversari sono miei avversari – è noto che il “patron” di Air One Carlo Totò sia amico di Romano Prodi e che, nonostante gli abbracci di facciata, WV consideri il professore bolognese un pesante fardello. Quindi, meglio seguire la massima di Maurice Chevalier in un capolavoro di René Clair (WV si intende di storia del cinema): Le Silence est d’Or . il silenzio è d’oro.
Tuttavia, mentre gli altri punti del programma possono restare nel vago – e tentare di raccogliere consensi a destra ed a manca, proprio grazie alla paura di volare alto- su Alitalia WV dovrà abbastanza presto dire la sua – finendo per scontentare qualcuno. Infatti, non soltanto il 14 marzo si chiude la trattativa tra la compagnia di bandiera italiana e AirFrance-Klm, ma soprattutto l’ultimo CdA che alla Magliana la cassa è davvero striminzita. Se non si trova un acquirente che ricapitalizzi, arriva il liquidatore mettendo a repentaglio almeno 20.000 posti di lavoro a Roma e dintorni – un regalo avvelenato al candidato della sinistra a Sindaco della Capitale nonché argomento che potrebbe fare ribaltare i risultati delle elezioni senatoriali in Lazio.
PRIVATIZZARE . LA PRIMA SVISTA
Il Governatore della Banca d’Italia Mario Draghi ha lanciato un invito affinché la politica delle privatizzazioni abbia nuovo slancio. Il guanto è stato accolto dal PdL che ha annunciato non solamente una strategia aggressiva che riguarderebbe Enel, Eni, Poste e Rai (come peraltro già previsto nel Dpef del giugno 2005, l’ultimo firmato dal centro destra), nonché Consap, Consip, Enav, Anas ed Arcus ma anche e soprattutto il variegato universo dei servizi pubblici locali (dall’Acea all’Iride, passando per Acegas, A2A, Acsm, Ascopiave, Enia ed Hera). Da parte del Pd , e del suo loquace leader Walter Veltroni (WV per gli amici del loft) c’è invece stato un assordante silenzio.
Alcuni economisti arruolati da WV affermano che questo non sarebbe il momento di vendere imprese statali od a partecipazioni statali a ragione delle tensioni sui mercati finanziari internazionali. La risposta più eloquente viene da un documento (disponibile solo agli abbonati) di EPFR Global datato 12 febbraio: EPFR Global è uno dei più noti osservatori internazionali dell’andamento dei fondi comuni e sottolinea come nonostante la tempesta della finanza subprime i risparmiatori stiano tornando ai fondi azionari (negli Usa un afflusso di 1,3 miliardi di dollari nella settimana terminata il 6 febbraio). In aggiunta, c’è una molteplicità di fondi internazionali sovrani alla ricerca di opportunità quali quelle offerte dalle denazionalizzazioni. Quindi, il vincolo non è dal lato della domanda ma della volontà politica che determina, in Italia, l’offerta. Ciò vuol dire che una strategia di privatizzazioni (quale delineata dal PdL) troverebbe un mercato pronto ad accoglierla. Il suo effetto potrebbe essere (secondo mie stime preliminari) una riduzione dello stock di debito pubblico dal 105% all’80-85% del pil nell’arco dei prossimi sei anni. Liberando risorse per lo sviluppo e per il miglioramento della qualità della vita di tutti specialmente di coloro che sono nei gradini più bassi della scala dei redditi e dei consumi. Più che parlare, WV deve mostrare con fatti concreti (visto che la sua maggioranza è al Governo, pur se solo per gli affari ordinari) le intenzioni del Pd, chiarendone in primo luogo la posizione sulla trattativa di Alitalia con AirFrance-Kml: uno studio di Andrea Giuricin dell’Istituto Bruno Leoni documenta che un rinvio può provocare il fallimento dell’azienda. I numeri diramati il 13 febbraio al termine del CdA sono chiari: le perdite operative (anche se ridotte rispetto all’anno scorso) sfiorano sempre i 700.000 euro al giorno, c’è in cassa liquidità sino a giugno, incombe la minaccia di una svalutazione della flotta in caso di ritardi nella trattativa. Ove si giungesse al fallimento di Alitalia, Roma ed il Lazio subirebbero un forte aumento della disoccupazione. WV è stato sindaco della capitale sino all’altro giorno; una ragione (ed un dovere) in più per dire chiaro e tondo in modo chiaro e tondo da che parte st
Alcuni economisti arruolati da WV affermano che questo non sarebbe il momento di vendere imprese statali od a partecipazioni statali a ragione delle tensioni sui mercati finanziari internazionali. La risposta più eloquente viene da un documento (disponibile solo agli abbonati) di EPFR Global datato 12 febbraio: EPFR Global è uno dei più noti osservatori internazionali dell’andamento dei fondi comuni e sottolinea come nonostante la tempesta della finanza subprime i risparmiatori stiano tornando ai fondi azionari (negli Usa un afflusso di 1,3 miliardi di dollari nella settimana terminata il 6 febbraio). In aggiunta, c’è una molteplicità di fondi internazionali sovrani alla ricerca di opportunità quali quelle offerte dalle denazionalizzazioni. Quindi, il vincolo non è dal lato della domanda ma della volontà politica che determina, in Italia, l’offerta. Ciò vuol dire che una strategia di privatizzazioni (quale delineata dal PdL) troverebbe un mercato pronto ad accoglierla. Il suo effetto potrebbe essere (secondo mie stime preliminari) una riduzione dello stock di debito pubblico dal 105% all’80-85% del pil nell’arco dei prossimi sei anni. Liberando risorse per lo sviluppo e per il miglioramento della qualità della vita di tutti specialmente di coloro che sono nei gradini più bassi della scala dei redditi e dei consumi. Più che parlare, WV deve mostrare con fatti concreti (visto che la sua maggioranza è al Governo, pur se solo per gli affari ordinari) le intenzioni del Pd, chiarendone in primo luogo la posizione sulla trattativa di Alitalia con AirFrance-Kml: uno studio di Andrea Giuricin dell’Istituto Bruno Leoni documenta che un rinvio può provocare il fallimento dell’azienda. I numeri diramati il 13 febbraio al termine del CdA sono chiari: le perdite operative (anche se ridotte rispetto all’anno scorso) sfiorano sempre i 700.000 euro al giorno, c’è in cassa liquidità sino a giugno, incombe la minaccia di una svalutazione della flotta in caso di ritardi nella trattativa. Ove si giungesse al fallimento di Alitalia, Roma ed il Lazio subirebbero un forte aumento della disoccupazione. WV è stato sindaco della capitale sino all’altro giorno; una ragione (ed un dovere) in più per dire chiaro e tondo in modo chiaro e tondo da che parte st
IL TORO VORREBBE CORRERE PURCHE' TRICHET........
