Premessa La dirigenza della pubblica amministrazione è la casta diva, per eccellenza. Nulla ovviamente a che vedere con la belliniana Norma. E’ “diva” perché come le divinità si considera eterna, e forse lo è: si perpetua nel tempo e si estende nello spazio (della Repubblica) tramite quelle che il Premio Nobel Douglas North (1990) chiama “istituzioni”, vincoli e regole non scritte ma più cogenti di quelle scritte. Ed è casta al quadrato: sia nel senso di rete che incide sulla politica, sulla società, sull’economia sia in quanto il precetto costituzionale di “imparzialità della pubblica amministrazione” le conferisce una corazza di verginità che è sopravvissuta ai vari passaggi dell’evoluzione dell’Italia e della sua storia – dallo Stato liberale (nelle sua varie guise), al fascismo, al centrismo, al centrosinistra, alle varie forme di bipolarismo.
Ha una consistenza di quasi 1200 dirigenti di prima fascia (un tempo venivano chiamati dirigenti generali e coloro a capo di uffici direttori generali) e circa 12.000 dirigenti di seconda fascia (un tempo chiamati primi dirigenti) nella amministrazione dello Stato in senso stretto. Se si includono settore pubblico allargato (istituti previdenziali, Ice, Aci, Cnr ed affini) e le Regioni i dirigenti di prima fascia arrivano ad oltre 5.000 e quelli di seconda fascia ad oltre 40.000. Il 60% della dirigenza ha superato i 60 anni. I due terzi vengono dall’Italia centrale, meridionale e dalle isole. Esiste una letteratura molto ampia sull’economia e sulla sociologia delle burocrazie nonché su pregi e difetti della dirigenza della pubblica amministrazione in Italia. In questa nota si intende sintetizzare il punto di vista di chi è entrato nella casta diva a 40 anni dopo una prima carriera in Banca Mondiale; non avendo mai metabolizzato le istituzioni informali che la regolano vi è rimasto un po’ come un marziano. Tanto che è stato dirigente generale in due differenti dicasteri (Bilancio e Programmazione Economica; Lavoro e Previdenza), è uscito dalla pubblica amministrazione due volte per lavorare per agenzie specializzate delle Nazioni Unite (Fao e Organizzazione Internazionale del Lavoro) e rientrato in servizio per andare ad insegnare a tempo pieno alla Scuola superiore della pubblica amministrazione (Sspa).
Come si entra a fare parte della casta diva. Sino a tempi recenti (la metà degli Anni Novanta), i dirigenti di prima fascia venivano nominati dal Consiglio dei Ministri; le nomine erano a vita , per assicurare l’imparzialità. I dirigenti di seconda fascia erano scelti dietro concorso- una loro percentuale dietro corsi-concorso presso la Sspa; mentre tali concorsi venivano effettuati, di norma, esclusivamente tra funzionari pubblici (spesso estesi al settore pubblico allargato), il Consiglio dei Ministri poteva nominare, sotto la propria responsabilità politica, chi voleva (anche persone che non avevano completato la scuola d’obbligo) dirigente di prima fascia. In pratica, le regole informali facevano sì oltre il 95 dei dirigenti di prima fascia venissero nominati tra chi era già di seconda fascia. Dopo alcuni casi clamorosi di dirigenti di prima fascia nominati tra archivisti di piccoli comuni e simili, alla fine degli Anni Ottanta vennero fissati paletti: per potere entrare nella prima fascia , occorrevano titoli di studio e almeno cinque anni dirigenza nel settore pubblico o privato.
L’ingresso formale nella dirigenza di prima fascia era il giuramento di fedeltà alla Repubblica sulla Costituzione nella mani del Ministro che aveva fatto la proposta di nomina al Consiglio dei Ministri. Questa procedura aveva un alto valore simbolico, ma è stata abolita.
