venerdì 17 agosto 2007

MACERATA: IL POTERE E’ (ANCHE) GIOCO DI DONNE”

Il Festival estivo dello Sferisterio di Macerata segue un percorso per scandagliare, con la “musa bizzarra e altera” (l’opera lirica), il potere. Nel 2006, ha esaminato l’iniziazione al potere; l’anno prossimo la seduzione come mezzo per giungere al potere; questa estate si sofferma sul “gioco dei potenti” – ossia su cosa è il potere e su come le parti in causa formulano ed attuano strategie per conquistarlo e fare sì che siano altri soggetti, a loro subordinati, a permettere loro di conseguire i propri obiettivi e di mantenerli. Il menu è ricco: quattro opere (“Macbeth” di Verdi, “Norma” di Bellini, “Maria Stuarda” di Donizetti e, accanto a tanto “belcanto” della prima metà dell’Ottocento, la prima esecuzione di “Saul” di Testi, nel cartellone di Roma la prossima stagione), una conferenza inaugurale del filosofo Cacciari, vari recital e diverse manifestazioni collaterali. Dal 26 luglio al 12 agosto il sonnolente capoluogo marchigiano viene animato da una folla di melomani, turisti o solamente curiosi che, sulla scorta di libretti e di pentagramma, entrano negli anfratti del “gioco del potere”.
Un richiamo alla teoria dei giochi è inevitabile. Tralasciando “Saul” (la cui prima è il 5 agosto), le tre opere di Verdi, Bellini e Donizetti sembrano casi di studio per studenti da iniziare (se non al potere) a quel ramo della disciplina economica che, proprio dai giochi, prende il nome. Macbeth, Norma, Maria Stuarda devono formulare ed attuare strategie in un contesto che gli economisti chiamerebbero di “asimmetria informativa”: non conoscendo quelle dei loro avversari (rispettivamente Malcom e Macduff, Pollione ed Adalgisa, Elisabetta Tudor), scelgono strategie sub-ottimali che li portano alla catastrofe. Il gioco, poi, è dinamico: nel lessico degli economisti, Macbeth è un agente della Lady, Adalgisa diventa agente di Norma e Roberto di Leicester lo è sia di Maria Stuarda sia di Elisabetta Tudor. Il gioco si rispecchia nella partitura: puro “belcanto” in “Norma” e “Maria Stuarda”- apoteosi del canto puro nella sua espressione sia lirica sia tragica, sorretto da un’orchestrazione quasi elementare. In transizione dal “belcanto” al melodramma della metà dell’Ottocento, “Macbeth”. Tanto il puro “belcanto” tanto la transizione da “belcanto” a melodramma complicano il gioco in quanto rendono più diffide da interpretare l’informazione a disposizione dei partecipanti. Nel “belcanto” si è distratti dal gioco a motivo della solennità statica del canto; nella transizione si è disorientati in quanto- come in tutte le transizioni pure in quelle musicali - le regole sono cangianti (le nuove si accavallano sulle vecchie)- dunque, non chiare.
In secondo luogo, probabilmente senza che gli organizzatori ne avessero contezza, la scelta delle tre opere smentisce un filone di sociologia musicale di impronta marxista, di cui il testo più autorevole è “L’opéra ou la défaite des femmes” di Catherine Clément pubblicato da Grasset nel 1979 ma concepito come parte integrante del “movimento femminista” degli Anni Settanta, il cui apice si ebbe in quel 1977 di cui ricorre il trentennale. Per la Clément, l’opera è la disfatta del genere femminile in quanto nei libretti, ed ancor più nella scrittura vocale ed orchestrale, le donne sono sempre perdenti, anzi vittime designate. In 360 pagine, a stampa fitta, la Clément analizza (a p.197-205) solamente “Norma” delle tre opere al Festival di Macerata: la sacerdotessa è una donna squarciata, Adalgisa una fanciulla perduta, mentre il proconsole romano Pollione è lo stupratore di ambedue. Lettura non soltanto di parte, ma erronea: nel libretto, ed ancor più nella musica, Norma giganteggia su tutto e su tutti, mentre il misero Pollione ha, nel finale, un sussulto di orgoglio per comportarsi – si direbbe – da uomo e non cappone ed andare al patibolo con lei. Ancora più chiaro il potere politico femminile in “Macbeth”: è la Lady a fare diventare pluriomicida il proprio marito in un disegno politico che, però, fallisce. E che dire di “Maria Stuarda”? Le deuteragoniste sono due donne che si contendono non tanto il materasso di Leicester (ridotto ad oggetto sessuale) quanto il potere politico sul mondo intero.
Merita di essere sottolineato (ciò ci collega all’articolo di Guglielmo Piombini sul Dom del 28 luglio) è come libretti e musica venissero concepiti nel contesto bigotto del Granducato fiorentino e della Lombardia austro-ungarica della Restaurazione – in un’epoca, quindi, in cui secondo la vulgata le donne facevano la calzetta e dovevano fare attenzione a non farsi vedere neanche dietro la finestra chiusa. Bellini, Donizetti e Verdi (ed ancor più i loro librettisti ed i loro impresari) avevano a che fare con una doppia censura: quella dei teatri e quella della pubblica amministrazione. Lavoravano in un’epoca in cui in Italia la lirica era puramente commerciale: gli impresari prendevano a nolo teatri di proprietà di consorzi di palchettisti. Ciò che il pubblico pagante (ed in termini reali i prezzi dei biglietti erano salatissimi) applaudiva, doveva, in varia misura, rispecchiare la società- una società, dunque, molto meno maschilista di quanto si creda e dove la donna era al centro del “gioco dei potenti”.
Veniamo brevemente agli spettacoli. Due – “Macbeth” e “Maria Stuarda” - si vedranno la prossima stagione a Verona ed alla Scala; molto efficaci in regia, scene e costumi (Pierluigi Pizzi) e nella lettura orchestrale (rispettivamente Daniele Callegari e Donato Renzetti) possono essere affinati sotto il profilo vocale. Più complesso il ragionamento su “Norma”. Nell’allestimento di Massimo Gasparon, le Gallie sono trasferite in un improbabile Tibet (omaggio ad un archeologo marchigiano) con bonzi guerrafondai ; al posto delle quercia per le invocazioni alla luna abbiamo la cupola del Reichstag nazista contornata da svastiche; i romani hanno,sotto la corazza, lunghe tuniche viola (e prendono botte da orbi dai bellicosi bonzi). Lo spettacolo viene salvato da Paolo Arrivabeni, maestro concertatore, e soprattutto dalla vocalità di Dmitra Theodossiou (Norma) e Daniela Barcellona (Adalgisa) Il “patron” di Salisburgo, Jűrgen Flimm pontifica che l’Italia non ha più registi lirici di qualità. Questo allestimento gli offre un indizio.

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