I mercati azionari potrebbero avere già toccato il fondo della crisi subprime. Ma contrariamente alle previsioni di alcuni analisti che guardano alle piazze emergenti come una possibilità di rinvigorire i mercati , potrebbero essere gli Usa il motore della svolta. Secondo EPFR Global, un osservatorio dell’andamento dei fondi comuni, dagli Stati Uniti starebbero già venendo segnali eloquenti: nella settimana terminata il 6 febbraio c’è stato un flusso positivo netto verso i fondi azionari americani di 1,33 miliardi di dollari – un flusso quasi analogo a quello segnato nell’intero 2007. La marcata riduzione dei tassi d’interesse non soltanto ha arrestato quella che era parsa una caduta libera dell’azionario ma ha anche indotto un’inversione di rotta: l’interbancario è passato dal 5,25% l’anno in agosto al 3% e la Fed ha fatto comprendere agli operatori che se necessario ne guiderà ulteriori ribassi. Complice il fatto che si sono di fatto azzerate le emissioni di Cdo (con elementi di subprime).
Certo i listini hanno ancora molta strada da fare per recuperare quanto perso negli ultimi mesi del 2007 ed all’inizio del 2008. Soprattutto in Europa dove il FTSE Eurofirst 300 dovrebbe aumentare del 12% solo per azzerare, nell’anno in corso, le perdite subite dall’autunno. Tuttavia, si comincia a respirare aria di ripresa. E con essa l’impressione che le opportunità non colte adesso non si ripresenteranno. Da un’indagine appena condotta tra 500 gestori dell’area Usa-Eu emerge che il 74% afferma che è il momento di comprare, non di vendere o di tenere immobile il portafoglio. Gli stessi gestori in gennaio avevano segnato un alto grado di avversione al rischio Segno che il punto di minima è stato superato. L’elevato numero di possibilisti potrebbe fare pensare ad una eccessiva di ottimismo ma da un’altra inchiesta risulta che le 500 s.p.a. dell’indice S&P 500 ritengono di chiudere il 2008 con un aumento degli utili netti mediamente dell’8,6% .
E anche Morgan Stanley esprime cautela sui tempi e sui modi necessari perché la ripresa dell’azionario americano si espanda in Europa, può indurre ad un certo ottimismo un’analisi del premio di rischio del servizio studi della Bce nei principali settori dell’azionario in Francia, Germania, Italia, Olanda e Spagna. L’analisi giunge alla conclusione che il grado di integrazione finanziaria è molto forte. Non appena la ripresa dei mercati proveniente dagli Usa tocca un Paese si diffonde nel resto dell’area. Un invito alla Bce perché riduca i tassi?
Certo i listini hanno ancora molta strada da fare per recuperare quanto perso negli ultimi mesi del 2007 ed all’inizio del 2008. Soprattutto in Europa dove il FTSE Eurofirst 300 dovrebbe aumentare del 12% solo per azzerare, nell’anno in corso, le perdite subite dall’autunno. Tuttavia, si comincia a respirare aria di ripresa. E con essa l’impressione che le opportunità non colte adesso non si ripresenteranno. Da un’indagine appena condotta tra 500 gestori dell’area Usa-Eu emerge che il 74% afferma che è il momento di comprare, non di vendere o di tenere immobile il portafoglio. Gli stessi gestori in gennaio avevano segnato un alto grado di avversione al rischio Segno che il punto di minima è stato superato. L’elevato numero di possibilisti potrebbe fare pensare ad una eccessiva di ottimismo ma da un’altra inchiesta risulta che le 500 s.p.a. dell’indice S&P 500 ritengono di chiudere il 2008 con un aumento degli utili netti mediamente dell’8,6% .
E anche Morgan Stanley esprime cautela sui tempi e sui modi necessari perché la ripresa dell’azionario americano si espanda in Europa, può indurre ad un certo ottimismo un’analisi del premio di rischio del servizio studi della Bce nei principali settori dell’azionario in Francia, Germania, Italia, Olanda e Spagna. L’analisi giunge alla conclusione che il grado di integrazione finanziaria è molto forte. Non appena la ripresa dei mercati proveniente dagli Usa tocca un Paese si diffonde nel resto dell’area. Un invito alla Bce perché riduca i tassi?
sabato 16 febbraio 2008
SASSI ISPIRATO SUI FONDI PENSIONE
Il Presidente dell’Inps, Giampaolo Sassi, (in predicato di andare alla guida dell’ente che unificherà Inps, Inpdap, Ipsema, se mai si farà) sa che la riforma delle pensioni necessita il decollo dei fondi pensione. I dati della Covip e quelli dell’Ocse sono scoraggianti: nonostante gli sforzi fatti (devoluzione ai fondi del trattamento di fine rapporto, tfr, incentivi tributari, campagna mediatica), gli aderenti a fondi pensione od a piani previdenziali individuali sono meno del 20% degli occupati e le risorse impegnate non raggiungono lo 0,5 dello stock di ricchezza degli italiani. Altra classifica in cui in sede Ocse siamo il fanalino di coda. L’urgenza del decollo è indicata tra l’altro in un libro della Fondazione cattolica Novae Terrae (saggistica a cui Sassi è molto attenta): “La vera verità sulle pensioni” di Giovanni Palladino. Sassi lo ha letto raffrontandolo con due lavori, che per quanto di autori italiani, hanno avuto una circolazione modesta:a) il quaderno di ricerca n.27/07 della Università Cà Foscari ( ne sono autori Erich Battistini, Agar Brugiavini, Enrico Rettore e Guglielmo Weber) in cui si esamina, con un ricco armamentario statistico, la riduzione dei consumi delle famiglie che segue il pensionamento; b) un’analisi di Bankitalia - il documento di lavoro n. 8 del servizio studi (firmato da Riccardo Cesari , Giuseppe Grande e Fabio Panetta) che documenta come gli alti costi di gestione, l’opacità e la frammentazione della previdenza complementare facciano da deterrente (ancora più dei rendimenti relativamente bassi) alle scelte dei lavoratori.
