venerdì 31 agosto 2007

"SUL FISCO NON SI PROFILA NEANCHE UN ARMISTIZIO

A furia di parlare francese, il Ministro dell’Economia e delle Finanze, Tommaso Padoa-Schioppa (TPS per gli amici- e pure per gli altri), ha confuso “tregua” con “armistizio”. In tema di fisco, il suo Vice Vincenzo Visco, VVV per gli amici (da cui, però, prende direttive in materia tributaria – e non solo) è stato chiaro. VVV emette periodicamente proclami badogliani: “la guerra continua” (contro gli evasori, contro gli elusori, ora pur contro le esenzioni da alcuni tributi agli enti non-profit, tra cui le Chiese). Il Presidente del Consiglio Romano Prodi ha tentato di parare la gaffe (a Roma si direbbe “metterci una pezza”) avvertendo, da tutti gli schermi televisivi disponibili, che non si tratterà di “tregua”, ma “di pace fiscale”- perfino con riduzione delle tasse (senza precisare se verranno ritoccate le voci o le aliquote o se . ipotesi più probabile, diminuirà il gettito sia per il rallentamento economico provocato anche dalla stangata dell’anno scorso sia per l’erogazione dei rimborsi, in attesa da mesi).
A fronte di tanti e tali proclami (e della rivolta degli elettori), comunque TPS non può che auspicare un armistizio sia perché le entrate pare vadano bene (ma – nessuno, tranne la Banca d’Italia, lo dice – le spese galoppano molto più rapidamente di quanto anticipato) sia perché TPS è consapevole di essere Ministro di un Governo che ha avuto una maggioranza di appena 24.000 voti ed in un Paese in cui si avvertono sempre più fermenti di ribellione fiscale.
In cosa consisterebbe l’armistizio? Non verrebbe aumenta ulteriormente la pressione tributaria e contributiva da parte dell’amministrazione centrale; in cambio, si farebbe qualche riformina bipartisan (sottolineo riformina, come qualche ritocco alle authority, non riforma vera e propria, neanche gli accenni di riforma in materia di servizi pubblici locali e di liberalizzazioni proposti da suoi colleghi in Consiglio dei Ministri). L’armistizio verrebbe corredato da un arresto all’incremento strisciante dei tributi locali: aumentati in dieci anni (secondo alcuni) del 111% e secondo altri del 154% - comunque una cifra da fare traballare le poltrone di molti sindaci e, quindi, giunta, se vogliamo, ad un arresto per cause naturali.
Cosa comporterebbe l’armistizio dal lato della spesa? Lo ha capito bene (un tempo si diceva: contadino, scarpe grosse ma cervello fino), il Ministro delle Infrastrutture Antonio Di Pietro: dato che TPS è troppo signore (pardon, monsieur) per dire di “no” al Ministro-ombra dell’Economia, Antonio Ferrero ed ai suoi accoliti, la scure cadrebbe principalmente sulle opere pubbliche. Il Presidente del Consiglio Romano Prodi ne ha esperienza: alla sua prima tornata a Palazzo Chigi, ha cancellato con un colpo di penna la metà della spesa in conto capitale. Per questo motivo, Di Pietro ha presentato un proprio programma quinquennale di opere pubbliche, lo ha dato alla stampa, si è assicurato il supporto della Commissione Europea e lo difenderà con i denti da eventuali tagli di TPS.
Tuttavia, da quando TPS ha parlato di “tregua”, volendo dire “armistizio”, il quadro è cambiato. E non in meglio. Lo stesso TPS ha detto che le turbolenza sui mercati ( la cosiddetta crisi del subprime ) comportano una riduzione della previsione del tasso di crescita per il 2008 dal 2% all’1,8%. In effetti, davanti ai “tecnici” riuniti per l’”aggiornamento del Dpef” (documento di supporto alla legge di bilancio), la previsione del “consensus” (i 20 maggiori istituti econometrici internazionali) sono per una crescita dell’1,5% per il nostro Paese l’anno prossimo; il 30% degli istituti formulano previsioni ancora più basse. Cassandra diceva cose poco gradevoli, ma aveva ragione. La politica di spesa si basa su una crescita almeno del 2% quale programmata nel Dpef e nell’accordo sul Welfare del 23 luglio. Una riduzione di un quarto del tasso di crescita comporta tagli molto più drastici anche di un eventuale azzeramento degli stanziamenti per opere pubbliche. Ed una rivolta da parte di Ferrero & Co.
Inoltre, come ha ben argomentato Nicola Rossi sul “Corriere della Sera” del 30 agosto, occorre chiedersi quanti e quali aumenti delle entrare di cui ci si è vantati negli ultimi mesi sono fittizi o mero frutto delle misure precedenti al 2006 oppure ancora legati alla ripresina del 2005. In questi casi, non si ripeteranno nel 2008 e TPS dovrà ingoiare le direttive del suo VVV a favore di qualche nuovo marchingegno tributario. Mentre gli italiani aspettano ancora la restituzione della “tassa per l’Europa” inventata da Prodi nel 2006 e che sarebbe stata resa subito dopo l’ingresso nell’euro.
Naturalmente, è lecito porre una domanda: perché “quelli del consesus” sono così pessimisti? L’elemento qualificante è l’effetto della crisi del subprime sul disavanzo Usa e quindi sul riaggiustamento e da lì sui cambi: il servizio studi Bce ha predisposto un lavoro che uscirà in settembre ma TPS deve avere già letto . Inoltre Goldman Sachs e Merryll Lynch prevedono che l’euro arriverà a 1.42 dollari Usa entro la fine dell’anno. Lo conferma Currency Direct di Londra: nei giorni della credit crunch i cambisti sono saltati sul dollaro ma adesso (dopo la forte infusione di liquidità da parte della Bce e , in misura più modesta della Fed) si viaggia verso una stabilizzazione attorno 1.40 dollari per euro. Ciò costa caro, specialmente in termini di export . E l’Italia è un Paese tradizionalmente trainato dalle esportazioni.
Quindi, non ci sono in giro nessuna lamentosa Cassandra e nessun Profeta Geremia ma solo un po’ di conoscenze di economia.

ALITALIA: TEMPO SCADUTO

Il “trinomio incompatibile” è uno dei primi teoremi che si studiano nei corsi di politica economica: non è possibile avere al tempo stesso, mercati finanziari aperti, tassi di cambio fissi e politiche monetarie indipendenti. Il management dell’Alitalia è alle prese con un analogo “trinomio incompatibile”: senza fare una nuova gara (e vera) avere risorse nuove da un nuovo partner (meglio se industriale , non solo finanziario), evitare un riassetto severo e mantenere le caratteristiche di “italianità” e di “livelli occupazionali” (non soltanto in generale ma anche in singolo aree del Paese) considerate essenziali da varie parti dello schieramento politico si cade in un “trinomio” incompatibile, Non è concepibile che qualcuno (italiano o straniero) metta risorse in un’azienda che perde 2 milioni di euro al giorno senza avere la facoltà di attuare un piano di riassetto severo diretto ad incidere su rotte ed occupazione; se il partner coraggioso (in quanto occorre essere davvero arditi per accollarsi un’azienda nelle condizioni di Alitalia) è straniero vorrà mettere la propria bandiera accanto al tricolore.
Dalla riunione del Consiglio di Amministrazione (CdA) di oggi 30 agosto è emerso non l’atteso piano industriale ma un “programma di sopravvivenza” dai lineamenti poco chiari (sulla base di quanto è stato comunicato): un aumento di capitale (se si trova chi è pronto a fare versamenti), riduzioni al margine di rotte ed organici. Tra una diecina di giorni una nuova sessione del CdA dovrebbe esplicitare qualcosa in più. I comunicati ufficiali fanno ritenere che ci si è messi su uno di quei percorsi in cui le speranze si autoalimentano sino a diventare illusioni: la speranza-illusione è che, in mancanza di un partner disposto ad accettare il “trinomio incompatibile”, la diplomazia economica e trasportistica internazionale dell’Italia sia in grado di convincere le autorità comunitarie ad interpretare una nuova infusione di risorse da qualche fonte parapubblica non come un “aiuto di Stato”; il neocolbertismo di Sarkozy darebbe una mano. Tuttavia, anche nell’eventualità (peraltro poco verosimile) di qualche concessione da parte di Bruxelles, è difficile vedere da quale parte del settore pubblico o parapubblico possano venire le risorse.
L’illusione – si diceva ai tempi dell’Inquisizione , come ci ricorda “Il prigioniero” di Luigi Dallapiccola– è la peggiore delle torture. In economia aziendale è quella che di solito precede le procedure giudiziarie di liquidazione e di fallimento: la si impartisce pensando che in tal modo la vittima designata giudichi una liberazione l’atto di portare i libri in tribunale. Perché infierire su tutti coloro che hanno un legittimo interesse in Alitalia, a cominciare dai dipendenti della compagnia e dal vasto indotto?
Non sappiamo se Alitalia abbia in cassa il necessario per fare una nuova (e vera) asta – l’unica strada per trovare un’acquirente serio con un management all’altezza per rilanciarla, riducendo sì rotte ed organici eccessivi ma mantenendo il cuore della compagnia. Se lo ha, si imbocchi questa strada al più presto. Lo chiedano anche i sindacati nell’interesse dei lavoratori e delle loro famiglie, nonché di tutto ciò che ruota attorno ad Alitalia. In questa vicenda, la tattica dei temporeggiatori si è già rivelata perdente , accumulando stock di debiti e flussi di perdite.
Sappiamo che l’attuale Presidente di Alitalia è stato maestro di liquidazioni. Vogliamo pensare che sia stato scelto non per queste doti ma per la capacità di rilanciare un’azienda che, pur se dissestata, rappresenta ancora molto per molti. Un Governo ed una gestione perditempo, aggrovigliati nel trinomio incompatibile- vorrebbero soltanto dire una penosa agonia.

giovedì 30 agosto 2007

NON SPARATE SUL PIANISTA SPECIE SE E’ GREENSPAN

In tempi non sospetti (alcune settimane fa), questo giornale è stato il primo in Europa ad individuare alcune responsabilità dell’ex-Presidente della Federal Riserve Alan Greenspan nella crisi dei mutui inesigibili e relativi Cdo (Colleteralized debt obligations – prodotti derivati di cui i mutui sono , in varia misura, una componente). Indicammo un episodio specifico: il discorso del 23 gennaio 2004 alle casse di risparmio (istituzioni tra le più coinvolte nei mutui) in cui le invitava ad avere più fantasia. Accortosi che l’invito portava ad eccessi, lo stesso Greenspan, nell’autunno 2005, raccomandò di andarci piano: si profilava già la crisi che sarebbe scoppiata questa estate.
In questi ultimi giorni, un’analisi de www.lavoce.info ripresa con grande rilievo da alcune testate nazionali di informazione punta il dito sull’intera politica monetaria americana negli anni i cui Greespan era al timone della Fed come prima causa del pasticciaccio brutto finito, nelle ultime settimane, nelle prime pagine dei giornali. Greespan non ha certo bisogno di difensori di ufficio. Men che meno da una testata specializzata rivolta al pubblico italiano, come la nostra.
E’, tuttavia, utile chiarire alcuni punti anche sulla base dell’esperienza di avere passato oltre tre lustri a Washington in anni di forte espansione della spesa pubblica e del deficit conti con l’estero Usa nonché del tracollo del sistema monetario e finanziario definito nel 1944 a Bretton Woods.
In primo luogo, non c’è dubbio (come già scritto su questo giornale) che la determinante primaria delle disfunzioni della finanza internazionale (e non solo) è il disavanzo della bilancia delle partite correnti Usa (800 miliardi di dollari , ed in continua crescita): le crisi dei subprime è un tassello di queste disfunzioni. A sua volta, l’enorme deficit dei conti con l’estero Usa ha le sue radici nella politica economica condotta (nonostante i cambi di Presidenza alla Casa Bianca e di maggioranze in Congresso) con estrema linearità bipartisan all’insegna di quello che un tempo si chiamava “benign neglect” (“me ne infischio del resto del mondo”). Negli Usa (come altrove), la politica economica ha tre componenti: a) la politica della moneta; b) la politica di bilancio e c) la politica dei prezzi e dei redditi. La terza (con l’eccezione di pochi comportati di competenza federale) è quasi interamente sotto il controllo dei singoli Stati dell’Unione. La politica di bilancio – molti europei hanno difficoltà a metabolizzarlo – nasce (e finisce) nel Congresso (in gran misura in seno alla Commissione Finanze e Tesoro della Camera): la Casa Bianca non presenta qualcosa di analogo alla finanziaria italiana, alla loi des finances francese, al budget britannico, ma il Presidente può apporre il proprio veto al bilancio confezionato dal Congresso, il quale, a sua volta, può respingerlo a maggioranza qualificata. L’origine principale del disavanzo dei conti con l’estero e delle sue disfunzioni (tra cui i Cdo con subprime) è nell’enorme avanzata della spesa federale (approvata da ambedue gli schieramenti presenti in Congresso) non compensata da un aumento delle entrate fiscali (di cui nessuno ambisce gloriarsi di fronte agli elettori).
Una politica monetaria restrittiva (invece che “accomodante” specialmente dopo l’11 settembre 2001) avrebbe risolto il nodo di fondo? Ne dubito non tanto perché lo dicono modelli econometrici indipendenti – come il LINK creato da Nobel Lawrence Klein- ma perché l’esperienza di parte degli Anni 70 fu che una strategia del genere condusse alla stagflazione negli Usa. Con implicazioni che per l’Europa del primo scorcio di questo secolo sarebbero state gravissime. Anche ove Greespan avesse voluto imporla, ci sarebbe riuscito data la struttura federale della FED? Ne dubito viste le esigenze di crescita soprattutto dopo l’11 settembre 2001 e sapendo quanto le Banche Federali di Riserva sanno far sentire la propria voce nelle riunioni del Comitato per le Operazioni sul Mercato Aperto..Quindi, non spariamo sul pianista. Tanto più che ha passato la mano.