L’ingresso sostanziale dipendeva dal caso. Venendo doppiamente dall’esterno (dalla Banca Mondiale e da 15 anni negli Usa), il mio ingresso al Ministero venne caratterizzato dall’aggressione verbale, appena arrivato, da una parte di una dirigente che mi accusava di avere preso il posto che secondo il “ruolo” (l’anzianità di servizio) sarebbe spettato a lei. Di maggior consistenza, l’invito del Capo di Gabinetto (del Ministro pro-tempore) a farsi notare il meno possibile e di un collega prossimo alla pensione il quale, sapendo che ho una certa facilità a scrivere, mi suggerì di tenermi il più distante possibile da giornali e giornalisti e di non apparire in pubblico se non richiesto.
Chi meglio mi spiegò il significato della casta diva fu un usciere in un caldo pomeriggio di giugno. Ero stato invitato dal Ministro a partecipare ad una delle ultime riunioni del Cipe prima dell’aggiornamento estivo. Era fissata alle 15,30. Vestito di blu facevo anticamera nel ballatoio nel palazzo umbertino di Via Venti Settembre dove si riunisce il Cipe . C’era solo un usciere con un quotidiano romano aperto alla pagina dei necrologi. Dopo mezz’ora di sudate da parte mia e di lettura dei necrologi da parte sua, dissi che sarei andato ad attendere nel mio ufficio dotato di aria condizionata e chiesi all’usciere di avvertirmi all’arrivo dei Ministri componenti il Cipe. Senza alzare la testa dal giornale, affermò secco : “A professò, non se ne vada i precari stanno arrivando: è appena passata dal portone la macchina del precario Signorile!”. Al mio, “I precari?!!”, rispose . “A’ professò, non li legge i giornali? Stiamo andando a crisi estiva e Governo balneare. Pure se non lo fossimo, quelli traballano sempre – precariato puro. I soli fissi qui siamo io e Lei”. Chiarissimo: la casta diva è stabile in un mondo, quello della politica, molto precario.
Come si fa carriera nella casta diva Ciò non significa che ci siano paratie di stagno tra i due mondi. Quello della politica ha bisogno della casta diva per predisporre politica legislativa e per fare funzionare l’amministrazione. Quello della casta diva ha bisogno di quello della politica sia per fare carriera sia, sino a tempi recenti, per guadagnare bene (invece che male). Sino alle riforme degli Anni Novanta, elemento importante per passare dalla seconda alla prima fascia erano le frequentazioni dei segretari dei Ministri (e della schiera assortita di portaborse) ; il tempo che si passava nelle loro anticamere, i servigi resi (spesso lecitissimi quali quelli per influire sui tempi di una pratica legittima, anzi un atto dovuto) erano indicatori importanti di chi ce la metteva tutta per ascendere ai livelli più alti ed agli uffici con tappeti e quadri storici. Una volta raggiunta la prima fascia o dirigenza generale (come si chiamava allora), la contesa riguardava gli incarichi , ossia seggi in consigli di amministrazione di enti o società controllate dallo Stato, partecipazione a commissioni di aggiudicazioni di appalti e di collaudo, e simili. La retribuzione netta annuale poteva aumentare di quattro-cinque volte rispetto a quella del collega che poteva contare unicamente sullo stipendio tabellare. Ancora una volta, cruciale l’importanza di non farsi notare, ma di appartenere a reti (interne all’amministrazione ma supportate da quelle della politica) per entrare nei meccanismi della distribuzione degli incarichi. Non è un fenomeno soltanto italiano: lo descrive bene l’economista laburista Paul Streeten (1986) nei capitoli della sua autobiografia in cui racconta la sua esperienza di alto burocrate del Governo Wilson.
Ciò non vuole dire che si faccia carriera unicamente nelle anticamere del personale di fiducia del politico alla guida del dicastero. Molti alti dirigenti hanno costruito le loro carriere su una perfetta conoscenza della macchina pubblica (tale che nessun segretario di Ministro riesce ad acquisire) e lavorando duro per almeno 12 ore al giorno. Alcuni hanno come ricompensa incarichi più o meno lucrosi. Tutti hanno la soddisfazione che raramente un Ministro si discosta da quanto proposto in una nota scritta, protocollata e firmata dal dirigente competente per l’ufficio. In un libro di venti anni fa (Pennisi e Peterlini 1987) ho raccontato come pure i tentativi di manovre clientelari più astuti vengano bloccati da un appunto firmato e protocollato.