I suoi collaboratori hanno selezionato alcuni studi specifici sui fondi in Spagna – uno della Università di Navarra fresco di stampa- ed in Gran Bretagna - saggi apparsi sul Financial Analysis Journal e la Financial Services Review. Roba ostica per un manager il cui tempo per la lettura è contingentato. I lavori più utili sono quelli sui risparmi (e gli investimenti) in vista della terza età apparsi nella sezione monografica dedicata al tema nell’ultimo numero del Journal of Economic Perspectives, la rivista di alta divulgazione dell’American Economic Association: ancora una volta, l’invito è a concentrare i circa 600 fondi esistenti in Italia in numero più piccolo ma in cui ciascun fondo abbia una solida consistenza. Non è la prima volta che viene formulato: si riuscirà a raggiungere questo obiettivo senza una riforma della normativa (del lontano 1993) che , per accontentare tutti, basava la previdenza integrativa sui “cento fiori” (quanti più fondi nascono, anche piccoli, tanto meglio è)?
I suoi collaboratori hanno selezionato alcuni studi specifici sui fondi in Spagna – uno della Università di Navarra fresco di stampa- ed in Gran Bretagna - saggi apparsi sul Financial Analysis Journal e la Financial Services Review. Roba ostica per un manager il cui tempo per la lettura è contingentato. I lavori più utili sono quelli sui risparmi (e gli investimenti) in vista della terza età apparsi nella sezione monografica dedicata al tema nell’ultimo numero del Journal of Economic Perspectives, la rivista di alta divulgazione dell’American Economic Association: ancora una volta, l’invito è a concentrare i circa 600 fondi esistenti in Italia in numero più piccolo ma in cui ciascun fondo abbia una solida consistenza. Non è la prima volta che viene formulato: si riuscirà a raggiungere questo obiettivo senza una riforma della normativa (del lontano 1993) che , per accontentare tutti, basava la previdenza integrativa sui “cento fiori” (quanti più fondi nascono, anche piccoli, tanto meglio è)?
SOCIETE’ GENERALE, LONE STAR………. IL DIFETTO STA NEL MANICO
Se, al di là di implicazioni giudiziarie (frodi) ed organizzative (controlli interni poco efficienti), il difetto stia nel manico, ossia nei metodi, nelle tecniche, nelle procedure e nelle prassi per valutare il rischio finanziario e, quindi, contenerlo? Occorre chiederselo in seguito alle vicende della Sociètè Générale, nonché di quelle (per molti aspetti analoghe ma meno note in Europa) che hanno portato ad una maxi-condanna , a Seul, di Paul Yoo (amministratore delegato della filiale coreane di Lone Star, uno dei maggiori fondi internazionali di private equity). Oltre che di alcune caratteristiche della crisi subprime.
Jérôme Kerviel e Paul Yoo hanno un tratto comune (nonostante le differenze di età e di continente): un addestramento molto matematico nell’approccio al rischio – il CAPM (Capital Asset Pricing Model) nelle versioni tecniche più raffinate era il loro cibo quotidiano, croce e delizia del loro lavoro. Avevano, però, poca dimestichezza con gli assunti teorici del CAPM e dei suoi limiti: un tratto condiviso con migliaia di operatori che utilizzano il CAPM ogni giorno. Inoltre, né l’uno né l’altro andavano mai in ferie (comportamento normale in Corea ma quanto mai insolito in Francia dove vige addirittura una mistica delle vacanze) . Kerviel agganciato al suo computer , You non solo al suo ed impartendo istruzioni a quelli dei suoi collaboratori erano certi di minimizzare il rischio finanziario (sino quasi ad azzerarlo) grazie alla strumentazione di cui avevano intima conoscenza. E di meritarsi premi di produzione molto consisenti. Per Kerviel (che ha chiesto un bonus di 600.000 euro a fine 2007) 50 miliardi di euro di “put” e 49 di “call” volevano dire un rischio quasi impercettibile a ragione della bassa probabilità che tutti i controlli della Soc-Gén saltassero simultaneamente proprio nei rari minuti (a suo parere) di debolezza del marchingegno.
IL CAPM ha limiti noti agli studiosi (principalmente le ipotesi che gli operatori hanno una modesta propensioni al rischio e un dominio perfetto di tutte le informazioni necessarie a valutare un titolo). Negli ultimi anni, il rischio è cresciuto; spesso si opera in condizioni di incertezza (cambia l’intero quadro; non si possono utilizzare tecniche di minimizzazione del rischio basate sul calcolo delle probabilità) Un’analisi ancora inedita della Università dell’Ontario Occidentale mostra sulla base di panieri analoghi a quelli dello Standard & Poor 500 e del Russell Index 1000 che le variazioni di liquidità (vengono impiegate tre misure differenti della liquidità) incidono molto sul rischio – negli ultimi mesi si è passati, nel settore bancario, da abbondanza di liquidità a credit crunch. Uno studio dell’Università di Lipsia sottolinea i rischi associati al “vagabondare della liquidità” (altro fenomeno di questi mesi – si pensi a fondi sovrani, a mercati emergenti; essi non vengono colti nelle tecniche derivanti dal CAPM. Sulla base dello Standard & Poor 500 per la valutazione delle “options”, l’Istituto Svizzero di Studi Finanziari ha appena proposto un nuovo metodo per valutare “put” e “call” (ciò che facevano Kerviel e Yoo) sulla base, oltre che parametrica (come nel CAPM), anche di misure quantitative delle innovazioni. Su linee simili si muovono analisi del servizio studi della Federal Reserve.
Pure se questi argomenti sono in parte trattati nel “North Holland Handbook of Finance” pubblicato nel 2006 (uno dei manuali più aggiornati in materia), si tratta di metodi allo stadio di discussione scientifica, non distillati in tecniche e procedure e, quindi, poco, ove non pochissimo, diffusi tra gli operatori.
Per fare attenzione a non inciampare, occorre, dunque, riprendere in mano i testi sui limiti del CAPM (e di tecniche e prassi su di esso basate) e tenere presente che dalla fine degli Anni 90 i progressi sono stati rapidissimi. Il CAPM, ricordiamolo, è stato formulato alla fine degli Anni 60 e testato empiricamente all’inizio degli Anni 70. L’anagrafe (e l’invecchiamento) esistono anche per i modelli. Non è il caso di aprire un dibattito, su Libero Mercato, nella professione?