mercoledì 29 agosto 2007

PRODI E LA NORMALIZZAZIONE DEI MERCATI

Il Presidente del Consiglio Romano Prodi propina interviste rassicuranti per convincerci che i mercati (finanziari) si stanno normalizzando. Peccato che la sua specializzazione sia nel protezionismo industriale (argomento della tesi di laurea) e nel mercato delle piastrelle (oggetto del suo libro del 1966 Modello di sviluppo di un settore in rapida crescita: l'industria della ceramica per l'edilizia, l’unico peraltro a carattere accademico tra la dozzina da lui pubblicati). In effetti, alla base delle difficoltà di queste settimane c’è una determinante che non controlla: gli Usa devo attirare 800 miliardi di dollari l’anno per finanziare la propria bilancia dei pagamenti ed a tal fine si è creato un complicato mercato di derivati di cui i subprime sono solo un piccolo elemento. Il sindacalista francese Marc Blondel ha detto per anni che nell’età della globalizzazione i Governi sono diventati subappaltanti dei mercati. Nell’attuale situazione, Prodi è al più un aspirante subappaltante. Potrebbe, però, mettere ordine nella casa che tenta di governare: le informazioni dalle varie authority sull’eventuale contagio dovrebbero essere disponibili in tempo reale, premendo il tasto di un computer, mentre richieste da due settimane le si attende ancora; l’architettura della regolazione vigilanza dovrebbe essere meno barocca (la maggioranza dei Paesi dello spazio economico europeo ne ha una sola) e le procedure meno rococò con risparmi di poltrone, prebende e tempo; si dovrebbe bloccare sul nascere la circolazione di derivati opachi e fornire un’informativa ampia e corretta ai consumatori; si dovrebbero recidere potenziali conflitti di interesse tra rappresentanti di categorie e fondi pensione. Non si curerebbe un problema globale, ma si darebbe un contributo a casa propria. Con la “serietà” di cui giovialmente parla tanto spesso.

FRANCO TIRATORE A SALISBURGO

DER FREISCHŰTZ
(Il Franco Tiratore)
Festival di Salisburgo

Innanzittutto, una precisazione lessicale: il titolo della prima (o la seconda, contando “Undine” di E.T. A Hoffmann) grande opera romantica tedesca (per l’appunto “Der Frieschűtz” di Carl Maria von Weber ) viene tradotto in italiano indifferentemente “Il franco cacciatore” o “Il franco tiratore”. Propendo per la seconda versione. In primo luogo, anche se Max , l’eroe dell’opera, è un cacciatore, il perno del dramma è una gara di tiro. In secondo luogo, l’aggettivo qualificativo “franco” (la traduzione letterale sarebbe “libero”) non ha nulla a che vedere con “franchezza” o “schiettezza” oppure “sincerità” come si intende in italiano. Come ebbe a sottolineare Francesco Spera in un bel saggio circa tre lustri fa, Max non è né schietto né sincero né tanto meno ingenuo in quanto arriva a stringere un patto con il diavolo per vincere la gara barando (o, se volete, dopandosi), l’accordo con il maligno non va in porto soltanto perché si pente (ed un provvidenziale Eremita rimescola le carte all’ultimo momento). Max viene, però, punito con un anno di forzata castità ed l’opportunità di ritentare (dopo 12 mesi) la prova. Come un “franco tiratore” della politica non segue le regole del gioco. E ne paga le spese.
Fatta questa precisazione lessicale, due parole sul significato dell’opera, tanto bella e tanto importante quanto raramente eseguita in Italia (ne ricordo un’edizione semi-scenica all’Accademia di Santa Cecilia, circa dieci anni fa ed una a Bologna oltre venti anni fà). Nel teatro in musica, il romanticismo tedesco è profondamente differente da quello italiano in quanto sono preponderanti due elementi che mancano quasi completamente dal melodramma verdiano (espressione certamente più alta del nostro romanticismo): l’eros ed il demoniaco. In Verdi predomina la passione (anche nell’opera con il duetto più carnale, “Un ballo in maschera”) non l’eors; di fronte al demoniaco (si pensi a “Macbeth”, a “Il Trovatore” allo stesso “Otello” – lavori in cui c’erano tutti i tratti per sentire odore di zolfo), viene gettato un velo, e prese le distanza, a ragione dall’anticlericalismo agnostico di buona parte dell’intellighentzia del nostro Risorgimento. Eros e demoniaco sono al centro de “Il franco tiratore”. All’eros maschile del mondo di Max, e di Caspar (ciascuno dei due voglioso di finire sotto le lenzuola con Agathe) si contrappone il mondo di Agathe e di Ännchen, “un soffio d’aria pura” – ha scritto Giovanni Carli Balolla – se raffrontato con quello duro dei cacciatori (o quello satanico della Gola del Lupo) , ma non per questo meno denso di eros: Agathe aspira a finire sotto le lenzuola con Max anche se sa che verosimilmente la gara a cui è legato il suo futuro sarà vinta da Caspar (ove non ci fosse il colpo di scena finale). Inoltre, il romanticismo tedesco dà maggiore spazio alla natura, al paesaggio, di quanto non faccia il romanticismo italiano. E’ per tale ragione che gli ottoni e i fiati hanno – proprio ne “Il franco tiratore” – un ruolo preminente (rispetto all’evoluzione che l’orchestrazione del teatro in musica ha , nello stesso periodo, a sud delle Alpi ed ad ovest del Reno). Eros, demoniaco, spazio al paesaggio significano indubbiamente riallacciarsi alla tradizione culturale germanica. Infine, il melologo (che in Italia resta distinto dall’opera, specialmente nell’Ottocento) viene introdotto e viene mantenuta l’alternanza tra parti parlati e numeri musicali (Wagner baderà a fare sparire sia i primi sia i secondi). Le fonti de “Il franco tiratore” – come quelle de “L’Anello del Nibelungo” di Wagner – si perdono della tradizione orale di antiche leggende che vengono reinterpretate e reinterpolate per dare luogo ad “opera nazionale” che si distinguesse da quella italiana – allora prevalente in tutta Europa.
L’allestimento scenico di Falk Richter segue una traccia ben precisa e destinata a suscitare polemiche alla riprese, a Salisburgo o altrove: dato che le gare di tiro servivano principalmente a scegliere chi doveva abbracciare la carriera militare e che le pallottole manipolate da Caspar e Max (su ispirazione di Samiel, il demonio) possono assimilarsi a armi di distruzione particolarmente insidiose, la vicenda è trasportata ai nostri giorni. E’ anche letta come un “romanzo di iniziazione” di Max che, da adolescente, diventa adulto. Per portare avanti il disegno con coerenza , le parti parlate vengono ampliate (e vengono anche aggiunti personaggio recitanti, gli assistenti di Samiel). L’eros è presente (anzi amplificato: il mondo di Samiel è bisessuale (si allude a rapporti non solo intellettuali del demone con Caspar ed i due assistenti; si assistente ad un vero e proprio corteggiamento nei confronti di Mac) e nella tana del lupo si svolge una vera e propria orgia). Il demoniaco è presentissimo: vampate di fuoco avvolgono la fine del secondo atto e odore di zolfo resta in sala durante tutto l’intervallo. Sparisce, però, il paesaggio (anche se il mormorio della foresta rientra dalla buca d’orchestra) ed il magico viene ridotto alla distribuzione di catenine ed all’apparizione della croce nel finale. La scena unica viene integrata da proiezioni digitali. Non ci sono nudi integrali, se si eccettua una maxi-immagine di Leonardo Di Caprio (con il di dietro a tutto campo ma gli organi sessuali coperti da collante da imballaggio).
Markus Stenz concerta con abilità i Wiener Plilarmoniker , anche se si avverte qualche lentezza all’inizio del terzo atto. La formazione (ed il coro della Staatsoper) sono comunque splendidi: di gran livello gli ottoni (spesso carenti in Italia) ed ottimo l’assolo del violoncello.
Il protagonista è Peter Seiffert, ormai una delle migliori voci wagneriane su piazza (come si è constato nella recente “Valchiria” fiorentina). Ha un registro molto ampio, grande capacità di tenere il cento e di svettare (quando necessario) nonché un buon legato, tutte qualità che ha mostrato sin dal tremendo “Nein, länger trag ich nich de Qualen” con cui “esce” nella quarta scena del primo atto, specialmente nella parte centrale dell’aria (in sol maggiore). Tuttavia, ha due limiti: da un lato, è un attore mediocre (e poco credibile alla sua età e con la sua stazza nel ruolo dell’adolescente che deve dar prova di diventare uomo); da un altro la lunga frequentazione di Wagner gli ha fatto perdere quel belcantismo (quasi donizettiano) di uno Schreier o di un Araiza (interpreti del ruolo nel passato)– componente importante della vocalità di Max.
Petra Maria Schitnzer , moglie di Seiffert nella vita e a lui promessa (nella vesti di Agathe) nell’opera, mostra ancora una volta di avere un grandissimo spessore sia come cantante (affronta con serenità i trabocchetti di Wie nahte mir der Schlummer e primeggia nel terzetto e nel finale) sia come attrice (si è calata perfettamente nel ruolo). Si è meritata vere e proprie ovazione in Und ob die Wokie sie verhűlle
John Releya (Caspar) è un basso-baritono di qualità. Effiace sulla scena affronta l’aria di chiusura del primo atto (Schweig! Scweig!) in re maggiore-minore con grande agilità facendolo sfociare in un vero e proprio “allegro” in cui si mostrano i propositi di vendetta. E’ giovane; promette un’interessante carriera.
Ännchen è resa vocalmente molto bene da Aleksandra Kurzc: deliziosa nell’arietta Komm ein schlnker Bursch gegangen. Peccato che la regia la costringa in rapporti equivoci con i plurisessuati assistenti di Samiel. Markus Butter è un principe in doppiopetto come un banchiere di Francoforte, Gűnter Groissbőck un eremita che sembra un tardivo hippy; ambedue impeccabili localmente come il quartetto di fanciulle che dovrebbero fare da damigelle d’onore nelle nozze di Agathe .
Buoni i recintati : è loro mestiere.

