Sotto il profilo tecnico-stastistico, il termine “precario” (e quindi una sua definizione) non esiste. Né da noi né in altri Paesi Ocse. Sotto il profilo colloquiale, e del linguaggio giornalistico, “precari” sono tutti coloro con un rapporto di lavoro non “a tempo indeterminato”. Secondo lo studio Quanti sono i lavoratori precari realizzato da Emiliano Mandrone dell'Isfol e da Nicola Massarelli dell'Istat, se si tiene conto di coloro che hanno un lavoro a termine non per scelta individuale , di collaboratori a progetto, di collaboratori occasionali, e di titolari di partita Iva che non fanno parte di ordini o associazioni professionali, si sfiorano i 4 milioni di uomini e donne (tanto da popolare una grande area metropolitana e da essere pari al 20% degli occupati totali in Italia). In effetti, negli ultimi anni mentre la percentuale dei contratti a termine sul totale dei lavori dipendenti è rimasta sostanzialmente invariata (come sottolineato su Il Tempo del 5 agosto) sono sorte molte altre forme di rapporti di lavoro differenti e dai contratti a termine e dal tempo indeterminato. Un settore di rilievo è la pubblica amministrazione in senso lato – specialmente nella ricerca e negli enti collaterali – come risultato (non voluto) dei blocchi alle assunzioni.
La flessibilità, di per sé stessa, non è un male. Ha anzi contribuito alla significativa riduzione del tasso di disoccupazione (ora al 6,5% della forza rispetto ad oltre il 9% segnato quattro anni fa) ed all’aumento di un milione e mezzo di occupati negli ultimi quattro anni. Lo conferma un’analisi comparata di Giuseppe Fiori e Fabio Schiantarelli (ambedue del Boston College) e di Giuseppe Nicoletti e Stefano Scarpetta (ambedue dell’Ocse) pubblicata come IZA Discussion Paper No. 2770: l’analisi copre il periodo 1980-2002 e scava nei nessi tra regolazione del mercato del lavoro e regolazione del mercato dei prodotti.
Tuttavia, c’è il rischio della formazione di un mercato del lavoro duale: da un lato, chi ha contratti a tempo indeterminato (con pertinenti opportunità di carriera) e da un altro, chi salta da un contratto a termine ad un contratto a progetto o simili (senza uguali chance di progressione da impiegato, a quadro a dirigente). Lo studio Isfol-Istat citato, suggerisce che ciò è proprio quanto sta avvenendo in Italia. Un’analisi fresca di stampa di Elsa Foriero (Università di Torino) documenta, inoltre, come “i precari” siano fortemente penalizzati sotto il profilo previdenziale: dopo 35 anni di lavoro, con il sistema di calcolo “contributivo” i loro assegni non toccheranno che un terzo dell’ultimo reddito, rispetto al 60% circa di chi lavora sempre come dipendente a tempo indeterminato.
Quindi è essenziale creare “passerelle” o “ponti” per transitare da un segmento del mercato all’altro (e di semplificare l’alto numero di fattispecie contrattuali, oltre 50, previste dalla Biagi). Il Protocollo sul Welfare del 23 luglio scorso prevede un mero palliativo burocratico: firmare, dopo 36 mesi di contratti a termine, nuovi contratti ancora a tempo all’ufficio del lavoro di fronte a rappresentanti del sindacato. Una strada interessante (applicabile sia al lavoro dipendente privato sia alla Pa, dove si sta cercando di stabilizzare i “precari” tramite apposite direttivi ministeriali) è delineata in un saggio di Alexis Parmantier del centro di studi di politica economica della Università di Evry “Faiblesses et voies de riforme de la protection de l’emploi en France” (“Debolezze e vie di riforma della protezione del lavoro in Francia) apparso qualche mese fa sul periodico “Regards économiques”. Il lavoro prende l’avvio dall’introduzione, Oltralpe, di forme di flessibilità (come il contratto di nuova occupazione ed il contratto di prima occupazione) che assomigliano , per certi aspetti, a quelle previste dalla riforma Biagi. Parmantier propone “un contratto di lavoro unico a titoli progressivi” che “permetterebbe di ammorbidire le rigidità, creare nuovi posti di lavoro, proteggere più efficacemente i più deboli e ridurre le disuguaglianze tra lavoratori”. Il contratto di lavoro “unico a titoli progressivi” sarebbe a tempo indeterminato ma la protezione dell’impiego aumenterebbe di pari passo con l’anzianità aziendale. Inoltre il “contratto di lavoro unico a titoli progressivi” verrebbe accompagnato da uno snellimento delle regole e delle procedure in materia di licenziamenti e da un’imposta sui licenziamenti (il cui gettito verrebbe destinato a finanziare la riqualificazione dei lavoratori colpiti). La proposta è in corso di attuazione da parte del Governo Sarkozy. Non è né di destra né di sinistra. Ma di buon senso.
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