Jérôme Kerviel e Paul Yoo hanno un tratto comune (nonostante le differenze di età e di continente): un addestramento molto matematico nell’approccio al rischio – il CAPM (Capital Asset Pricing Model) nelle versioni tecniche più raffinate era il loro cibo quotidiano, croce e delizia del loro lavoro. Avevano, però, poca dimestichezza con gli assunti teorici del CAPM e dei suoi limiti: un tratto condiviso con migliaia di operatori che utilizzano il CAPM ogni giorno. Inoltre, né l’uno né l’altro andavano mai in ferie (comportamento normale in Corea ma quanto mai insolito in Francia dove vige addirittura una mistica delle vacanze) . Kerviel agganciato al suo computer , You non solo al suo ed impartendo istruzioni a quelli dei suoi collaboratori erano certi di minimizzare il rischio finanziario (sino quasi ad azzerarlo) grazie alla strumentazione di cui avevano intima conoscenza. E di meritarsi premi di produzione molto consisenti. Per Kerviel (che ha chiesto un bonus di 600.000 euro a fine 2007) 50 miliardi di euro di “put” e 49 di “call” volevano dire un rischio quasi impercettibile a ragione della bassa probabilità che tutti i controlli della Soc-Gén saltassero simultaneamente proprio nei rari minuti (a suo parere) di debolezza del marchingegno.
IL CAPM ha limiti noti agli studiosi (principalmente le ipotesi che gli operatori hanno una modesta propensioni al rischio e un dominio perfetto di tutte le informazioni necessarie a valutare un titolo). Negli ultimi anni, il rischio è cresciuto; spesso si opera in condizioni di incertezza (cambia l’intero quadro; non si possono utilizzare tecniche di minimizzazione del rischio basate sul calcolo delle probabilità) Un’analisi ancora inedita della Università dell’Ontario Occidentale mostra sulla base di panieri analoghi a quelli dello Standard & Poor 500 e del Russell Index 1000 che le variazioni di liquidità (vengono impiegate tre misure differenti della liquidità) incidono molto sul rischio – negli ultimi mesi si è passati, nel settore bancario, da abbondanza di liquidità a credit crunch. Uno studio dell’Università di Lipsia sottolinea i rischi associati al “vagabondare della liquidità” (altro fenomeno di questi mesi – si pensi a fondi sovrani, a mercati emergenti; essi non vengono colti nelle tecniche derivanti dal CAPM. Sulla base dello Standard & Poor 500 per la valutazione delle “options”, l’Istituto Svizzero di Studi Finanziari ha appena proposto un nuovo metodo per valutare “put” e “call” (ciò che facevano Kerviel e Yoo) sulla base, oltre che parametrica (come nel CAPM), anche di misure quantitative delle innovazioni. Su linee simili si muovono analisi del servizio studi della Federal Reserve.
Pure se questi argomenti sono in parte trattati nel “North Holland Handbook of Finance” pubblicato nel 2006 (uno dei manuali più aggiornati in materia), si tratta di metodi allo stadio di discussione scientifica, non distillati in tecniche e procedure e, quindi, poco, ove non pochissimo, diffusi tra gli operatori.
Per fare attenzione a non inciampare, occorre, dunque, riprendere in mano i testi sui limiti del CAPM (e di tecniche e prassi su di esso basate) e tenere presente che dalla fine degli Anni 90 i progressi sono stati rapidissimi. Il CAPM, ricordiamolo, è stato formulato alla fine degli Anni 60 e testato empiricamente all’inizio degli Anni 70. L’anagrafe (e l’invecchiamento) esistono anche per i modelli. Non è il caso di aprire un dibattito, su Libero Mercato, nella professione?
venerdì 15 febbraio 2008
DUE SETTIMANE DI FESTA INTERNAZIONALE PER I 100 ANNI DELL'ORCHESTRA DI SANTA CECILIA
Dal 16 al 25 febbraio il Parco della Musica di Roma (ed altre città italiane) saranno in festa per celebrare il centenario dell’Orchestra sinfonica dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia. L’Accademia è molto più antica: venne istituita da Papa Sisto V nel 1585. La creazione di una formazione dedicata interamente alla sinfonica (ed ora anche al teatro in musica in edizioni semi-sceniche) rappresentava un’assoluta novità nel panorama italiana dell’inizio del Novecento quando gran parte delle orchestre erano quelle dei teatri d’opera. Solo più tardi vennero costituite le sinfoniche dell’Eiar , prima, e della Rai, poi – oggi confluite nell’Orchestra sinfonica nazionale di Torino.
Adesso, la sinfonica di Santa cecilia da ottobre a giugno attira circa 9.000 spettatori la settimana ad ascoltare la grande musica con programmi che coniugano il repertorio classico con il Novecento “storico”; nelle sale più piccole del complesso ci si spinge sino alla contemporaneità ed all’avanguardia, nonché all’interazione con altri generi. La festa comprende tre repliche del programma inaugurale dal 16 al 19 febbraio a Roma (con tourné a Perugia, Ferrara, Parma e Torino sino al 25 febbraio). Nella capitale ci sarà pure una maratona musicale con spettacoli per lo più gratuiti dalle 10 alle 22 di domenica 17 febbraio nelle cinque sale di cui è dotato il Parco della Musica. E’ una maratona internazionale in cui a Beethoven, Schumann, Brahms ed al barocco vengono affiancati il jazz, dixieland, il tango, il fox-trot, la canzone americana e molto altro.