Salisburgo, 23 agosto 2007-08-24
Giuseppe Pennisi

LA LOCANDINA

DER FREISCHŰTZ
(Il Franco Tiratore)
Opera in tre anni di Carl Maria von Weber
Libretto di von Friederich Kind
(adattato da Falk Richter)

Maestro concertatore: Markus Stenz
Orchestra: Wiener Philarmoniker
Regia: Falk Richter
Scene: Alex Harb
Costumi: Tina Kloempken

Agathe: Petra Maria Schnitzer
Ännchen……..Aleksandra Kurzak
Damigelle di Agathe: Hannelore Auer, Cornelia Sonnleithner, Yoko Ueno, Arina Holecek
Max Peter Seiffert
Caspar………..John Relyea
Principe………Markus Butter
Eremita……… Gűnter Groissbőck
Kuno………….Roland Brache
Kilian………….Alexander Kaimbracher

Ruoli recintati
Samiel…………Ignaz Kirchner
Suoi assistenti Rafael Stachowick, Sven Dolinski

NOZZE DI FIGARO A SALISBURGO

FESTIVAL DI SALISBURGO
LE NOZZE DI FIGARO

Le Nozze di Figaro è una delle opere di Wolfgang A. Mozart più eseguite, anche e soprattutto questa estate. Meno di due mesi fa ho trattato del suo significato nelle sviluppo del dramma in musica in occasione del nuovo allestimento messo in scena a Aix en Provence con una compagnia giovane, la Mahler la Mahler Chamber Orchestra guidata da Daniel Harding e la regia di Vincent Boussard. Alla Haus fǘr Mozart viene ripreso l’allestimento che un anno fa suscitò vive discussioni, di cui è già disponibile un DvD e che molti italiani hanno potuto vedere sul canale digitale “Classica”. Rispetto al 2006, però, sono cambiate molti elementi: dirige Daniel Harding (non Nikolaus Harnoncourt), sono cambiati diversi interpreti e la regia h subito ritocchi. Questa recensione, quindi, si sofferma principalmente sugli aspetti tecnico-professionali.
In primo luogo, la regia. Le Nozze di Figaro – lo ho scritto nell’ampia corrispondenza da Aix – si presta ad una vasta gamma di letture. Claus Guth (regia) le interpreta come una “commedia per adulti” in cui si scava nell’animo di quattro coppie in crisi. A tal fine trasporta l’azione all’inizio del Novecento, quasi in parallelo con la nascita della psicoanalisi. Le scene ed i costumi di Christian Schimdt ci portano in un palazzo tardo-vittoriano, ma – attenzione – non siamo nel serial televisivo britannico Upstairs Downstairs per decenni tema di arguta critica sociale. E’ un inizio del Novecento molto nordico – forse britannico, ma potrebbe essere anche scandinavo (certo non c’è nulla della solare Siviglia di un celebre allestimento di Luchino Visconti). In interviste (e in note al programma di sala), fa riferimento a Ibsen e a Strinberg . A mio avviso, riferimenti più appropriati sarebbero “Sorrisi di una notte d’estate” di Ignmar Bergman (il film che nel 1955 portò il regista svedese all’attenzione mondiale) e “Candida” di Gorge Bernard Shaw, Il film di Bergman aveva il Da Ponte-Mozart (oltre a Shakespeare ed al Rosenkavalier tra le sue fonti) e scavava nei rapporti di quattro coppie, riuscendo al tempo stesso a far ridere a crepapelle. In “Candida” – come è noto- Shaw smorza le tensioni di “Casa di Bambola” di Ibsen e gli stessi elementi di critica sociale finiscono nel sottofondo.
In questo palazzo, cosa è la molla della “folle giornata”? L’eros in tutte le sue declinazioni. Già Strehler aveva ancorato all’eros Le Nozze in una versione concepita per il teatro di Versailles e vista per decenni alla Scala e nel resto del mondo. Strehler, però, imperniava la carica erotica su Cherubino in crisi adolescenziale per eccesso di testosterone e la declinava con la critica sociale , restando in un ricco Settcento di maniera. Per Guth, l’eros (un angeletto, recitante, si aggira per il Palazzo e sfiora tutti i personaggi) non è innescato da Cherubino ma lo porta in sé (con una buona dose di carica) ciascun protagonista. E’ tanto intenso quanto inappagato (sino alla scena finale): tra le varie coppie (e non solo – c’è anche una scena in cui Susanna e la Contessa iniziano un rapporto a tre con Cherubino , interrotto dall’improvviso arrivo del Conte) cominciano più volte giochi sessuali che, nella “folle giornata”, restano incompleti. Questi aspetti sono trattati con molta eleganza: non c’è un nudo in scena- Cherubino resta due volte in mutande- Ma come da copione.
Come a Aix (e altrove) Harding dirige a memoria e con un arco largo del braccio al fine di cogliere sfumature (specialmente dagli archi e dai fiati) che potrebbero essere difficili da afferrare data l’insostenibile leggerezza degli organici mozartiani (alla prima del Don Giovanni – vale la pena tenerlo a mente – il salisburghese disponeva solo di cinque (5) violini). Dispone del vasto organico dei Wiener Philarmoniker ed accarezza la partitura quasi sensualmente evidenziando il delicato equilibrio tra tolleranza ed ambiguità. Accelera i tempi nei momenti più apertamente comici (quali la scena della scoperta di Cherubino nella stanza di Susanna alla fine del primo atto) per dilatarli in languidi abbandoni in quelli sentimentali e sensuali (le due principali arie della Contessa, il gioco erotico tra Figaro e Susanna nel giardino illuminato dalla luna). Ancora una volta, una concertazione di riferimento che a Salisburgo, in un teatro interamente chiuso, si avverte meglio e con un cast maturo, si avverte meglio che ad Aix. A 32 anni, con moglie e figlio, questo minuto direttore d’orchestra (con il gesto del braccio, però, larghissimo), appassionato di calcio e di pizza napoletana, si propone (ore che ha completato la trilogia Da Ponte-Mozart) come il Karl Boehm di questo primo scorcio di 21simo secolo. E dire che si era imposto all’attenzione mondiale concertando, ad appena 16 anni, Pierrot Lunaire di Schoemberg e veniva acquisito tra i nuovi maestri per la musica del Novecento e per la contemporaneità più innovatrice..
Buona e rodata la parte vocale – molti elementi del cast erano già nell’edizione dello scorso anno ed alcuni (Marie McLaughlin) in quella che da Aix è partita per un giro del mondo. In primo luogo , occorre ricordare Luca Pisaroni , un Figaro di altissimo livello sia per la maestria con cui gestisce la propria vocalità (è un basso-baritono dal registro molto ampio ed in grado tanto di agilità quanto di tenersi a lungo sul centro) sia per la prestanza fisica e la recitazione: è sulle maggiori scene internazionali da sei anni, come mai non lo si invita sui principali palcoscenici italiani?. La sua Susanna è Diana Damrau, giovane ma affermato soprano tedesco il cui repertorio spazia dal melodramma italiano ai ruoli di coloratura : grande presenza scenica , eccelle in Deh, vieni non tardar. Di livello il Conte (un Gerald Finley in gran forma e con perfetta dizione italiana) e la Contessa (Dorothea Rőschnann, che ne fa, come è d’uopo, un precursone della Marchallin di Strass-Hofmannsthal) . Pieni di temperamento la Marcellina di Marie McLaughlin ed il Bartolo Franz-Josef Selig Buone tutte la caratterizzazioni minori.
Veniamo, infine, a Cherubino, di cui ha indossato i panni Martina Janková, un giovane soprano della Repubblica Ceca che negli ultimi anni sta facendo una rapida carriera spaziando da Verdi al Novecento. Ha senza dubbio le physique du rôle (specialmente en travesti ) e tutta l’agilità richiesta dalla parte. E’, però, un soprano lirico puro, mentre all’adolescente in voglia di portarsi a letto tutte le donne del palazzo si addirebbe meglio un mezzo soprano – Come la Fredrica Von Stade dell’indimenticabile versione di Strehler- Bohem.






La Locandina
Le Nozze di Figaro
Dramma giocoso di quattro atti
Libretto di Lorenzo Da Ponte
Musica di Wolfgang Amadeus Mozart

Direzione musicale Daniel Harding
Regia Claus Guth
Scene e Costumi……………………… Christian Schmid
Luci……………………………………Olaf Winter
Orchestra Wiener Philarmoniker



Il Conte d’Almaviva Gerald Finley
La Contessa……………………………...Dotothea Rőschmann
Susanna…………………………………..Diana Damrau
Figaro…………………………………….Luca Pisaroni
Cherubino………………………………..Martina Jankova
Marcellina………………………………..Marie McLaughlin
Bartolo……………………………………Fraz-Josef Selig
Basilio…………………………………….Patrik Henckens
Antonio…………………………………...Gabor Bretz
Barbarina ………………………………..Eva Liebau
Un cherubino…………………………….Uli Kirsh
Coro………………………………………della Vienna Staatsoper
Salisburgo 24 agosto.

Giuseppe Pennisi

MAI SINISTRA FU PIU’ SPACCATA

I colpi, non tutti a salve, sparati durante questo periodo di metà agosto suggeriscono che , alla ripresa autunnale, il confronto politico sarà essenzialmente all’interno del centro-sinistra e riguarderà il futuro dello stato sociale. Una parte significativa della (risicata) maggioranza parlamentare ha ingoiato (a malincuore) un’intesa sulla previdenza a cui si deve comunque ancora dare corpo con strumenti legislativi appropriati. Non ha affatto mandato giù, però, quelle sezioni del Protocollo sullo Stato Sociale che riguardano il mercato del lavoro e gli ammortizzatori occupazionali. Ove fosse costretta a trangugiarlo, non lo digerirebbe. Ciò spiega le sortite clamorose di Francesco Caruso, le manifestazioni indette da Beppe Grillo e le dichiarazioni (più eleganti nella forma ma durissime nella sostanza) di molti esponenti di Rifondazione Comunista (e non solo).
Il confronto-scontro all’interno della sinistra riguarda non tanto il complesso di regole che vanno sotto il nome di legge Biagi quanto la norma primaria (si direbbe in termini giuridici) di cui la Biagi è essenzialmente un approfondimento ed una declinazione: la legge Treu (autorevole esponente dell’attuale maggioranza) approvata nel 1997 da un Parlamento di centro sinistra, mentre un Governo Prodi era alla guida del Paese. E’ la legge Treu che ha abolito il monopolio pubblico dei servizi per l’impiego e posto, quindi, le basi per una maggiora articolazione e dei servizi per l’impiego e delle forme di rapporto di lavoro quale declinata nella legge Biagi. Tanto la legge Treu del 1997 quanto la legge Biagi di circa quattro anni fa prevedevano, poi, un riassetto degli ammortizzatori sociali: il finanziamento di tale riassetto (proposto nella legislatura precedente) è stato ingoiato (su richiesta anche della sinistra reazionaria) da uno degli ultimi salvataggi Alitalia. Ora, dopo la maximanovra della scorsa finanziaria, nonostante l’Italia abbia il record della pressione fiscale le casse sono di nuovo vuote (pure a ragione di nuovi carrozzoni creati od in via di costituzione), tanto che nel Protocollo sullo Stato Sociale del 23 luglio scorso si punta meramente a una progressiva unificazione dei trattamenti di disoccupazione e mobilità e all'universalizzazione degli strumenti di integrazione al reddito, con la progressiva estensione e unificazione della cassa integrazione ordinaria e straordinaria.
Siamo, quindi, ad un duello a sinistra , un sanguinoso “Kramer contro Kramer” all’italiana che sta lacerando Governo e maggioranza. Non mancano soluzioni ai problemi posti sul tappeto. Ad esempio, alla tematica delle morti bianche sul lavoro si può rispondere non modificando la legge Biagi (che ha consentito di far uscire almeno un milione di uomini e donne dal sommerso) ma con un Testo Unico che semplifichi la ragnatela di norme sul lavoro: lo abbiamo sostenuto su Il Tempo nel maggio scorso ed è motivo di soddisfazione che una proposta analoga è in un saggio di Michele Tiraboschi nel numero agosto settembre di Formiche. Inoltre, nell’età dell’integrazione economica internazionale e della tecnologia, la riqualificazione dovrebbe essere il cuore degli ammortizzatori (come previsto, peraltro, in un ddl approvato dall’ultimo Consiglio dei Ministri tra la disattenzione anche dei diretti interessati).
Tuttavia, né il Testo Unico né la vera modernizzazione degli ammortizzatori interessano una sinistra reazionaria le cui motivazioni sono essenzialmente ideologiche: un apparato statale vasto e tentacolare che entri, in modo “impiccione” e “pasticcione” (come scriveva Giuliano Amato nel 1976) nelle vite degli altri.

