Il Documento di Programmazione Economica e Finanziaria (Dpef) presentato il 28 giugno dovrebbe essere la base per la prossima legge finanziaria (che il Consiglio dei Ministri ha l’obbligo di approvare entro il 30 settembre) e trasmettere all’esame del Parlamento all’inizio di ottobre. Svolge questa funzione il documento predisposto dal Governo Prodi? L’Istituto Bruno Leoni lo ha definito “un Dpef sottotono”. Ancora meno benevoli gli economisti de Lavoce@info (un gruppo che si a sinistra del centro) che , unitamente ad altri, hanno lamentato come l’Esecutivo non si sia potuto avvalere nel 2007 dell’apporto dell’economista Riccardo Faini (morto all’improvviso l’inverno scorso) che tanto aveva contribuito, sotto il profilo tecnico, al Dpef dell’anno precedente. In effetti, anche se la qualità del documento lascia a desiderare, i nodi che rendono il Dpef 2007 inutile, e per certi aspetti, dannoso non sono tecnico-professionali ma politici.
Un cenno agli aspetti tecnico-professionali, tuttavia, è essenziale. In primo luogo, il documento non esplicita il metodo e la strumentazione utilizzata nell’effettuare stime quantitative degli effetti delle politiche, dei programmi e delle misure proposte. Verosimilmente, le stime sono state elaborate utilizzando il “consensus”, ossia una sintesi dei risultati dei principali modelli econometrici aggregati sia italiani sia stranieri. Tale strumento consente di stimare con una buona approssimazione le dinamiche macro-economiche ma dovrebbe anche essere accompagnato da un’analisi di reattività che consenta di individuare quale sono le politiche, i programmi e le misure a cui le variabili macro-economiche sono più reattive e, quindi, quali sono gli aspetti di politica economica da tenere sotto più intenso monitoraggio. Non permette, poi, di stimare gli effetti di singole politiche, programmi e misure rispetto alla situazione che si verificherebbe ove tali politiche, programmi e misure non venissero realizzati. Ciò è particolarmente importante alla luce del fatto che in nessuna delle quattro aree indicate come prioritarie nel precedente Dpef (previdenza, sanità, pubblica amministrazione, liberalizzazioni) sono stati fatti progressi di rilievo. A riguardo occorre sottolineare che la strumentazione tecnica esiste e viene utilizzata da alcune Regioni italiane (Oltralpe è stata appena applicata dall’Esecutivo francese per analizzare i ddl più significativi inviati all’Assemblea Nazionale). Dovrebbe essere aggiornata in quanto uno sei suoi elementi principali - la matrice di contabilità sociale, ossia una rappresentazione dei flussi finanziari tra settori ed istituzioni, predisposta dall’Istat risale al 1995 ed il suo aggiornamento è stato interrotto a ragione della riduzione degli stanziamenti effettuati dal primo Governo Prodi. Aggiornamenti limitati sono stati fatti, però, quando durante la XIV legislatura è stata messa in campo una strumentazione analoga allo scopo di valutare la transizione tra televisione analogica e digitale. Quindi è legittimo il sospetto che ci siamo spogliati di una strumentazione importante quasi per non conoscere (e non fare conoscere) gli effetti delle politiche non realizzate e di quelle ora proposte.
Sotto il profilo macro-economico, secondo Economic Outlook dell’Ocse, è in atto un rallentamento della crescita e nel 2008 l’Italia sarà il fanalino di coda dell’Ocse (una crescita appena dell’1,5% rispetto al 2,3% stimato per la media dell’area dell’euro) , a ragione anche dell’incremento del prelievo fiscale e contributivo attuato con l’ultima finanziaria. Il rallentamento della crescita comporterà pure un rallentamento dell’aumento del gettito (che nel 2007 ha avuto una dinamica particolarmente rapida soprattutto a ragione delle misure di politica tributaria attuate nel 2001-2005). Il Governo è stato, in parte, in grado di resistere alla richieste presentate dai dicasteri a valere sul presunto “tesoretto”. Ciò nonostante, anche se si vocalizza di “finanziaria leggera”, le stime per la manovra prossima futura variano da un minimo attorno ai 5-10 miliardi ad un massimo di 45 miliardi. Sono due scenari estremi. Nel primo, si ipotizza che il Ministro del Tesoro diventi un bastione nei confronti delle richieste sindacali e ministeriali; nel secondo si assume che per soddisfare tutte le componenti della coalizione (ed i loro elettori) Via XX Settembre sia costretta a cedere su tutta la linea. Per quanto riguarda le implicazioni finanziarie più significative, nella prima ipotesi si resterebbe al limite degli impegni presi dall’Italia in sede europea. Nella seconda, invece, ci si porrebbe fuori dal percorso europeo, aumenterebbe lo spread tra i tassi nostrani e quelli del resto dell’area dell’euro e ci troveremmo in serie difficoltà. Tra questi due estremi, un quadro probabile è che soltanto una piccola frazione delle richieste ministeriali venga accolta. La vera incognita è se ed in che misura, il Ministro dell’Economia e delle Finanze riuscirà a reggere l’urto sull’abolizione (o sostanziale modifica) dello “scalone” previdenziale che ha ormai assunto valore simbolico non solo per i sindacati ma anche per i Ministri del Lavoro e della Solidarietà Sociale (su questo punto insieme, pur se divergono su molti altri) e per buona parte dello schieramento che intende confluire nel Partito Democratico (oltre che per la sinistra reazionaria). Il futuro dei conti pubblici (e dello spread dei tassi) dipende, dunque, in gran misura dagli esiti nel negoziato sulla previdenza, una trattativa che Prodi ha avocato a sé (espropriando in essenza competenze dei Ministri dell’Economia & delle Finanze e del Lavoro & della Previdenza Sociale) ed in corso in questi giorni. Proprio in materia di futuro del sistema previdenziale il Governatore della Banca d’Italia ha inteso mettere paletti chiari (quali l’aumento dell’età media effettiva in cui si va in pensione) in occasione dell’audizione alle Commissioni Bilancio di Camera e Senato.