Quando, nel febbraio 1908, alle 16 del pomeriggio, veniva inaugurata a Roma la sinfonica di Santa Cecilia la sua sede era una delle più grandi sale da concerto del mondo, l’Augusteo, con 3500 posti. Svettava sul cocuzzolo del Mausoleo di Augusto, (ora Piazza Augusto Imperatore) ed altro non era che l’anfiteatro Corea (dal nome della famiglia proprietaria), ricoperto e ristrutturato. Prima di essere trasformato in un auditorio con un’acustica di cui ancora si raccontano meraviglia, l’anfiteatro era un politeama adibito a spettacoli di varia natura – anche circensi. Anfiteatro Corea e Aditorium Augusteo sono stati demoliti nel riassetto urbanistico dell’area negli Anni Trenta, mentre il Mausoleo di Augusto, che di tale riassetto sarebbe dovuto diventare il punto centrale d’attenzione e di attrazione, attende da oltre 70 anni di essere aperto al pubblico. Secondo l’uso dell’epoca, il programma del concerto inaugurate (replicato oggi con la bacchetta di Antonio Pappano), era eterogeneo: coniugava “classici” come la sinfonia de “L’Assedio di Corinto” di Rossini, l’Eroica di Beethoven, una parte di una sonata di Mozart (difficile comprendere perché non venisse eseguita integralmente), con l’ouverture del “Tannhäser” ed il “mormorio della foresta” di Wagner. La musica di Wagner era allora considerata innovativa rispetto a quella di Rossini, Beethoven e Mozart. Il programma verrà portato nella tournée che si conclude il 25 febbraio al Lingotto.
In margine alle manifestazioni viene inaugurato il nuovo museo degli strumenti musicali, il secondo di questo genere a Roma – il primo, frutto della passione di un collezionista privato, è in una ex-caserma nei pressi della Basilica di Santa Croce in Gerusalemme. Il nuovo museo è, con la medioteca in funzione da qualche anno al Parco della Musica, è una chicca per i più giovani a ragione dello spazio dato anche alla live electronics.
Adesso, la sinfonica di Santa cecilia da ottobre a giugno attira circa 9.000 spettatori la settimana ad ascoltare la grande musica con programmi che coniugano il repertorio classico con il Novecento “storico”; nelle sale più piccole del complesso ci si spinge sino alla contemporaneità ed all’avanguardia, nonché all’interazione con altri generi. La festa comprende tre repliche del programma inaugurale dal 16 al 19 febbraio a Roma (con tourné a Perugia, Ferrara, Parma e Torino sino al 25 febbraio). Nella capitale ci sarà pure una maratona musicale con spettacoli per lo più gratuiti dalle 10 alle 22 di domenica 17 febbraio nelle cinque sale di cui è dotato il Parco della Musica. E’ una maratona internazionale in cui a Beethoven, Schumann, Brahms ed al barocco vengono affiancati il jazz, dixieland, il tango, il fox-trot, la canzone americana e molto altro.
Quando, nel febbraio 1908, alle 16 del pomeriggio, veniva inaugurata a Roma la sinfonica di Santa Cecilia la sua sede era una delle più grandi sale da concerto del mondo, l’Augusteo, con 3500 posti. Svettava sul cocuzzolo del Mausoleo di Augusto, (ora Piazza Augusto Imperatore) ed altro non era che l’anfiteatro Corea (dal nome della famiglia proprietaria), ricoperto e ristrutturato. Prima di essere trasformato in un auditorio con un’acustica di cui ancora si raccontano meraviglia, l’anfiteatro era un politeama adibito a spettacoli di varia natura – anche circensi. Anfiteatro Corea e Aditorium Augusteo sono stati demoliti nel riassetto urbanistico dell’area negli Anni Trenta, mentre il Mausoleo di Augusto, che di tale riassetto sarebbe dovuto diventare il punto centrale d’attenzione e di attrazione, attende da oltre 70 anni di essere aperto al pubblico. Secondo l’uso dell’epoca, il programma del concerto inaugurate (replicato oggi con la bacchetta di Antonio Pappano), era eterogeneo: coniugava “classici” come la sinfonia de “L’Assedio di Corinto” di Rossini, l’Eroica di Beethoven, una parte di una sonata di Mozart (difficile comprendere perché non venisse eseguita integralmente), con l’ouverture del “Tannhäser” ed il “mormorio della foresta” di Wagner. La musica di Wagner era allora considerata innovativa rispetto a quella di Rossini, Beethoven e Mozart. Il programma verrà portato nella tournée che si conclude il 25 febbraio al Lingotto.
In margine alle manifestazioni viene inaugurato il nuovo museo degli strumenti musicali, il secondo di questo genere a Roma – il primo, frutto della passione di un collezionista privato, è in una ex-caserma nei pressi della Basilica di Santa Croce in Gerusalemme. Il nuovo museo è, con la medioteca in funzione da qualche anno al Parco della Musica, è una chicca per i più giovani a ragione dello spazio dato anche alla live electronics.
DAL TESORETTO ALLA CRONACA DEL BUCO ANNUNCIATO
C’è o non c’è il “tesoretto”? Viene quantizzato da fonti sindacali in 10 miliardi di euro ma, dopo numerose conferme implicite da parte di esponenti dell’attuale maggioranza, nonché dello stesso leader del PD, Walter Veltroni, è stato negato dal Ministro dell’Economia TPS. Secondo sussurri e grida dai grigi corridoi di Via Venti Settembre, dopo la presa di posizione dell’Ue sui tempi per raggiungere il pareggio di bilancio c’è da dubitare che, il marzo prossimo, la trimestrale di cassa confermi la disponibilità di risorse che, alla vigilia delle elezioni, l’Esecutivo (in carica per gli affari correnti) vorrebbe utilizzare per sgravi tributari alle famiglie a più basso reddito. Lungi da noi che si tratti di misura elettorale! Non solamente a tali sgravi si accompagnerebbero costi di transazione che ne vanificano parte della portata, ma dal 2000 al 2006 (ultimo anno per il quale si dispone di un consuntivo) la spesa pubblica è passata dal 46,2% al 50,5% del pil: stime preliminari Ocse-Fmi la portano al 51% del pil nel 2007.
Anche nell’eventualità che il gettito effettivo aumentasse più delle previsioni, non ci sarebbe – per dirla alla romana – trippa per gatti. Le previsioni non sono rosee: la sera dell’8 febbraio il “consensus” dei 20 istituti econometrici privati internazionali (nessuno è italiano) ha sentenziato un ulteriore rallentamento delle stime dell’economia italiana nel 2008 rispetto alle elaborazioni di un mese fa. In media si sfiora un aumento del pil del’1% ma 9 istituti ne prevedono uno attorno allo 0,5%. La finanziaria è stata costruita ipotizzando incrementi del pil tra l’1,5% e l’1,7%. L’effetto congiunto di esaurimento degli effetti dei condoni e dei concordati e di rallentamento, fa si che è più realistico parlare non di presunto “tesoretto” ma di “cronaca di un buco annunciato” piuttosto che di un “tesoretto”.