ONEGIN A SALISBURGO

Festival di Salisburgo
Eugenio Onegin
Scene liriche in tre atti (sette quadri) di Kostantin Schilowski e Peter I. Ciajkovskij,
Musica di Peter I. Ciajkovskij,

Sesta delle 12 opere di Ciajkovskij, “Onegin” ha avuto soltanto di recente una buona diffusione in Italia Alla Scala, ad esempio, ci sono stati appena 5 allestimenti per un totale di circa 30 rappresentazioni, dalla “prima” diretta da Toscanini nel 1900 alla produzione importata dal Festival di Glyndebourne (dove era stato varata nel 1994) nel gennaio 2006. Il lavoro, però, è stato messo in scena in quasi tutti i maggiori teatri d’opera italiani negli ultimi tre lustri, principalmente nell’allestimento (grandioso ma tradizionale) prodotto dal Comunale di Bologna nel 1991. L’allestimento di Bologna decretò era stato costruito su Paolo Coni, della cui breve stagione ha rappresentato uno dei momenti più alti. Dalibor Jenis ha interpretato efficacemente “Onegin” a Trieste, a Roma ed altrove. Mirella Freni è stata per decenni la Tatjana di riferimento indiscussa e più commovente. Molte edizioni italiane (anche quella della Scala nel 2006) utilizzano la partitura (ad organico ridotto) del 1879, concepita da Ciajkovskij per alcune recite (da parte di giovani elementi) al Conservatorio di Mosca. L’allestimento al Festival di Salisburgo 2007, impiega il rimaneggiamento (per vasto organico e voci scaltre) del 1885 per il Bolshoi.
Un cenno all’intreccio. Onegin è uno scapolo troppo bello, troppo altero e troppo brillante per cogliere le occasioni che la vita gli offre. E’ stato, per un certo periodo, uno dei seduttori più noti della Pietroburgo-che-può; ora – ha appena 23 anni – lo cercano solo ragazze di dubbia reputazione; è afflitto da “ennui” esistenziale. Accompagna in provincia il suo miglior amico (il sedicente poeta Lenski) e rifugge l’amore della sedicenne Tatjana). Offende, in pubblico, Lenski tentando, ad una festa, di fare finta di sedurgli la fidanzata (Olga, sorella di Tatjana). Ne segue un duello dove dopo avere tentato una riconciliazione, uccide Lenski. Ripara all’estero per tre anni. Quando cerca di nuovo Tatjana, viene respinto poiché ormai donna matura , per quanto ancora di lui innamorata, ha deciso di restare fedele al proprio anziano marito. Non gli resta che continua a vivere non più con “ennui” ma con disperazione.
Ci si dimentica spesso che il racconto in versi di Puskin e l’opera di Ciajkovskij sono incentrate sia sulla solitudine dello zitello di lungo corso incapace di cogliere la felicità anche quando gli è a portata di mano sia sul contrasto tra i fermenti del mondo delle due coppie giovani e l’ambiente oppressivo della provincia russa e di quello falso ed ipocrita della San Pietroburgo (luogo dove si svolge l’ultimo atto). Siamo nella Russia imperiale tra il 1820 ed il 1830 quando si avvertono i primi segnali dell’inizio della lunga agonia dell’Impero. “Onegin”, inoltre, rispecchia la crisi esistenziale ed erotico-sessuale di Ciajkovskij più di molte altri lavori del compositore – il tentativo di sfuggire dalla propria omosessualità con un “matrimonio bianco” e la pazzia della moglie quando scopre le tendenze del marito. E’ in questo contesto che si spiega come dei personaggi del dramma in musica , soltanto una giovane donna, Tatjana, nella “scena della lettera” – si ribelli, con un atto di totale anticonformismo (“dichiararsi” non andare in sposa a chi le è designato dalla famiglia), alla società in cui vive.
La splendida (e morbosa) partitura di Ciajkovskij guarda alla grande musica francese ed italiana di fine Ottocento, distanziandosi dalla “scuola nazionale russa” allora in formazione. Anticipa, per molti aspetti, il Novecento, rompendo forme tradizionali e fondendo innovazione orchestrale e vocale ardita con musica folkoristica ed anche leggera (i ballabili, specialmente quelli del secondo atto).
L’allestimento di Andrea Breth (regia), Martin Zehetgruber (scene) , Slike Willert e Marc Weeger (costumi) trasferisce la vicenda dal 1820-1830 al 1985 circa (cioè agli ultimi anni del regime comunista in Russia). La scelta è intelligente in quanto giustappone ancora di più le due giovani coppie con elementi contadini della Russia di sempre, Filipevna) e con un mondo di gerarchi di partito e ufficiali porcelloni (c’è una buona dose di sesso delle salette accanto ai due saloni da festa del secondo e del terzo atto), mentre si annusa la presenza del Kgb. Durante l’introduzione orchestrale, ciascun dei tre atti è aperto da Onegin (di spalle rispetto agli spettatori) che vede su un televisore in bianco e nero binari ripresi da un treno che avanza lentamente, quasi senza meta. La produzione inoltre sfrutta tutta l’ampiezza della Grosse Festspielhaus ed il suo unico strumento tecnologico (un palcoscenico girevole che ha oltre 40 anni). Nel primo atto, forte il contrasto tra i campi di grano dove tra le spiga Lenski e Olga fanno l’amore e gli ambienti grigi degli interni. Nel secondo, la festa nella casa delle due ragazze e lo scontro verbale tra Onegin e Lenski è in una varietà di sale; il duello in un vasto ambiente grigio-nero. La festa del terzo atto è in una sala di specchi dove viene mostrato una società ormai stanca ed in disfacimento (unica eccezione l’anziano generale Gremin, marito felice di Tatjana). Il quadro conclusivo un vastissimo ambiente spoglio e triste: l’altro del palazzo di appartamenti dove vivono Gremii e Tatjana. Tutti i cantanti hanno le “physique du rôle” e recitano molto bene. Buona anche la dizione, grazie alla presenza di cantanti russi e di cantanti europei e nord-americani specializzati nel repertorio russo.
Daniel Barenboim guida i Wiener accentuando il clima scuro della transizione storica ed emotiva che fa da fondale alle “scene liriche”; specialmente scuri i violoncelli ed i fagotti a cui si giustappone la limpidezza degli archi e dell’arpa nei momenti di gioia dei “ragazzi” al primo atto e nel tentativo (mancato) di riconciliazione tra Onegin e Lenski prima del duello. I tempi, dilatati nella scena della lettera ed in quella del duello, vengono affrettati nelle due scene di festa e nella stretta finale (dove Barenboim) ci regala un finale davvero incandescente).
Tra le voci, in primo luogo, una scoperta: il giovane tenore canadese Joseph Kaiser – di grande presenza scenica ed indubbia avvenenza (necessaria per la parte) ha un registro molto ampio (da tenore lirico puro diventa senza difficoltà un tenore lirico spinto), un fraseggio perfetto ed un legato morbido. Affronta l’”arioso” del secondo quadro del secondo atto senza alcuna difficoltà, ma ancora più interessante è come gestisce “la scena”, di chiusura del primo quadro sempre del secondo atto V vashne dome!in cui passa con grande delicatezza dal bi bemolle al do.
Accanto a lui, il bel Peter Mattei (considerato l’Onegin perfetto di questi anni) appare scolorito: nei primi due atti ha avuto difficoltà di emissione (poteva essere un problema temporaneo della serata) per riprendersi nel terzo dove ha messo in gioco tutte le sue qualità di attore, unitamente al suo metro e 90 centimetri. Indubbiamente affascinate in jeans, maglione bianco e Rays Ban nel primo atto ed in grisaglia Anni 80 negli altri due, il timbro pare avere perso la trasparenza che mi colpi cinque anni fa al Festival di Aix en Provence.
Anna Samuil pare tagliata su misura per Tatjana. E’ un soprano lirico puro che avevo già apprezzato a Berlino nel ruolo di Eva dei Meistersinger wagneriani. Russa, si trova ancora più a suo agio nell’opera di Ciajkovskij . Ha avuto meritate ovazioni alla scena della lettera (Puskai pogibnu ya) nonostante un autorevole, ma temperamentale, critico italiano abbia lasciato la sala perché la lettera non veniva scritta a mano ma con macchina da scrivere sovietica Anni 70 (in linea con il resto dell’allestimento). Davvero regale nel terzo atto e nell’ultimo slancio appassionato con Onegin (tale da ricordare le inquadrature finali de “La Notte” di Michelangelo Antonioni).
Ekaterina Gubanova è un’Olga misurata (che fa percepire una certa freddezza di fondo; dal romanzo di Puskin sappiano che dopo la morte di Lenski non tarderà a trovare marito, avere figli e trascorrere una lunga esistenza nella provincia russa). Di livello le caratterizzazioni (Emma Sarkissian, Reneé Marloc, Ryland Davies).
Qualche parola a parte per Ferruccio Furlanetto (Gremin) . Appare solo nel primo quadro del terzo atto ed ha soltanto un’aria. L’applauso che ha ricevuto non è un premio alla carriera, ma per la carica psicologica e vocale che ha saputo dare a Gremin (principe nell’originale, generale in questa edizione), anziano e vissuto ma teneramente innamorato di Tatjana: il suo Lyubvi vsey vozrasti pokorni (l’amore non ha età: gli si deve soccombere ogni giorno) verrà ricordato come rendere grane e significativo un ruolo solo apparentemente piccolo.



LA LOCANDINA

Regia: Andrea Breth
Scene : Martin Zehetgruber
Costumi: Silke Willrett, Marc Wegger
Coreografia: Catharina Lűhr
Direzione musicale: Daniel Barenboim
Orchestra . Wiener Philarmoniker
Coro: Vienna Staatsoper

Larina Renée Moloc
Tatjana……………..Anna Samuil
Olga………………..Ekaterina Gubanova
Filipjevna………….Emma Sarlissián
Eugen Onegin………Peter Mattei
Lenski………………Joseph Kaiser
Gremin………………Ferruccio Furlanetto
Triquet…………… Royal Davis
Un capitano……….Sergej Kownir
Un attedente: Georg Nigl


Salisburgo, 25 agosto

Giuseppe Pennisi

BENVENUTO CELLINI A SALISBURGO

FESTIVAL DI SALISBURGO
BENVENUTO CELLINI
Opera in due atti di Léon de Wally e Henry Auguste Barbier
Musica di Hector Berlioz


