In tempi non sospetti (alcune settimane fa), questo giornale è stato il primo in Europa ad individuare alcune responsabilità dell’ex-Presidente della Federal Riserve Alan Greenspan nella crisi dei mutui inesigibili e relativi Cdo (Colleteralized debt obligations – prodotti derivati di cui i mutui sono , in varia misura, una componente). Indicammo un episodio specifico: il discorso del 23 gennaio 2004 alle casse di risparmio (istituzioni tra le più coinvolte nei mutui) in cui le invitava ad avere più fantasia. Accortosi che l’invito portava ad eccessi, lo stesso Greenspan, nell’autunno 2005, raccomandò di andarci piano: si profilava già la crisi che sarebbe scoppiata questa estate.
In questi ultimi giorni, un’analisi de www.lavoce.info ripresa con grande rilievo da alcune testate nazionali di informazione punta il dito sull’intera politica monetaria americana negli anni i cui Greespan era al timone della Fed come prima causa del pasticciaccio brutto finito, nelle ultime settimane, nelle prime pagine dei giornali. Greespan non ha certo bisogno di difensori di ufficio. Men che meno da una testata specializzata rivolta al pubblico italiano, come la nostra.
E’, tuttavia, utile chiarire alcuni punti anche sulla base dell’esperienza di avere passato oltre tre lustri a Washington in anni di forte espansione della spesa pubblica e del deficit conti con l’estero Usa nonché del tracollo del sistema monetario e finanziario definito nel 1944 a Bretton Woods.
In primo luogo, non c’è dubbio (come già scritto su questo giornale) che la determinante primaria delle disfunzioni della finanza internazionale (e non solo) è il disavanzo della bilancia delle partite correnti Usa (800 miliardi di dollari , ed in continua crescita): le crisi dei subprime è un tassello di queste disfunzioni. A sua volta, l’enorme deficit dei conti con l’estero Usa ha le sue radici nella politica economica condotta (nonostante i cambi di Presidenza alla Casa Bianca e di maggioranze in Congresso) con estrema linearità bipartisan all’insegna di quello che un tempo si chiamava “benign neglect” (“me ne infischio del resto del mondo”). Negli Usa (come altrove), la politica economica ha tre componenti: a) la politica della moneta; b) la politica di bilancio e c) la politica dei prezzi e dei redditi. La terza (con l’eccezione di pochi comportati di competenza federale) è quasi interamente sotto il controllo dei singoli Stati dell’Unione. La politica di bilancio – molti europei hanno difficoltà a metabolizzarlo – nasce (e finisce) nel Congresso (in gran misura in seno alla Commissione Finanze e Tesoro della Camera): la Casa Bianca non presenta qualcosa di analogo alla finanziaria italiana, alla loi des finances francese, al budget britannico, ma il Presidente può apporre il proprio veto al bilancio confezionato dal Congresso, il quale, a sua volta, può respingerlo a maggioranza qualificata. L’origine principale del disavanzo dei conti con l’estero e delle sue disfunzioni (tra cui i Cdo con subprime) è nell’enorme avanzata della spesa federale (approvata da ambedue gli schieramenti presenti in Congresso) non compensata da un aumento delle entrate fiscali (di cui nessuno ambisce gloriarsi di fronte agli elettori).
Una politica monetaria restrittiva (invece che “accomodante” specialmente dopo l’11 settembre 2001) avrebbe risolto il nodo di fondo? Ne dubito non tanto perché lo dicono modelli econometrici indipendenti – come il LINK creato da Nobel Lawrence Klein- ma perché l’esperienza di parte degli Anni 70 fu che una strategia del genere condusse alla stagflazione negli Usa. Con implicazioni che per l’Europa del primo scorcio di questo secolo sarebbero state gravissime. Anche ove Greespan avesse voluto imporla, ci sarebbe riuscito data la struttura federale della FED? Ne dubito viste le esigenze di crescita soprattutto dopo l’11 settembre 2001 e sapendo quanto le Banche Federali di Riserva sanno far sentire la propria voce nelle riunioni del Comitato per le Operazioni sul Mercato Aperto..Quindi, non spariamo sul pianista. Tanto più che ha passato la mano.
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