A quanto ammonta il “buco annunciato”? Un centro studi lo ha quantizzato in 7 miliardi di euro. Le mie stime lo pongono tra gli 8 ed i 12 miliardi – l’equivalente di una legge finanziaria degli Anni Novanta. Con un margine d’errore del 50%, restiamo nell’ordine di almeno 4-6 miliardi , una cifra che non si può raggranellare con qualche ritardo alle erogazioni per pagamenti, facendoli slittare dall’esercizio 2008 a quello 2009. Chi sarà in carica in maggio-giugno dovrà spalmarla su sei mesi all’assestamento di bilancio: difficile tagliare spese per un’entità (almeno) tra i 2 miliardi ed i 600 milioni al mese. Se torna VVV (Vice Ministro Vincenzo Visco) avrà una motivazione seria per il suo diletto preferito: aumenterà tasse. Se arriverà un’altra squadra, dovrà avere nervi di ghiaccio per non mettersi le mani tra i capelli.
Il quadro sarebbe ancora più inquietante se prima del voto (per avere i sindacati come grandi elettori) verranno concessi dal Governo in carica i 7 miliardi che chiede a gran voce il pubblico impiego.
Anche nell’eventualità che il gettito effettivo aumentasse più delle previsioni, non ci sarebbe – per dirla alla romana – trippa per gatti. Le previsioni non sono rosee: la sera dell’8 febbraio il “consensus” dei 20 istituti econometrici privati internazionali (nessuno è italiano) ha sentenziato un ulteriore rallentamento delle stime dell’economia italiana nel 2008 rispetto alle elaborazioni di un mese fa. In media si sfiora un aumento del pil del’1% ma 9 istituti ne prevedono uno attorno allo 0,5%. La finanziaria è stata costruita ipotizzando incrementi del pil tra l’1,5% e l’1,7%. L’effetto congiunto di esaurimento degli effetti dei condoni e dei concordati e di rallentamento, fa si che è più realistico parlare non di presunto “tesoretto” ma di “cronaca di un buco annunciato” piuttosto che di un “tesoretto”.
A quanto ammonta il “buco annunciato”? Un centro studi lo ha quantizzato in 7 miliardi di euro. Le mie stime lo pongono tra gli 8 ed i 12 miliardi – l’equivalente di una legge finanziaria degli Anni Novanta. Con un margine d’errore del 50%, restiamo nell’ordine di almeno 4-6 miliardi , una cifra che non si può raggranellare con qualche ritardo alle erogazioni per pagamenti, facendoli slittare dall’esercizio 2008 a quello 2009. Chi sarà in carica in maggio-giugno dovrà spalmarla su sei mesi all’assestamento di bilancio: difficile tagliare spese per un’entità (almeno) tra i 2 miliardi ed i 600 milioni al mese. Se torna VVV (Vice Ministro Vincenzo Visco) avrà una motivazione seria per il suo diletto preferito: aumenterà tasse. Se arriverà un’altra squadra, dovrà avere nervi di ghiaccio per non mettersi le mani tra i capelli.
Il quadro sarebbe ancora più inquietante se prima del voto (per avere i sindacati come grandi elettori) verranno concessi dal Governo in carica i 7 miliardi che chiede a gran voce il pubblico impiego.
LA VELTRONIECONOMICS SI E' SCORDATA LA SPESA PUBBLICA
Nel discorso programmatico con cui ha aperto, nella francescana Spello, la campagna elettorale del Partito Democratico, Walter Veltroni ha glissato su un punto essenziale di politica economica: verrà contenuta o non verrà contenuta la spesa pubblica che supera la metà del prodotto interno lordo? L’ambiguità non è dovuta al caso od alla poca abilità dei suoi speech writers. Da un canto, Veltroni tende a tranquillizzare la grandissima parte dell’elettorato tartassata nei 20 mesi del Governo Prodi – e lo fa con la giaculatoria “pagheremo meno tasse perché le pagheranno tutti”. Da un altro, deve tenere a bada il “partito della spesa” che, sindacati in prima linea (soprattutto Cgil e Cisl), è l’architrave stessa del Partito Democratico ed ha già posto sul piatto una richiesta di 7 miliardi di euro di aumenti di stipendio ai dipendenti pubblici. Se ne è accorto anche Il Sole-24 Ore (nella cui redazione, e direzione, non manca chi guarda con grande interesse, e con più di una punta di malcelata simpatia, all’esperimento veltroniano). L’editoriale del 13 febbraio invitava apertamente ad indicare quali poste di spesa ridurre. A riguardo, indicazioni puntuali sono già vendute dal Popolo della Libertà PdL (specialmente in materia di ritorno al sistema previdenziale modificato dalla costosa controriforma Prodi-Damiano-TPS).
In effetti, proprio mentre la Veltronieconomcs non si pronunciava in materia di spesa pubblica, la Banca Mondiale pubblicava (e metteva on line) un’analisi comparata del nesso tra spesa pubblica e crescita basata su un lavoro econometrico in cui si esamina l’esperienza di 140 Paesi (118 in via di sviluppo e 21 appartenenti all’Ocse) in un lasso di tempo (1972-2005) sufficientemente lungo da essere significativo. La crescita (definita in quanto aumento del pil pro-capite del 2% l’anno per almeno un lustro) si verifica quando per almeno cinque anni di seguito la spesa primaria (ossia al netto del pagamento degli interessi sul debito) non cresce più dell’1% l’anno e l’indebitamento netto delle pubbliche amministrazioni non supera mai il tetto del 2% del pil. Perché si verifichino queste due condizioni, occorre un’effettiva cura dimagrante della macchina pubblica italiana con i suoi annessi e connessi: non basta promettere che non verrà ulteriormente aumentata la pressione fiscale.