Le riforme degli ultimi tre lustri La casta diva è passata piuttosto indenne attraverso le riforme degli ultimi tre lustri. Esse riguardano quattro aspetti salienti: a) la separazione tra funzione politica e funzione amministrativa, b) la nomina di “esterni” con contratti a termine (con un limite del 5% del totale, successivamente portato al 10%); c) le retribuzioni contrattualizzate per quasi tutte le categorie (eccezioni: i diplomatici, i prefetti, i militari, i magistrati i professori universitari e pochi altri) ed incluse in contratti individuali triennali in cui si specificano funzioni e obiettivi da raggiungere; b) il reclutamento e la formazione.
La separazione tra funzione politica e funzione amministrativa era già nel Dna sistema molto più di quanto non lo indicassero le regole formali. In pratica, la funzione amministrativa condizionava quella politica molto più di quanto l’indirizzo politico non condizionasse la casta diva (sempre pronta a rallentare i tempi in attesa che arrivasse una nuova ciurma di precari). Le nuove regole la hanno accentuata e resa più trasparente.
La nomina di esterni con contratti a termine ha dato luogo ad uno spoil system all’italiana. In pratica, il 90% è stabile pur se viaggia da contratto triennale a contratto triennale. Il 10% instabile ha, in molti casi, portato linfa nuova , anche se caratterizzata politicamente, poiché è in buona misura di provenienza aziendale. Importante notare che spesso gli “instabili” sono ricontrattualizzati (a scadenza dei loro mandati) dal nuovo Governo, anche se di parte avversaria a chi li aveva inizialmente chiamate. In alcuni casi, ciò avviene per la buona prova data e l’esigenza dei nuovi responsabili politici di servirsene. In altri, ciò avviene in seguito al trasformismo che caratterizza tutte le burocrazie.
Le retribuzioni sono state elemento che hanno attirato anche dal privato verso la dirigenza della pubblica amministrazione. Mediamente i dirigenti di seconda fascia guadagnano € 75.000 l’anno e quelli di prima fascia € 120.000 (ma con punte che superano € 500.000). All’inizio degli Anni Ottanta, la retribuzione netta di un dirigente generale non toccava un milione e mezzo al mese. Si è anche sfoltita la giungla degli incarichi e previsto che un terzo delle indennità/appannaggi venisse destinata non ai singoli ma ad un fondo comune che ciascuna amministrazione riparte tra tutti i dirigenti.
Il reclutamento dei dirigenti di seconda fascia è la leva principale per svecchiare la dirigenza. L’iniziativa principale è quella di corsi-concorsi presso la Sspa. La loro caratteristica è che sono aperti non solo a funzionari pubblici ma a tutti coloro che abbiamo titoli di base (livello e tipologia di laurea). Il corso è intercalata da periodi applicativi, anche all’estero, presso aziende e organizzazioni internazionali. Coloro ammessi al concorso possono scegliere la loro destinazione (tra quelle disponibili) in base alla graduatoria dei risultati ottenuti. Ci sono state luci ed ombre, ma complessivamente con i primi tre concorsi (il quarto è in via di espletamento) 250 dirigenti giovani (alcuni hanno già raggiunto la prima fascia) che modificheranno alcune caratteristiche della casta diva. Senza però indebolirla. Come dimostrato dalle associazioni già create (e molto attive) tra coloro che hanno fatto l’esperienza dei corsi-concorso.
Riferimenti bibliografici
Douglas North (1990) Istitutions, Institutional Change and Economic Performance Harvard University Press
Giuseppe Pennisi e Edoardo Peterlini (1987) Spesa pubblica e bisogno di inefficienza Il Mulino.
Paul Streeten (1987) Aerial Roots Banca Nazionale del Lavoro Quarterly Review n. 157
13 Agosto 2007 caste Italia politica pubblica amministrazione Commenta Email Condividi
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