venerdì 17 agosto 2007

LA LENTOCRAZIA NON GIOVA AD ALITALIA

Una vecchia massima (che ciascun buon docente di economia insegna ai propri allievi) è quella secondo cui quando i procuratori prendono un mano una questione di economia o finanza, l’economista non può fare altro che uscire di scena. Tranne che non sia chiamato ad assumere l’incarico di perito. Per il Tribunale o per una delle parti in causa. Prima dell’intervento della Procura di Roma (proprio alla vigilia delle ferie estive) c’erano state voci di insider trading (a proposito dell’altalena del titolo) e pure avvertimenti, indiretti ma non per questo meno eloquenti, da parte della stessa Consob. Senza dubbio, l’indagine in corso ritarderà le procedure di vendita (dietro una vera asta alla Vickey, sosteniamo da mesi). Ciò non fa bene ad un’azienda che ha in cassa liquidità sino alla fine dell’anno e perde 2 milioni di euro al giorno.

Sarebbe errato, oltre che miope, attribuire i ritardi alla Procura. Il primo agosto il CdA avrebbe dovuto partorire quel “piano industriale” che sarebbe dovuto essere la base per una nuova asta, gara o selezione competitiva di sorta per porre in vendita la partecipazione di controllo del Ministero dell’Economia e delle Finanze (Mef) nel capitale della compagnia. La seduta si è conclusa con un rinvio a fine mese. Nel frattempo, il nuovo Presidente Maurizio Prato ha annunciato incontri con la numerose e variopinte sigle sindacali che per decenni hanno fatto il bello ed il cattivo tempo in azienda. Prato che è cresciuto nell’Iri guidata da Romano Prodi non ha annunciato incontri con i rappresentanti dei consumatori che avrebbero potuto illustrargli perché da lustri milioni di italiani e stranieri stanno voltando le spalle alla compagnia e, quando possono (ossia su rotte in cui Alitalia non opera in monopolio) scelgono altri vettori. Per utilizzare il lessico anglosassone, la “culture di Prato è quella di un manager di quella industria di Stato proprio in quegli anni in cui Giuliano Amato, in un libro sulla politica del settore edito da il Mulino, chiamava “impiccione” e “pasticcione” l’intervento pubblico a favore dello Stato produttore (tanto di metallurgia quanto di panettoni passando per linee aeree e le agenzie di viaggio). L’aver preferito l’incontro con le sigle sindacali (prima ancora della redazione del “piano industriale”) ricorda le vecchie prassi consociative che hanno tanto contribuito ad affossare le partecipazioni statali, e la stessa Alitalia. Lo conferma la strategia del rinvio decisa dal CdA: di fronte ad una situazione drammatica – il pasticciato beauty contest – sarebbe stato necessario approvare un “piano industriale”, pur perfettibile, ma comunque tale da rappresentare una base per la privatizzazione o cessione della compagnia. La lentocrazia pilatesca (che non decide) e gattopardesca (che non cambia nulla nella sostanza) non giova all’Alitalia poiché ne aggrava i problemi e scoraggia potenziali investitori proprio in una fase in cui a livello internazionale la liquidità non fa difetto.
E’ un pessimo segnale ai mercati. Può voler dire che si sta trattando (mentre l’Italia è in vacanza) con qualche interlocutore privilegiato, eliminando i paletti che tale interlocutore non gradisce e di mettere su in autunno un nuovo beauty contest , sapendo già chi ne uscirà vincitore. In breve un balletto da festival estivo di provincia per mettere a punto a chi dare la spoglie di Alitalia. A spese di ci lavora, direttamente o indirettamente. E degli italiani tutti.

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