Un’alta spesa pubblica non è solamente una palla di piombo alla crescita. E’ anche un concime per la criminalità. Lo documenta un’analisi quantitativa effettuate nell’ambito dell’Università Cattolica del Sacro Cuore ed ancora in corso di pubblicazione. Si può, se si desidera esaminarne i dettagli, rivolgersi all’autore Raul Caruso (raul.caruso@unicatt.it) , il cui cognome non individua una secolare dinastia bergamasca o trentina. Dopo un’introduzione teorica (ancorata alle teorie economica della rendita), il lavoro contiene un’analisi empirica su dati di 20 Regioni nell’arco di tempo 1977-2003. L’analisi contiene la costruzione di un indice di intensità e diffusione della criminalità organizzata. I risultati principali sono i seguenti: a) una correlazione negativa tra investimenti nel settore privato e criminalità organizzata; b) una correlazione positiva molto forte tra spesa ed investimenti pubblici (specialmente nell’edilizia) e criminalità organizzata; c) una correlazione negativa, invece, tra tutela sociale e criminalità organizzata. E’ utile ricordare che nel 1998 Giuseppe Tullio e Stefano Quarella (allora ambedue all’Università di Brescia) giunsero a conclusioni analoghe con un apparato statistico molto più semplice di quello di Caruso: le aree a più alto tasso di spesa pubblica erano proprio quelle con il più alto tasso di omicidi.
Quindi è bene che la Veltronieconomics sia chiara (se può) su come il PD intende tagliare la spesa e, di conseguenza, migliorare la sicurezza dei cittadini ed il controllo del territorio da parte dello Stato.
Riferimenti
Caruso R. "Public Spending and Organised Crime in Italy - A Panel-Data Analysis Over the Period 1997-2003 (Spesa Pubblica E Criminalità Organizzata in Italia Evidenza Empirica Su Dati Panel Nel Periodo 1997-2003)" In corso di stampa; si può richieder a raul.caruso@unicatt.it
Carrerw C., De Melo J."Fiscal Spending and Economic Performance: Some Stylized Facts" World Bank Policy Research Working Paper No. 4452
In effetti, proprio mentre la Veltronieconomcs non si pronunciava in materia di spesa pubblica, la Banca Mondiale pubblicava (e metteva on line) un’analisi comparata del nesso tra spesa pubblica e crescita basata su un lavoro econometrico in cui si esamina l’esperienza di 140 Paesi (118 in via di sviluppo e 21 appartenenti all’Ocse) in un lasso di tempo (1972-2005) sufficientemente lungo da essere significativo. La crescita (definita in quanto aumento del pil pro-capite del 2% l’anno per almeno un lustro) si verifica quando per almeno cinque anni di seguito la spesa primaria (ossia al netto del pagamento degli interessi sul debito) non cresce più dell’1% l’anno e l’indebitamento netto delle pubbliche amministrazioni non supera mai il tetto del 2% del pil. Perché si verifichino queste due condizioni, occorre un’effettiva cura dimagrante della macchina pubblica italiana con i suoi annessi e connessi: non basta promettere che non verrà ulteriormente aumentata la pressione fiscale.
Un’alta spesa pubblica non è solamente una palla di piombo alla crescita. E’ anche un concime per la criminalità. Lo documenta un’analisi quantitativa effettuate nell’ambito dell’Università Cattolica del Sacro Cuore ed ancora in corso di pubblicazione. Si può, se si desidera esaminarne i dettagli, rivolgersi all’autore Raul Caruso (raul.caruso@unicatt.it) , il cui cognome non individua una secolare dinastia bergamasca o trentina. Dopo un’introduzione teorica (ancorata alle teorie economica della rendita), il lavoro contiene un’analisi empirica su dati di 20 Regioni nell’arco di tempo 1977-2003. L’analisi contiene la costruzione di un indice di intensità e diffusione della criminalità organizzata. I risultati principali sono i seguenti: a) una correlazione negativa tra investimenti nel settore privato e criminalità organizzata; b) una correlazione positiva molto forte tra spesa ed investimenti pubblici (specialmente nell’edilizia) e criminalità organizzata; c) una correlazione negativa, invece, tra tutela sociale e criminalità organizzata. E’ utile ricordare che nel 1998 Giuseppe Tullio e Stefano Quarella (allora ambedue all’Università di Brescia) giunsero a conclusioni analoghe con un apparato statistico molto più semplice di quello di Caruso: le aree a più alto tasso di spesa pubblica erano proprio quelle con il più alto tasso di omicidi.
Quindi è bene che la Veltronieconomics sia chiara (se può) su come il PD intende tagliare la spesa e, di conseguenza, migliorare la sicurezza dei cittadini ed il controllo del territorio da parte dello Stato.
Riferimenti
Caruso R. "Public Spending and Organised Crime in Italy - A Panel-Data Analysis Over the Period 1997-2003 (Spesa Pubblica E Criminalità Organizzata in Italia Evidenza Empirica Su Dati Panel Nel Periodo 1997-2003)" In corso di stampa; si può richieder a raul.caruso@unicatt.it
Carrerw C., De Melo J."Fiscal Spending and Economic Performance: Some Stylized Facts" World Bank Policy Research Working Paper No. 4452
LA VELTRONIECONOMICS FA LO SGAMBETTO AI SINDACATI
La Veltroeconomics ne ha fatta un’altra ancora: uno sgambetto a quelle tre sigle sindacali confederali che pur dovrebbero essere i suoi grandi elettori. Altri, più malignamente, dicono che si tratta di vero e proprio un colpo di stivale là non batte il sole della Triplice e dei suoi leader. Nel loft non si discute più se lo sgarbo (o lo sgarro) ci sia stato , ma se sia stato intenzionale o preterintenzionale. Nel primo caso, sapendo di perdere, il leader del PD vuole fare terra bruciata nei confronti di “Mimì metallurgico” e dei suoi discendenti per presentarsi , craxianamente, come espressione dei ceti emergenti. Nel secondo, si tratterebbe solamente di un’ulteriore indicazione della sua modesta dimestichezza con l’economia (croce più che delizia del dolce e paziente Marco Causi, da 12 anni suo precettore nei labirinti della disciplina); Goffredo Bettini starebbe già facendo il pontiere con le centrali della Triplice. Lo si è visto a Corso d’Italia, Via Po e Via Lucullo- Probabilmente non in una “promenade de santé”.