Al pari delle altre opere di Berlioz per il teatro in musica, “Benvenuto Cellini” è un’opera “maledetta”; in effetti, il lavoro più rappresentato di Berlioz è “La Damnation de Faust”, concepito non come dramma in musica per la scena, non le sue opere pensate per il teatro. “Cellini” è, in ordine cronologico, la prima. Nel concepirla, Berlioz venne senza dubbio influenzato dal suo soggiorno a Villa Medici come vincitore del prestigioso “Prix de Rome” e dalla lettura dell’autobiografia dell’artista rinascimentale. Un’autobiografia metabolizzata in modo molto personale: si riconosceva in Cellini in quanto genio e sregolatezza in un mondo in cui soltanto pochi lo comprendevano, ma si legga pure con auto-ironia nei confronti sia di Cellini sia del contorno – dalla burocrazia vaticana, ai sicofanti e questuanti che la circondavano, al Papa in persona. Venne progettata inizialmente come “grand opéra” in cinque atti, poi come “opéra comique” in due atti con parti recitate e numeri musicali, ma debuttò infine il 10 settembre del 1838 come opéra pura e semplice (con i dialoghi sostituti da recitativi accompagnati) e tonfò miseramente (pare anche a ragione dell’inadeguatezza degli interpreti). Venne riesumata da Listz per il Teatro di Weimar. Ridotta ed articolata in tre atti, semplificata nell’organico e nelle scene di massa (che la piccola buca di orchestra ed il modesto palcoscenico di Weimar non avrebbero potuto accogliere così come inizialmente pensati); il successo fu decente- quattro repliche (ma la città aveva ed ha poca popolazione). Approdò infine a Londra, al Covent Garden, in una nuova edizione che non raccolse alcun successo, anche in quanto la camarilla del “partito italiano” si era organizzata per impedire, con fischi e proteste, questa incursione francese in un territorio che considerava loro riserva di caccia.
Berlioz vivente, venne ripresa solamente a Weimar nel 1856. Poche le riprese nell’Ottocento: in boemo a Praga, in tedesco a Berlino, Strasburgo, Vienna, Zurigo). Riappare in francese nel 1913 per l’inaugurazione del Théâtre de Champs-Elysées ma occorre aspettare sino agli Anni Sessanta perché ricominci a circolare, spesso in versione da concerto. In Italia si contano soltanto tre edizioni sceniche: alla Scala nel 1976 (importata da Covent Garden), a Firenze nel 1987 ed a Roma nel 1995.
Quali le barriere? In primo luogo, la scelta dell’edizione da mettere in scena: solo di recente, a cura dell’editore Bärenreiter si dispone di un’edizione critica della versione che venne rappresentata a Parigi nel 1838 (la più vicina alle intenzioni di Berlioz). In secondo luogo, le difficoltà musicali: un organico orchestrale vastissimo, numerosi solisti, un coro con ruolo primario, danze e mimi. In terzo luogo, la complessità di una messa in scena in una Roma rinascimentale nei giorni tra il Carnevale ed il Mercoledì delle ceneri, declinata in luoghi noti come i Palazzi Apostolici, Piazza Colonna ed il Colosseo. Il canovaccio – si tenga presente – pare semplice. Nella Roma del Rinascimento (l’azione è spostata da Firenze dove venne commissionato e creato il Perseo, alla città papale), Benvenuto Cellini è genio e sregolatezza. Ambisce a sposare la figlia del tesoriere del Papa Clemente VII (che apprezza la sua arte) ma ha pessime frequentazioni nelle taverne della suburra e di Trastevere). Per legittima difesa, uccide il sicario di un rivale, Fieramosca (sia nella professione sia in amore). Condannato a morte, può essere graziato soltanto se termina il Perseo entro poche ore; gettando tutti i suoi lavori nella fornace della sua bottega al Colosseo, ottiene sia la grazia sia la sposa. E’ denso, però, di intrighi, personaggi secondari, colpi di scena. Nel terzo quadro del primo atto dell’edizione critica, ad esempio, si volgono contemporaneamente uno spettacolo di mimi (teatro nel teatro), una festa di piazza (con danze), una sommossa popolare contro la burocrazia papale, un doppio tentativo di rapimento, un duello (con un morto in palcoscenico). Non è certo facile gestire solisti e masse mentre l’orchestra è infuocata ed un doppio duetto scivola in un quartetto che si trasforma in un sestetto ed in un concertato. Le difficoltà sceniche e vocali imposero nel gennaio 1995 a Roma (regia: Gigi Proietti, scene e costumi: Quirino Conti) di dividere il lavoro in quattro atti, con tre intervalli. Rendendo la serata di proporzioni wagneriane :l’opera iniziava alle 19 e terminava dopo la mezzanotte.
Una messa in scena di “Cellini” è, dunque, un evento. Andiamo alla produzione (si segue l’edizione critica Bärenreiter della prima versione parigina) che ha debuttato a Salisburgo e si vedrà tra breve anche a San Pietroburgo e a Parigi (nonché forse a New York ed in Spagna). L’allestimento è stato creato per il tenore americano, Neil Shicoff- idolo dell’Opera di Vienna tanto che, suscitando non poche polemiche, il Cancelliere austriaco avrebbe voluto chiamarlo alla Sovrintendenza. Il tenore, però, si è ammalato ed è stato sostituito dal giovane, e valente, Burkhard Fritz; non è escluso che Shicoff appaia nelle riprese in un ruolo impervio che intende cantare da tempo. Naturalmente non sarebbe bastato Shicoff per allestire “Cellini”.
Regia e scene sono state affidate Philipp Stőlzl, noto soprattutto per i video-clips di Madonna e di Mick Jagger. Quindi, non c’è alcuna Roma rinascimentale di cartapesta come nel memorabile allestimento romano di Proietti-Conte ma siamo in un mondo tra la “Metropolis” di Fritz Lang e le fantasie disneyane dei tempi di “Biancavene e i sette nani”. Non manca un pizzico di Mago di Oz. Cellini viaggia in elicottero e Papa Clemente VII in coupé d’epoca violetta, accompagnato da prelati e guardie svizzere che si muovono come caricature dei “gay”. Il tesoriere dello Stato Pontificio è un ragioniere generale da operetta. Fieramosca un travet in mezze maniche. Ascanio, il braccio destro di Cellini, un robot che canta la grande aria “Mais qu’ ai-je donc” con la testa staccata dal resto del corpo. E via discorrendo.
L’appartamento del tesoriere ha un’enorme terrazza da cui si ammirano grattacieli, dischi volanti, aeromobili di vario tipo e fuochi d’artificio come se si fosse alla festa di Piedigrotta. Piazza Colonna (dove avviene la scena centrale del carnevale) sembra tratta da un film dell’espressionismo tedesco Anni 20; è attraversata da treni metropolitani a più livelli, mentre si svolge il teatro nel teatro, la sommossa, il duello e quant’altro. Il Colosseo è un enorme fucina postmoderna dove non mancano fuoco e scintille. Secondo alcuni critici, questo allestimento avrebbe estasiato Berlioz. Resto perplessi. Indubbiamente, viene accentuato il “comique” Ma c’è già tanta ironia in Berlioz e nei suoi librettisti (nei confronti del potere, della burocrazia e della stessa idea iper-romantica dell’eroismo) che le trovate di Stőlzl e dei suoi collaboratori non solo sono eccessive ma distolgono da un ironico che tanto più morde quanto più è delicato. In ogni caso, apprezzare l’ironia richiede comprendere il testo: i cantanti (scelti tra le migliori voci su piazza ma in gran misura del mondo tedesco o dell’Europa orientale) hanno serie difficoltà a fare capire il loro francese - anche i due francesi in ruoli principali (Laurent Naouri, Fieramosca, e Isabelle Cals, Ascanio. I sovrattitoli (in tedesco ed in inglese) sono strumento essenziale per capire l’azione in quanto pare che gli interpreti cantino in una lingua uralica (come il coreano).
Lo spettacolo (nonostante la dizione) è riscattato dagli aspetti musicali. Gergiev concerta in modo incalzante, senza mai rallentare la tensione, e tira fuori vero e proprio fuoco dai Wiener, rendendo credibile nel golfo mistico anche ciò che in scena suscita seri dubbi. Ottimo il coro guidato Andreas Schűller; in questo “Cellini” assume il vero ruolo di protagonista, specialmente nelle scene della taverna, del carnevale romano e nel grandioso finale. E’ un coro che non solo canta ma recita, mima e danza. Segno di una grande professionalità non solo di un evento speciale come la realizzazione scenica dell’opéra comique di Berlioz.
Nel programma iniziale, Burkhard Fritz avrebbe dovuto “coprire” Shicoff e cantare in una sola replica. E’ ancora giovane e si sta affermando adesso nei maggiori teatri di lingua tedesca (Amburgo, Vienna) dopo un lungo tirocinio in provincia. E’ una delle rivelazioni di questo Festival: impiega soprattutto il registro di centro spingendosi negli acuti quando richiesto dalla parte, ad esempio nei duetti con Teresa. Ha mostrato un paio di incertezze- peccati veniali data la difficoltà del ruolo e la fatica fisica che comporta (è quasi sempre in scena e canta quasi sempre o da solo o con altri). Teresa è la giovane lituana Maja Kovalevska, soprano lirico puro in grado di agilità (già nella romanza di apertura Ah! Que l’amour une fois dans le couer) ; ascende molto bene, qualche inciampo nel discendere. E’ una delle prime volte che si deve cimentare in francese.
Altra rivelazione Isabelle Calls, un mezzosoprano chiamato come “cover” ed in scena soltanto alla recita del 26 agosto a cui ho assistito. Nonostante le bislacche richieste della regia, ha superato tutti i trabocchetti di Mais qu’ ai-je donc. Dovrebbe essere presa in considerazione per i difficili ruoli rossiniani e donizettiani di cui c’è richiesta ma poca offerta. Laurent Naouri e Brindley Sherratt sono dei veterani; il Festival scommetteva sul sicuro nell’affidare loro i ruoli di Fieramosca e di Calducci. Ancora giovane Mikhail Petrenko ; mi ha lasciato un’ottima impressione in ruoli wagneriani (soprattutto Hunding, a Aix; lo riprenderà a Salisburgo al Festival di Paqua). E’ un Papa Clemente VII misurato nel gesto ed in grado da giungere ai gravi richiesti dal ruolo. E’ più che una promessa.



LA LOCANDINA
Regia e scene Philipp Stőlzl
Costumi Kathi Maurer
Luci ………………………………….Duane Schuler
Video ……………………………… Stefan Kessner, Max Stolzenberg
Coreografia………………………….Mara Kurtschka


Benvenuto Cellini…………………….Burkhard Fritz
Fieramosca Laurent Naouri
Giacomo Balducci…………………….Brindley Sherratt
Papa Clemente VII Mikhail Petrenko
Teresa………………………………….Maija Kovaleska
Ascanio……………………………… Isabelle Cals
Francesco………………………………Xavier Mas
Bernardino……………………………..Roberto Tagliavini
Sung-Keun Park……………………….Oste
Adam Plascheta………………………..Pompeo
Ballerini : Gabrio Gabriel, Francesco Pedone, Marie Seeger, Tobias Wozniak
Mimi: Silke Adolfo, Andy Arndt, Thomas Dűrrefort

Direzione Musicale: Valery Gergiev
Wiener Philarmoniker
Coro della Staatsoper diretto da Andreas Schűller

LA GHIGLIOTTINA DEL CONSOCIATIVISMO

Nella conferenza stampa prima di partire per le vacanze, nonché in dichiarazioni date sulla costa Toscana e sull’Appenino Emiliano, Romano Prodi ha promesso un autunno caratterizzato da salda ripresa economica. A metà agosto, però, i dati sull’andamento dell’economia reale dell’Ue in generale, e dell’Italia, in particolare, hanno evidenziato una brusca frenata. In primo luogo, secondo Eurostat, il tasso di aumento del pil dell’Ue tra aprile e giugno è stato dello 0,3% allo 0,7% segnato nel primo trimestre ed allo 0,9% riportato negli ultimi tre mesi del 2006. Più preoccupanti, le previsioni diramate dai 20 maggiori istituti di ricerca econometrica internazionali (tutti privati, nessuno italiano): la “ripresina” del 2005-2006 sarebbe già terminata, il tasso d’aumento del pil dell’Ue su bassa annua tornerebbe dal 3% circa (2007) a poco più del 2% - quello dell’Italia del 2% (2007) a poco più dell’1,5%. Ci si allontana dall’obiettivo (definito nel marzo 2000 a Lisbona dai Capi di Stato e di Governo dell’Ue) di rendere l’Europa l’area più dinamica dell’economia mondiale. Non solo ma previsioni al 2020 dell’Università di Harvard (Prodi farebbe bene a studiarle) sottolineano che se non si cambia strada in materia di politica per la famiglia, l’Italia è condannata ad un tasso annuo di crescita del pil dell’1,8% - ben inferiore al 2,5% che caratterizza le altre economie mature e i Paesi di maggior peso nell’Ue: su un arco di 20 anni, perdere quasi il 30% della crescita potenziale vuol dire arretrare di brutto nelle graduatorie dei Paesi industriali ad alto reddito.
Cosa fare? In questa rubrica abbiamo spesso indicato soluzioni a problemi puntuali. Alla ripresa autunnale, si pone un problema di metodo (nei rapporti con gli alleati di Governo e con le parti sociali): concertare le linee di politica economica da presentare al Parlamento non consociare (dare pezzi e bocconi a questa od a quella espressione di interessi legittimi) al fine di acquisire un consenso instabile ed inefficiente.
La differenza tra concertazione e consociazione è il tema di fondo del volume di Paolo Peluffo (che Prodi in persona ha posto alla guida di un importante Dipartimento della Presidenza del Consiglio): il volume riguarda Carlo Azeglio Ciampi, che Prodi ha voluto al proprio fianco come Ministro (“Ciampi- L’Uomo e il Presidente”, ben 532 pagine a stampa fitta). Nè Ciampi nè Peluffo sono contigui a quella che oggi è l’opposizione. Il libro è un documento molto speciale (chiaramente di parte, come lo sono tutte le testimonianze, e di centro-sinistra) in cui si testimonia su un periodo difficile della vita economica e politica del Paese, per molti aspetti analogo a quello che travaglia l’attuale coalizione di Governo. Il filo conduttore è la concertazione come “un metodo per governare” e la differenza profonda, sia concettuale sia di operativa politica, tra gli inciuci grandi e piccoli all’interno di una litigiosa coalizione per mantenerla in vita facendola tirate a campare. Di “consociazione” se ne è fatta moltissima in questi ultimi 18 mesi: specialmente accordi di basso livello (come quello sulla previdenza e quello che si profila sul riassetto della Legge Biagi) per soddisfare uno schieramento che preferisce le intemperanze della piazza ed a cui le responsabilità di Governo stanno strette come corazza di misura troppo piccola. Ciò ha minato sia la tenue coesione interna della coalizione (sempre sull’orlo di una crisi) sia l’immagine internazionale dell’Italia. Una “concertazione” alta , mirata agli obiettivi a lungo termine del Paese, è essenziale per rimettere in marcia il Governo e far sì che utilizzi gli strumenti a sua disposizione per cercare di rilanciare l’economia.
Altrimenti, meglio ammettere che si è arrivati al capolinea. A scendere tutti. A cominciare dal conducente.