La strada per riequilibrare gli aspetti distributivi del sistema e renderlo sostenibile richiede cinque mosse (l’una strettamente connessa all’altra): a) aumentare l’età minima per avere accesso alle pensioni di anzianità (con eccezioni per i lavori davvero usuranti) ed eliminarle nel giro di pochi anni per avere, come in gran parte degli altri Paesi industriali, una previdenza pubblica unicamente di pensioni di vecchiaia; b) introdurre subito il meccanismo contributivo (estendendo a tutti le tecniche di computo “pro-quota” già in atto per coloro che il primo gennaio 1996 erano iscritto all’Inps o ad altri enti) anche perché altrove analoghe transizioni (da meccanismi “retributivi” a “contributivi” per il calcolo delle spettanze) sono state fatte nell’arco di tre-cinque anni invece dei 18-30 previsti da noi; c) applicare i nuovi coefficienti di calcolo delle spettanze (quali proposti dal Nucleo di valutazione della spesa previdenziale del Ministero del Lavoro circa un anno fà) per tenere conto dell’allungamento delle aspettative di vita e facilitare la “totalizzazione” in sintonia con la caratteristiche del mercato del lavoro; d) aumentare le pensioni più basse ed agganciarne l’evoluzione all’andamento dei salari (come prima del 1993); e) prevedere un indicizzazione ancora più forte per chi supera gli 80 anni (a ragione delle più alte spese per la cura della persona in cui si incorre in tarda età). I risparmi sulle voci a), b) e c) – di cui oggi beneficia, di norma, chi ha redditi alti o medio alti, servirebbero a finanziare le voci d) ed e) , dirette invece a chi è in condizioni di vero disagio.
L’intesa raggiunta all’alba del 20 luglio, ed approvata il giorno stesso dal Consiglio dei Ministri (con i voti contrari di Emma Bonino e Paolo Ferrero) rappresenta una contro-riforma rispetto a quanto varato nel 2004 ed esaminato in dettaglio su “Il Domenicale” . Favorisce chi è già privilegiato mantenendo l’età più basse d’Europa per pensioni di anzianità di cui beneficeranno coloro che andando a riposo con il sistema “contributivo” avranno trattamenti pari al 70% dell’ultimo stipendio mentre i loro figli e nipoti potranno, al meglio, sperare in trattamenti “retributivi” pari al 40-50% dell’ultima paga. Aggrava il peso della previdenza sui conti pubblici. E’ utile ricordare che è la prima volta che un Ministro dell’Economia e delle Finanze assicura con un sorriso, ma senza fornire dati dettagliati (quali quelli disponibili presso la Ragioneria Generale dello Stato,Rgs) della “sostenibilità” di un accordo che ha fatto tenere in sospeso il fiato degli esperti, delle istituzioni finanziarie europee, dell’Ue e dei mercati. I dati sono disponibili in quanto il modello della spesa previdenziale della Rgs può fornirli in tempo reale e corredandoli di “scenari controfattuali” (ossi di proiezioni basate su ipotesi alternative dell’andamento sia della spesa sia delle variabili macro-economiche). In passato, Ciampi, Amato, Dini, Berlusconi non hanno mai osato presentare un riassetto alla previdenza senza le analisi finanziarie essenziali. De Michelis, nella veste di Ministro del Lavoro, lo fece ben quattro volte nell’arco di due anni (ed allora il modello Rgs era molto più difficile da operare).
Padoa Schioppa dovrà spiegare, all’approdo delle misure in Parlamento, in termini professionali se, con l’intesa, il 16% del pil (o giù di lì) ora destinato alla previdenza aumenta o diminuisce (e di quanto), se si scongiura la stima secondo cui il debito giunga al 180% del pil prima del termine della legislatura e si smentisco le previsioni del Ministero del Lavoro (di cui nessuno pare essersi accorto), secondo cui il saldo negativo dello stato patrimoniale dell’Inps passerebbe dai 120 miliardi di euro (all’ultima conta) a circa 580 miliardi di euro.
L’assordante silenzio di questa calda estate previdenziale si spiega con il fatto che ancora una volta si pensa a qualche contributo e balzello improprio (come già fece Romano Prodi nel 1996) per coprire, quatti quatti, i costi di una riforma che avvantaggia soltanto poche persone (ma danneggia tutte le altre).
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