Veniamo ai fatti nudi e crudi. Nel salotto di Bruno Vespa, il candidato del PD a Palazzo Chigi ha annunciato che punto fondante del suo programma legislativo è una normativa per definire i minimi salariali ed ha pure indicato quale dovrebbe essere il valore monetario mensile di tali minimi. Non sta a noi discettare se tale normativa sia appropriata o meno. In materia c’è un dibattito intenso da lustri tra economisti del lavoro e tra giuslavoristi. Non possiamo certo pensare che Veltroni abbia dimestichezza con la critica serrata formulata da uno dei maggiori studiosi svedesi, Assar Lindbeck, Premio Nobel per l’Economia, da sempre considerato contiguo alla sinistra e insignito dell’importante onorificenza proprio perché ha dimostrato come il “minimum wage” danneggia individui e famiglie negli scalini più bassi dei redditi e dei consumi. Veltroni è un politico in tante cose affaccendato; quindi, non ha probabilmente mai letto neanche una sintesi del libro fondamentale di Edmud Phelps (altro beniamino della sinistra) sulle implicazioni macro-economiche negative (per le politiche di crescita) di un “salario minimo”.
Da politico, che indossa abiti di taglio americano, avrebbe dovuto seguire, però, il recente dibattito sul tema al Congresso Usa; quanto meno si sarebbe dovuto fare fornire un sunto dei lavori dello Institute for Policy Studies di Washington D.C, il pensatoio per eccellenza del movimento sindacale collaterale alla sinistra americana (negli Usa ci sono anche sindacati molto vicini alla destra). Ove l’America fosse troppo distinta e distante , sarebbe stato utile, prima di esporsi su questo tema, che prendesse visione della ricca, e freschissima, letteratura disponibile sul sito dell’Istituto tedesco di studi del lavoro (www.iza.org) ; gran parte della documentazione è in lingua inglese e – come Veltroni certamente sa (si spera, ne abbiano contezza i suoi consiglieri) – nella Repubblica Federale ci sono state negli ultimi mesi discussioni molto accese sull’argomento. Il maggior sindacato tedesco, la Deutscher Gewerkschaftsbund, DGB, è stato seriamente diviso, al proprio interno, su che posizione prendere in materia. Il potentissimo IG Metall si è espresso contro la misura.
Le ragioni dell’opposizione sindacale al salario minimo riflettono soltanto in parte le determinanti economiche documentate da Assar Lindbeck e Edmund Phelps. Hanno a che fare con la “politics” (l’analisi politica) oltre che con l’”econonomics” (l’analisi economica) del salario minimo normato: come documentato da lustri di studi comprati dell’Ocse e dell’Oil (Organizzazione internazionale del lavoro- agenzia delle Nazioni Unite nei cui organi di governo e di gestione sono rappresentati i sindacati) , i Paesi in cui esiste il “minumun wage” la contrattazione collettiva nazionale non riguarda minimi salariali (punto centrale del sindacalismo dell’Europa continentale , e fiore all’occhiello, ad esempio, della IG Metall) ma altri aspetti (dalle consultazioni in fabbrica, alle vacanze, a soprattutto i salari aziendali).
La proposta di Veltroni, dunque, spezza una delle spade a cui il sindacalismo italiano è più affezionato. I leader sindacali italiani sanno leggere e scrivere (anche in lingue straniere). Non vogliono essere mandati in pensione da un “ex”. Consigliano, quindi, di guardare con attenzione all’Arcobaleno.
Veniamo ai fatti nudi e crudi. Nel salotto di Bruno Vespa, il candidato del PD a Palazzo Chigi ha annunciato che punto fondante del suo programma legislativo è una normativa per definire i minimi salariali ed ha pure indicato quale dovrebbe essere il valore monetario mensile di tali minimi. Non sta a noi discettare se tale normativa sia appropriata o meno. In materia c’è un dibattito intenso da lustri tra economisti del lavoro e tra giuslavoristi. Non possiamo certo pensare che Veltroni abbia dimestichezza con la critica serrata formulata da uno dei maggiori studiosi svedesi, Assar Lindbeck, Premio Nobel per l’Economia, da sempre considerato contiguo alla sinistra e insignito dell’importante onorificenza proprio perché ha dimostrato come il “minimum wage” danneggia individui e famiglie negli scalini più bassi dei redditi e dei consumi. Veltroni è un politico in tante cose affaccendato; quindi, non ha probabilmente mai letto neanche una sintesi del libro fondamentale di Edmud Phelps (altro beniamino della sinistra) sulle implicazioni macro-economiche negative (per le politiche di crescita) di un “salario minimo”.
Da politico, che indossa abiti di taglio americano, avrebbe dovuto seguire, però, il recente dibattito sul tema al Congresso Usa; quanto meno si sarebbe dovuto fare fornire un sunto dei lavori dello Institute for Policy Studies di Washington D.C, il pensatoio per eccellenza del movimento sindacale collaterale alla sinistra americana (negli Usa ci sono anche sindacati molto vicini alla destra). Ove l’America fosse troppo distinta e distante , sarebbe stato utile, prima di esporsi su questo tema, che prendesse visione della ricca, e freschissima, letteratura disponibile sul sito dell’Istituto tedesco di studi del lavoro (www.iza.org) ; gran parte della documentazione è in lingua inglese e – come Veltroni certamente sa (si spera, ne abbiano contezza i suoi consiglieri) – nella Repubblica Federale ci sono state negli ultimi mesi discussioni molto accese sull’argomento. Il maggior sindacato tedesco, la Deutscher Gewerkschaftsbund, DGB, è stato seriamente diviso, al proprio interno, su che posizione prendere in materia. Il potentissimo IG Metall si è espresso contro la misura.
Le ragioni dell’opposizione sindacale al salario minimo riflettono soltanto in parte le determinanti economiche documentate da Assar Lindbeck e Edmund Phelps. Hanno a che fare con la “politics” (l’analisi politica) oltre che con l’”econonomics” (l’analisi economica) del salario minimo normato: come documentato da lustri di studi comprati dell’Ocse e dell’Oil (Organizzazione internazionale del lavoro- agenzia delle Nazioni Unite nei cui organi di governo e di gestione sono rappresentati i sindacati) , i Paesi in cui esiste il “minumun wage” la contrattazione collettiva nazionale non riguarda minimi salariali (punto centrale del sindacalismo dell’Europa continentale , e fiore all’occhiello, ad esempio, della IG Metall) ma altri aspetti (dalle consultazioni in fabbrica, alle vacanze, a soprattutto i salari aziendali).
La proposta di Veltroni, dunque, spezza una delle spade a cui il sindacalismo italiano è più affezionato. I leader sindacali italiani sanno leggere e scrivere (anche in lingue straniere). Non vogliono essere mandati in pensione da un “ex”. Consigliano, quindi, di guardare con attenzione all’Arcobaleno.
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