LA CRISI DELLE BORSE E LA POLITICA DELLA BCE

Il 6 settembre si riunisce il Consiglio della Banca centrale europea (Bce). Il 18, il Comitato per le operazioni sul mercato aperto , organo di governo della Federal Riserve (Usa). Mentre si avvicinano queste due scadenze, cresce il grido di dolore per un ritocco all’ingiù dei tassi d’interesse – o almeno una pausa nella strategia di aumenti graduali in corso da mesi. Particolarmente duro un attacco all’intera politica monetaria americana negli anni i cui Greespan era al timone della Fed sferrato in un’analisi de www.lavoce.info ripresa con grande rilievo da alcune testate nazionali di informazione punta il dito. Anticipa critiche analoghe nei confronti della Bce e di rappresenta l’Italia in seno al Consiglio di quest’ultima: il Governatore della Banca d’Italia Mario Draghi. Greespan e Draghi non hanno certo bisogno di difensori di ufficio. Men che meno da un foglio web di orientamento quotidiano come il nostro. Tuttavia, è importante chiarire alcuni aspetti essenziali della crisi dei Cdo ((Colleteralized debt obligations – prodotti derivati di cui i mutui inesigibili sono , in varia misura, una componente). in quanto i colpi (a salva) nei confronti di chi ha responsabilità della politica della moneta, possono avere un obiettivo differente: coprire responsabilità politiche ben più gravi.
L’ex-Presidente della Federal Riserve Alan Greenspan ha una responsabilità specifica: il discorso del 23 gennaio 2004 alle casse di risparmio (istituzioni tra le più coinvolte nei mutui) in cui le invitava ad avere più fantasia. Accortosi che l’invito portava ad eccessi, lo stesso Greenspan, nell’autunno 2005, raccomandò di andarci piano: si profilava già la crisi che sarebbe scoppiata questa estate.
Prima di venire a fatti più vicini a casa nostra è utile chiarire alcuni punti anche sulla base dell’esperienza di avere passato oltre tre lustri a Washington in anni di forte espansione della spesa pubblica e del deficit conti con l’estero Usa nonché del tracollo del sistema monetario e finanziario definito nel 1944 a Bretton Woods.
In primo luogo, non c’è dubbio che la determinante primaria delle disfunzioni della finanza internazionale (e non solo) è il disavanzo della bilancia delle partite correnti Usa (800 miliardi di dollari , ed in continua crescita): le crisi dei subprime è un tassello di queste disfunzioni. A sua volta, l’enorme deficit dei conti con l’estero Usa ha le sue radici nella politica economica condotta (nonostante i cambi di Presidenza alla Casa Bianca e di maggioranze in Congresso) con estrema linearità bipartisan all’insegna di quello che un tempo si chiamava benign neglect (“me ne infischio del resto del mondo”). Negli Usa (come altrove), la politica economica ha tre componenti: a) la politica della moneta; b) la politica di bilancio e c) la politica dei prezzi e dei redditi. La terza (con l’eccezione di pochi comportati di competenza federale) è quasi interamente sotto il controllo dei singoli Stati dell’Unione. La politica di bilancio – molti europei hanno difficoltà a metabolizzarlo – nasce (e finisce) nel Congresso (in gran misura in seno alla Commissione Finanze e Tesoro della Camera): la Casa Bianca non presenta qualcosa di analogo alla finanziaria italiana, alla loi des finances francese, al budget britannico, ma il Presidente può apporre il proprio veto al bilancio confezionato dal Congresso, il quale, a sua volta, può respingerlo a maggioranza qualificata. L’origine principale del disavanzo dei conti con l’estero e delle sue disfunzioni (tra cui i Cdo con subprime) è nell’enorme avanzata della spesa federale (approvata da ambedue gli schieramenti presenti in Congresso) non compensata da un aumento delle entrate fiscali (di cui nessuno ambisce gloriarsi di fronte agli elettori).
Una politica monetaria restrittiva (invece che “accomodante” specialmente dopo l’11 settembre 2001) avrebbe risolto il nodo di fondo? Ne dubito non tanto perché lo dicono modelli econometrici indipendenti – come il LINK creato da Nobel Lawrence Klein- ma perché l’esperienza di parte degli Anni 70 fu che una strategia del genere condusse alla stagflazione negli Usa. Con implicazioni che per l’Europa del primo scorcio di questo secolo sarebbero state gravissime. Anche ove Greespan avesse voluto imporla, ci sarebbe riuscito data la struttura federale della Fed? Ne dubito viste le esigenze di crescita soprattutto dopo l’11 settembre 2001 e sapendo quanto le Banche Federali di Riserva sanno far sentire la propria voce nelle riunioni del Comitato per le Operazioni sul Mercato Aperto (come quella in programma il 18 settembre).
Veniamo ora ai fatti europei e nostrani. In primo luogo, dal 2001 la Bce ha tenuto una politica monetaria espansiva che ha comportato tassi d’interesse reali inferiori a quello che , in termini tecnici, viene chiamato il tasso d’interesse sui consumi (stimato sul 2,5% per un Paese maturo come l’Italia). Lo ha fatto nel contesto di una vasta espansione della liquidità a livello mondiale – come dimostrato dalle forti eccedenze delle bilance dei pagamenti dei Paesi esportatori di petrolio, della Cina e molti altri Paesi emergenti. Un’ampia liquidità a livello macro non vuole necessariamente dice che ci sia anche a livello micro: Kevin Warsh, a lungo Governatore della Fed, sottolinea che a livello micro la liquidità dipende più dalla fiducia , dall’elemento rischio che dalla disponibilità di mezzi. E’ quanto si è verificato a ragione del pasticciaccio brutto del subprime. Nuova immissione di liquidità potrebbe avere effetti solo di breve periodo, se – come si diceva un tempo – “il cavallo non beve”.
In Italia, l’intervento pubblico “impiccione” e “pasticcione” ha aggravato qualsiasi crisi di fiducia importata a ragione dei Cdo. Inoltre, la politica dei prezzi e dei redditi e la politica di bilancio si muovono in maniera apposta alla politica delle moneta. Per i prezzi amministrati è stata annunciata una stangata per settembre. I redditi delle famiglie a livello medio vengono invitate a fuggire dagli strumenti normali di risparmio (ed a rifugiarsi in operazioni tipo Cdo) dalle minacce di nuove tasse sui redditi da capitale. La politica di bilancio continua ad essere un colabrodo (nonostante il buon andamento delle entrate che risente ancora delle misure approvate la precedente legislatura).
Prima di sparare sulle autorità monetarie, metta un po’ d’ordine in materia di prezzi, redditi e bilancio e dell’accavallarsi di authority.

LE PENSIONI E LA SVOLTA DEL GAMBERO

La lettera del Presidente del Consiglio Romano Prodi al periodico dello Spi (il Sindacato pensionati d’Italia della Cgil) ha un significato politico forre. Non solo viene inviata dall’inquilino di Palazzo Chigi (e non dal Ministro del Lavoro e della Previdenza Sociale) ma è diretta agli iscritti allo Spi , oltre un quarto dei quali ha compreso che saranno i loro figli a pagare il costo dell’accordo sulla previdenza dello scorso luglio tanto nell’immediato (con contributi più elevati) tanto nel futuro (con assegni previdenziali più risicati).
Il Tempo è stato il primo quotidiano ad avvertire che si prendeva ai più poveri per dare ai meno poveri. Il 4 agosto lo ha scritto Rossana Rossanda su Il Manifesto . Il 26 agosto, al rientro dalle ferie, Prodi ha trovato sulla scrivania un editoriale di Francesco Gavazzi in cui si riprendeva quanto scritto da Il Tempo il 21 luglio (Pensioni: vantaggio di pochi, danno di molti) ed il 30 luglio (La scalinata peggio dello scalino); argomentazioni analoghe venivano fatte dal gruppo di economisti de La voce.info .
Se l’accordo diventa legge, gli aumenti delle pensioni minime, non saranno a beneficio delle famiglie più povere — cioè il 10% più povero nella scala dei redditi. Pochi fondi andrebbero agli otto milioni di pensionati che non arrivano a 750 euro al mese e la gran parte andrebbe alle famiglie di lavoratori che beneficerebbe anche degli scalini (ossia di potere continuare a fruire di pensioni di anzianità in età relativamente giovane). Il costo dell’operazione verrebbe posto a carico dei 4 milioni di precari (Il Tempo dell’8 agosto) in gran misura figli delle famiglie nell’ultimo 10% della scale dei redditi, quelle davvero più povere proprio in quanto – lo rivelano le indagini del Ministero del Lavoro – ancora oggi sono le relazioni parentali ed amicali a portare al contratto a tempo indeterminato.
C’è ancora di più. In primo luogo, senza un riassetto dei coefficienti di trasformazione (per convertire in pensioni annuali i montanti di contributi accumulati), la spesa previdenziale pubblica minaccia di aumentare in un lustro dal 14% al 17% del pil; quindi, i giovani (particolarmente delle famiglie più povere) devono aspettarsi pensioni ancora più basse. Inoltre, l’accordo demolisce un pilastro delle richieste formulate dello Spi sin dal 1978 (ben lo sanno i rappresentanti Spi in seno a quella che allora era la Commissione Castellino per la riforma del welfare): la separazione tra previdenza ed assistenza (diventata legge nel 1989). E scardina i principi di base del sistema contributivo che si sta faticosamente tentando di mettere in piedi (sulla base di un vasto consenso anche internazionale) dall’aprile 1995.
Nella lettera allo Spi parla di “svolta” che il Governo da lui presieduto avrebbe fatto. Sa che è la “svolta del gambero” - all’indietro di 13-30 anni (a seconda che si parta dalla riforma del 1995 o dai lavori della Commissione Castellino). Sa pure che la coalizione da lui guidata ha vinto per 24.000 vinto e che lo Spi ha oltre 3 milioni di iscritti. Molti dei quali sono perplessi su quanto rischia di venir perpetrato a danno dei loro figli. Se l’accordo viene declinato in norme dello Stato.

