In questo caldo mese di agosto, nonostante le incertezze di breve periodo sull’andamento dei mercati, c’è chi sta affilando strategie finanziarie a lungo termine: i gestori dei fondi pensione rinvigoriti (nonostante le aspettative fossero ancora più ottimistiche) dalla cessione del trattamento di fine di rapporto (tfr). Tra i tanti temi su cui dovranno decidere, quando in settembre si riuniranno numerosi CdA, è in che misura gli investimenti dei fondi dovranno essere non solamente diversificati (per contenere i rischi) e redditizi (per assicurare trattamenti dignitosi agli iscritti, una volta a riposo) ma anche “etici”, o , per utilizzare il lessico della professione, “socialmente responsabili”.
E’ argomento di dibattito da mesi in seno al comparto dei fondi pensione Usa- un dibattito diventato più intenso dopo gli ultimi contraccolpi in Borsa. Il tema ha diverse connotazioni. Da un lato, in che misura, è auspicabile una gestione dinamica che – lo rivela una recente polemica sul collocamento della liquidità della Gates Foundation, non un fondo pensione ma una fondazione dedicata esclusivamente alla virtù - comporta inevitabilmente scivolare nella partecipazione azionarie di imprese addirittura “con finalità predatorie”. Da un altro, se (e di quanto) investimenti socialmente responsabili beneficiano le comunità dove vengono effettuati, ma penalizzando (in termini di riduzione dei rendimenti) gli investitori. Uno dei più antichi (opera da circa 20 anni tramite una varietà di fondi etici) e dei più vasti operatori del settore, 2 miliardi di dollari di attività, (i fondi Domini) mostra nel suo elegante sito web rendimenti di tutto rispetto per ciascuna delle sue gestioni. Analogamente il Rabbinical Pension Board indirizza fondi di comunità ebree americane verso investimenti in banche popolari (a beneficio di comunità a basso reddito) e sostiene di avere ottenuto, negli ultimi dieci anni, rendimenti di tutto rispetto.
Meno incoraggiante di queste analisi (o impressioni supportate da un numero limitato di supporto empirico) uno studio delle Università di Tilburg e dell’Università di Sheffield che uscirà come ECGI Finance Working Paper n. 168/2007 in settembre. L’aspetto per noi più interessante è che l’analisi empirica riguarda non solo i fondi Usa e britannici ma anche quelli dell’Europa continentale e dell’Asia (due aree dove proprio in parallelo con la crescita dei fondi pensioni c’è stato un rapido aumento di destinazioni di attività finanziarie in rami “socialmente responsabili”). In Europa e nel Bacino del Pacifico, la virtù ha un costo quantizzabile in rendimenti inferiori del 5% (non di cinque punti percentuali) quelli dei benchmark nazionali o regionali di riferimento. L’analisi suggerisce anche che tale costo dipende non tanto dalla virtuosità morale per sé quanto dalla modesta capacità dei gestori (nei cui organi di indirizzo siedono spesso sindacalisti, esponenti di denominazioni religiose, notabili del mondo della cultura, ed altre anime pie ben intenzionate ma poco esperte nei labirinti della finanza) di selezionare con cura gli investimenti “socialmente responsabili”. Una delle ragioni è la loro scarsa dimestichezza con applicazioni di analisi finanziaria quali i risk adjusted returns e i loading factors. Ancora una volta: il diavolo si annida nei dettagli non in massimi principi come quello secondo il quale la virtù è bella e va incoraggiata. Proprio per contenere questi problemi, le due università stanno pubblicando un manuale operativo : "Socially Responsible Investments: Methodology, Risk Exposure and Performance" ECGI - Finance Working Paper No. 175/2007. Se ne possono chiedere informazioni al Prof. Jenke ter Horst scrivendo a J.R.terHorst@uvt.nl
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