martedì 21 agosto 2007

MENO POLTRONE E FANTASIA PER ARGINARE I DANNI USA

Il Ministero dell’Economia e delle Finanze (Mef) ha annunciato che a ragione degli effetti in Italia della crisi dei mutui subprime (e relativi Cdo), il pil italiano crescerà, nel 2007; dell’1.8% , non del 2% come previsto nel Dpef di sei settimane fa. Ha avvertito che si tratta di una stima preliminare che verrà precisata nell’aggiornamento del Dpef a fine settembre. Utilizzando un modello semplificato, e facendo riferimento al “consensus” (i dati dei sintesi dei 20 maggiori previsori privati internazionali), arrivo a conclusioni meno ottimiste tanto per il 2007 (ormai agli sgoccioli) quanto per il 2008 (e per la relativa manovra di finanza pubblica): l’anno prossimo il tasso di crescita del pil si porrà verosimilmente al di sotto dell’1,5% - un terzo della decelerazione rispetto alle stime del Dpef del 28 giugno è da attribuirsi alle ricadute della crisi del subprime. Ciò implica una manovra di circa 15-20 miliardi di euro per restare negli obiettivi del piano di rientro concordato con l’Ue. Ossia una nuova stangata di tagli ed aumenti tributari. E’ bene esserne consapevoli sin da oggi.
E’ anche bene avere contezza dei rischi di previsione. Le stime riflettono un quadro sostanzialmente di crescita sostenuta dell’economia mondiale (al traino dell’Asia) ed un rallentamento moderato dell’economia Usa. Un lavoro ancora non pubblicato, e redatto in lessico molto tecnico, di due dei più alti dirigenti della Federal Reserve – Donald Kohn, il vice di Ben Bernanke, e Karen Dynan, capo del servizio studi – traccia un contesto meno incoraggiante: il subprime, incentivando la crescita dei prezzi delle case, ha portato l’indebitamento medio delle famiglie Usa del 60% ad oltre il 100% del reddito familiare lordo annuo. Oltre alle conseguenze personali (aste forzate di prime case) , ciò comporta una frenata a consumi ed ad investimenti da parte delle famiglie (con ricadute sul resto dell’economia).
Ciò che più disturba è che la crisi si sarebbe potuta evitare. Dal 2001, ogni anno l’equivalente Usa dell’Uppi (l’associazione dei piccoli proprietari immobiliari) lancia avvertimenti sui rischi del subprime . In Aprile Bernanke, parlando all’equivalente Usa della Confedilizia, ha avvertito che a ragione dell’avvicinarsi di una crisi del subprime a fine 2007 i prezzi medi delle case sarebbero stati più bassi di quelli di fine 2006; a fine maggio, in un discorso alla Borsa merci di Chicago, Bernanke ha ancora una volta lanciato avvertimenti. Alcuni operatori hanno recepito il messaggio: l’hedge fund Balestra Capital si è liberato all’inizio dell’anno di 10 milioni di Cdo e la sua valorizzazione di mercato è cresciuta rapidamente nelle ultime 3 settimane, mentre la Borsa in generale inciampava. Molti altri, la maggioranza, sono stati sordi agli avvertimenti: oggi sono sotto accusa non solo le agenzie di rating ma anche la stampa e la televisione economica (specialmente la Cnbc) che non solo hanno ignorato il tema ma messo in onda, sino alla primavera scorsa, lunghe interviste rassicuranti di Angelo Mozzilo, amministratore delegato di Countrywide (uno dei maggiori istituti specializzati in subprime – oggi sulla via dell’amministrazione controllata). Ignoranza; scarsa deontologia, connivenze? Risponderanno inchieste iniziate negli Usa in questi ultimi giorni.
Tornando ai problemi nostrani, nel pagare i costi della crisi, dobbiamo chiederci se non è giunto il momento di ripensare il nostro barocco sistema di regolazione a vigilanza del risparmio e di andare verso una unica authority (riducendo molte poltrone e molti accavallamenti) come hanno già fatto 15 dei 28 Paesi dello Spazio Economico Europeo.

QUESTA FINANZA HIGH TECH CHE IGNORA LA MTV GENERATION

Quali gli effetti della crisi del subprime sui giovani – negli Usa ed in Europa? Il tema dell’impatto sull’atteggiamento della generazione che si avvicina alla Borsa è stato trattato estensivamente in occasione del crollo dei mercati il 19 ottobre 1987. Ci fu allora il timore che si sarebbe allontanata dal mercato azionario quella che veniva chiama la “Y generation”, allora ancora adolescente. Molti padri di famiglia cercarono di correre ai ripari: ad esempio, appena i miei due figli raggiunsero la maggiore età (diversi anni dopo il venerdì nero del 19 ottobre 1987) li dotai di un fondo con il quale cominciare insieme (la consultazione è sempre utile) ad abituarsi al mercato mobiliare. In effetti, la “Y generation” del 1987 è tornata alla Borsa (tanto negli Usa quanto più lentamente in Europa) grazie ai forti aumenti delle quotazioni (risultato di quelli degli utili aziendali) che hanno caratterizzato gli Anni 90 e l’inizio del 21simo secolo. La “Y generation” di allora è la “MTV generation” di oggi, quella cresciuta negli ultimi dieci anni in parallelo con lo sviluppo della televisione e della sempre maggiore scelta che si avrà quando anche in Italia il digitale terrestre sarà in piena azione.
La Kpmg ha condotto un sondaggio tra promotori finanziari e gestori alcuni mesi fa (prima quindi che di crisi del subprime si parlasse nei media) . Soltanto un quinto hanno sviluppato prodotti specifici per la “MTV generation”, specialmente nel settore della previdenza, campo in cui i giovani hanno disperatamente esigenza in quanto molti Paesi europei stanno trasformando i loro sistemi pubblici da “retributivi” (le spettanze sono computate sulle retribuzioni) e “contributivi” (le spettanze dipendono dai contributi) con una drastica riduzione degli assegni che in vecchiaia si riceveranno: il 30-40% dell’ultimo stipendio a 70 anni (l’età della pensione verso cui si viaggia in Europa) per un’aspettativa ulteriore di vita di 25-30 anni (se continuano i progressi in atto). Il 28% dei promotori e dei gestori hanno risposto che ci penseranno tra cinque anni. L’altro aspetto della medaglia è che gli strumenti “finanziari” di cui la “MTV generation” pare avere maggiore conoscenza sono il libretto degli assegni e le carte di credito – consumo, quindi, piuttosto che investimento.
Partendo da questi dati si possono fare alcune congetture, differenziando tra giovani americani ed europei. I primi sono, in linea di massima, più smaliziati in termini di mercato azionario; la crisi del subprime ha rappresentato per molte delle loro famiglie la perdita dell’abitazione, i Cbo (Collateral debt obligations- titoli derivati in cui i subprime vengono impacchettati) hanno il sapore dell’imbroglio e dello sciacallaggi; lo stesso intervento della Fed sul tasso di sconto viene letto come strumento di sciacallaggio; istituzioni come la Sec (nella propria funzione di monitoraggio sulle compagnie di rating) non escono molto bene dalle ultime vicende. Tuttavia, l’America giovane ha sempre creduto nella Borsa e, se verranno adottati i correttivi che appaiono necessari, la caduta di fiducia sarà breve.
Più serio il problema in Europa. Non solamente i giovani europei hanno meno dimestichezza con la finanza di quanto ne hanno i loro coetanei Usa a ragione di un sistema di formazione obsoleto, ma pochi media hanno presentato un quadro equilibrato degli avvenimenti. Da un lato, c’è chi ha parlato di autodistruzione del capitalismo. Da un altro, c’è chi ha nascosto i fin troppo evidenti errori. Sono scettico su quanto possa fare l’Università. Le leve sono a) la correttezza di informazione ed analisi (che si ha soltanto in aziende editoriali pure) e b) una vasta attività di formazione diretta ai giovani (e che in questo campo potrebbe e dovrebbe essere anche supportata da programmi regionali finanziati in partnership con la Commissione Europea”.

Le conseguenze dei mutui Usa sulle tasche degli italiani da l'occidentale del 21 agosto

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Quali le implicazioni per l’Italia dopo la crisi dei mercati che a Ferragosto ha travagliato tutte le maggiori piazze e quale risposta può dare il Governo per risolverla? Per il momento, il Presidente del Consiglio Romano Prodi ha cercato di tranquillizzare il colto e l’inclito affermando che la situazione si sta tormando e il Ministro dell’Economia e delle Finanze Tomaso Padoa-Schioppa (TPS), attraverso un articolo, ha ricordato agli italiani la virtù dell’austerità.
Prendiamo allora avvio dalle prediche di TPS: austerità vuol dire una nuova manovra di finanza pubblica con aumenti degli oneri fiscali e parafiscali e qualche ritaglio alla spesa. Le prime stime degli effetti del pasticciaccio finanziario iniziato negli Usa ma diffusosi nel resto del mondo sono un rallentamento del pil, il cui aumento, in Italia, non supererebbe l’1,5% nel 2008. Per restare in linea con gli obiettivi del Dpef ciò vuole dire una manovra di 25-30 miliardi di euro. Stangata non da poco dopo quella dell’anno scorso. Con in più il rischio che, dando la colpa alla crisi dei mutui Usa a clienti inesigibili, si potrà infilare qualche voce aggiuntiva di spesa tra le tante che chiedono i Ministri, soprattutto quelli della sinistra reazionaria (il termine appropriato per chiamare quelli che si sono autoproclamati “sinistra radicale”) . Quindi prepariamoci a stringere la cinghia mentre nascono altri carrozzoni (come l’agenzia per la cooperazione allo sviluppo e l’agenzia per la formazione della pubblica amministrazione).
Andiamo ora alla seconda domanda. L’Italia non è che un piccolo elemento nel contesto economico internazionale. La determinante primaria della crisi ( di cui i titoli “derivati” che contengono mutui non esigibili è unicamente una delle molte dimensioni) risiede nel dislivello tra consumi da un lato, e risparmi e investimenti negli Usa dall'altro (dove mediamente ciascuna famiglia ha uno stock di debiti che supera il reddito complessivo annuo): la bilancia dei pagamenti americana ha un disavanzo corrente di 800 miliardi di dollari che viene finanziato attirando capitali dal resto del mondo. A tal fine sono stati inventati prodotti finanziari derivati sempre più complessi (e sempre meno trasparenti) che hanno invaso il pianeta (solamente quelli collegati ai mutui non esigibili sarebbero circa 600 miliardi di dollari vaganti per i cinque continenti). Le autorità di regolazione e vigilanza Usa (in primo luogo la Sec e il Comptroller of Currency) non sono state in grado di controllarli con dovuta cura. Neanche quelle europee (e quelle italiane in particolare) hanno agito molto meglio.
In Italia specialmente, scoppiata la crisi mentre il Governo vagheggiava di Partito Democratico, nessuna delle numerose authority a tutela del risparmio è stata in grado di dire quanti derivati a rischio con una forte componente di mutui inesigibili sia finita nei conti di banche, assicurazioni e fondi pensioni. La tecnologia consente di dirlo spingendo un tasto di un computer ma un architettura barocca delle authority e procedure rococò per le loro comunicazioni fanno sì che non si avrà la risposta prima di settembre. Un riordino dovrebbe essere all’ordine del giorno di Prodi e TPS.
Alcuni esponenti del Governo hanno commentato come risolutivo l’adeguamento del tasso di sconto Usa, effettuato negli Usa il 17 agosto, al livello (5.25%) a cui si era assestato da alcuni giorni. Non sanno che negli Stati Uniti il tasso di sconto non ha (come in Europa) la funzione di tasso direttore del mercato - in effetti, la mattina del 18 agosto, due tra i maggiori commentatori finanziari del New York Times hanno tenuto a precisare che “la manovra non avrà alcun effetto sui tassi d’interesse” di mercato praticati negli Usa. Dà respiro specialmente alle operazioni di arbitraggio, velocizzandole le transazioni immediate appena le quotazioni variano da quelli che sono considerati i loro valori fondamentali (a riguardo è utile leggere la voce “Efficient Markets Hypothesis" nella seconda edizione del The New Palgrave : A Dictionary of Economics”, pubblicata alcuni mesi fa da McMillan, secondo il teorema di fondo la transazione dell’abitragista dovrebbe essere immediata, se non rallentata da “frizioni”). La Borsa ha avuto respiro. La mossa era stata peraltro anticipata diversi mesi fa da Mark Mitchell, Lasse Heje Pedersen e Todd Pulvino (due operatori finanziari e un accademico) nel saggio "Slow moving capital" presentato in gennaio al congresso scientifico annuale dell’American Economic Association a Chicagoi. Non ha risolto i nodi di fondo di una migliore regolazione e vigilanza e, soprattutto, di una politica economica volta a ridurre il disavanzo della bilancia dei pagamenti Usa.
Molto più importante, anche se ignorata da Prodi e TPS, un’altra misura varata il 17 agosto: la definizione di un elenco più ampio (e molto simile a quello della Bce, con cui è stato, in pratica concordato) delle azioni che le banche possono dare a garanzia di anticipi da parte delle autorità monetarie. L’enfasi sulla manovra sul tasso di sconto ha distratto da una questione di fondo – se e in che misura il mercato azionario Usa è sovrapprezzato.
Il rapporto P/E della Standard & Poor 500 è circa 17:1- di tutta serenità poiché in linea con la media (16,1:1) dalla fine della seconda guerra mondiale. Se calcolato non sulla base dell’ultimo anno ma della media de gli ultimi dieci e cinque anni si giunge a rapporti rispettivamente 27:1 e 22: 1. Se l’indicatore si assesta sul 27:1 , c’è da essere preoccupati.
Infine, alla riunione del 6 settembre, la Bce dovrà decidere se proseguire una strategia di aumenti graduali dei tassi (dalla fine del 2005 li ha ritoccati all’insù 8 volte portando il tasso direttore al 4%), se interromperla o se effettuare un ritocco al ribasso. A caldo, i suoi esponenti affermano che la mossa della Fed sul tasso di sconto riguarda, per ora, gli arbitragisti americani, ma sono lieti della convergenza sulle azioni per le garanzie sugli anticipi da autorità monetaria. Ci sono comunque ancora tre settimane dal 6 settembre. Se ne potranno vedere delle belle.
21 Agosto 2007 bce mutui subprime tasso di sconto usa titoli derivati Economia Commenta Email Condividi

lunedì 20 agosto 2007

ORA E’ LA BCE A TENERE IN ANSIA LE BORSE

Per comprendere le implicazioni per l’Europa della manovra sul tasso di sconto (e non solo) effettuata negli Usa il 17 agosto, occorre in primo luogo chiarirne la portata per il mercato americano a cui è stata soprattutto diretta. Lo ha chiarito, più autorevolmente di molti altri, il Segretario al Tesoro Usa in persona Hank Paulson che in una lunga intervista a Nina Easton , capo del bureau di Fortune a Washington, si è mostrato molto cauto. Ancora più prudenti i commenti dei columnist del New York Times del 18 agosto. Se gli stessi americani vedono i limiti della manovra, perché entusiasmarci da questa parte dell’Atlantico? E’ banale esultare perché ad un’iniezione di liquidità (diretta all’elemento più fragile, certe operazioni di arbitraggio) la Borsa stappa prosecco. Sarebbe inquietante se al contrario prevalessero gli umori ribassisti.
Da un lato, l’adeguamento del tasso di sconto (che non ha la funzione di tasso direttore nel mercato Usa della moneta) è un puro strumento tecnico (utilizzato per la terza volta in nove anni) per velocizzare i flussi di capitale da operazioni di arbitraggio sui Colleteralized Debt Obligations (Cdo), pacchetti, quindi “derivati”, più o meno complessi in cui crediti difficilmente esigibili vengono ceduti a terzi unitamente a titoli più solidi. Gli arbitraggi sono transazioni istantanee quando le quotazioni di un titolo o di un pacchetto di titoli deviano dai valori fondamentali. Se frenate da “frizioni” (vischiosità sarebbe una tradizione meno tecnica) perdono efficacia; se il loro volume è vasto (in proporzione della capitalizzazione di alcuni mercati) , le “frizioni” creano ritardi nei flussi dei fondi e, quindi, guai.
Da un altro, l’aspetto importante (e meno noto) della manovra del 17 agosto è la definizione di un elenco più ampio (e molto simile a quello della Bce, con cui è stato, in pratica concordato) delle azioni che le banche possono dare a garanzia di anticipi da parte delle autorità monetarie; il tasso di sconto si applica su tali anticipi. Un passo di rilievo sulla via del coordinamento che si è realizzato dopo anni di negoziati. E di cui all’Eurotower di Francoforte si è molto soddisfatti.
Vediamo, con gli strumenti dell’analisi economica, questi due aspetti. In primo luogo, l’esigenza per il mercato Usa degli arbitraggi su “derivati” di una manovra quale quella attuata era stata anticipata diversi mesi fa da Mark Mitchell, Lasse Heje Pedersen e Todd Pulvino (quindi due operatori finanziari ed un accademico) nel saggio "Slow moving capital", disponibile anche in Italia. Il lavoro solleva un punto critico: il dubbio sul paradigma della “ipotesi della efficienza dei mercati” che sviluppato da Paul Samuelson e Eugene Fama negli Anni 60 regge ancor oggi l’economia e la politica finanziaria (e viene insegnato nelle università). Se le “frizioni” (che frenano i flussi da arbitraggi) ricorrono sempre più frequentemente (tanto da richiedere interventi da parte delle autorità monetarie) occorre una riflessione da parte sia del mondo accademico, sia degli operatori sia delle banche centrali sia di organizzazioni come la Bri ed il Fmi.
Da un lato, resta l’interrogativo di cosa farà la Bce, alla riunione del suo Consiglio Direttivo in programma per giovedì 6 settembre all’Eurotower. Dalla fine del 2005 la Bce ha seguito una strategia di aumenti graduali dei tassi (li ha ritoccati all’insù 8 volte portando il proprio tasso direttore al 4%). Era stato programmato un ulteriore aumento ( che avrebbe portato il tasso direttore al 4,25%). A caldo i pochi dirigenti della Bce in questi giorni a Francoforte sostengono che la mossa della Fed sul tasso di sconto riguarda principlamente gli arbitragisti americani (e non sfiora l’Europa). Quindi, il 6 settembre si procederebbe all’aumento. Al tempo stesso, il Presidente della Bundesbank, Axel Weber, un componente non di poco conto del Consiglio Bce, ha indicato, la mattina del 18 agosto, che l’organo collegiale dovrà verificare se l’incremento programmato è ancora “prudente”. Attenzione, non si riferisce tanto al ritocco all’ingiù del tasso di sconto Usa quanto alla frenata segnata dal pil europeo nei primi tre mesi del 2007 ed alle previsione di un rallentamento della crescita nel 2008 (appena sfornate dal consensus forecast- un indice sintetico dei maggiori previsori econometri su base mensile ) mentre lo stesso consensus forecast indica una decelerazione dell’inflazione nell’area dell’euro.
Dalla riapertura dei mercati lunedì 19 agosto alla sera del 5 settembre, teniamo le cinture ben allacciate: le turbolenze, comunque connaturate al mercato, non sono finite.

L’INSOSTENIBILE LEGGEREZZA USA

Parafrasando il lattaio Tevey , protagonista dei racconti di Shlomo Aleichem (noti per la commedia musicale e film,, “Fiddler on the Roof”, “Sviolinando sul tetto”), non c’è nulla di male nel commettere errori se ci se ne accorge prima di fare troppi guai. Si sono sbagliati tutti coloro che sull’onda del ritocco tecnico al tasso di sconto Usa ed alla reazione immediata della Borsa, hanno esultato e invitato a seguire la lezione americana. A meno di 48 ore, il Sentinel Fund (100 miliardi di dollari) sta portando i libri in tribunale; a Washington dicono che la fila rischia di essere lunga ed includere in Europa banche – è già stato creato un fondo di protezione per quelle tedesche , in spregio al trattato di Maastricht-, compagnie di assicurazione e fondi pensione: l’ultima stima di Cdo contagiato (derivati i cui contenuti sono illustrati su Il Tempo del 16 agosto) arriva a 600 miliardi di dollari con effetti devastanti sull’economia reale, anche italiana. In settembre, le autorità di regolazione e vigilanza italiana consegneranno la mappa delle attività a rischio nelle loro mani.
Cosa non copiare dall’esperienza Usa (la terza in meno di nove anni)?
a) I mutui subprime non sono ipoteche senza garanzie patrimoniali che facilitano l’acquisto di una casa. Ipoteche che impongono garanzie patrimoniali (oltre al valore dell’immobile che si acquista) sono fuori legge dagli Anni 30: negli Anni 70 si richiedeva, come garanzia personale, che il reddito familiare annuo lordo fosse almeno pari al 25% del valore del rogito; oggi si chiede il 15%. I subprime sono mutui a creditori esigibili unicamente nel caso di aumenti vertiginosi del valore dell’immobile in acquisto. Gli istituti di credito li impacchettano prontamente in Cdo e li vendono a banche, fondi , assicurazioni lasciando a società di recupero il lavoro sporco di riprendere possesso dell’immobile e metterlo all’asta. In breve, vero sciacallaggio, riprovevole sono il profilo etico e foriero di disastro finanziario.
b) Il sistema di vigilanza . Tanto la Sec (la Consob locale) quanto il Comptroller of Currency (la direzione generale del Tesoro preposta a questi compiti) non hanno visto il temporale che stava per arrivare ed ancor peggio hanno facilitato l’esportazione della tempesta ai grulli del resto del mondo (tra cui i volenterosi esecutori di qualsiasi verbo pronunci lo Zio Sam). E’ pure mancata la vigilanza (del mercato, oltre che della Sec) su quelle società di rating che solo quando i buoi erano scappati hanno abbassato il classamento di alcuni istituti.
c) Un adeguamento del tasso di sconto (negli Usa il tasso direttore del mercato è l’interbancario) dirigista e pasticcione per favorire essenzialmente una categoria di operatori (gli arbitraggisti, da non confondere con gli arbitri delle partite di calcetto, come documentato su Il Tempo del 19 agosto), misura che può dare un fiato momentaneo alla Borsa ma non affronta i nodi a medio e lungo termine.Ci sono, comunque, lezioni importanti sotto il profilo sia concettuale sia operativo. La terza sbandata in nove anni (anticipata diversi mesi fa dal saggio di Mark Mitchell, Lasse Heje Pedersen e Todd Pulvino, due operatori finanziari ed un accademico, "Slow moving capital") mette in dubbio il paradigma della “efficient market hypothesis” che sviluppato separatamente da Paul Samuelson e Eugene Fama negli Anni 60 regge ancor oggi l’economia e la politica finanziaria ed è insegnato nelle università. In una finanza globale molto diversificata, le “frizioni” (o vischiosità) degli arbitraggi finanziari richiedono forte regolazione e forte vigilanza:il mercato è strumento molto potente ma anche – lo ripete Stefano Zamagli, che non è certo un filo-socialista – molto fragile. Se, invece, si segue acriticamente la strada Usa, si contribuisce agli obiettivi dello schieramento politico che sta facendo di tutto per fare diventare l’intera Italia un subprime

CINQUE MOSSE PER ARRUOLARE I PARROCI NELLA LOTTA ALL’EVASIONE

Il Presidente del Consiglio Romano Prodi si è lamentato perché i parroci non operano attivamente nella lotta all’evasione. Non intende, ovviamente, farmi assumere in massa all’Agenzia delle Entrate. Vorrebbe, però, che nelle loro omelie domenicali ricordassero ai fedeli che evadere non è corretto. E che se si evade assai, si commette peccato (se veniale o mortale non spetta a Prodi stabilirlo).
Sarebbe fin troppo facile rammentare a Prodi che Santa Romana Chiesa si occupa di anime e non di esazione tributaria e contributiva, che le omelie sono a commento del Santo Vangelo, e che solo in un’occasione il Vangelo tratta di fisco. Il “date a Cesare ciò che è di Cesare, a Dio ciò che è di Dio” viene di norma interpretato come un precetto a non dimenticare di assolvere i propri obblighi nei confronti di Dio per tenere troppo dietro a quelli nei riguardi di Cesare (e le proprie carriere al seguito del Cesare di turno). In un volume sull’”etica dell’evasione fiscale” ormai divenuto un classico, il teologo cattolico Martin Crowe esaminò , nel 1944, 500 anni di dottrina della Chiesa giungendo alla conclusione che se la pressione fiscale supera un terzo del pil, diventa arduo per i fedeli assolvere i propri obblighi nei confronti di Dio, e della Chiesa. Il Consiglio dei Rabini Usa è giunto a conclusioni analoghe. In periodi di pace, anche a ragione di questi richiami, la pressione fiscal-contributiva Usa si è sempre tenuta al di sotto del 30% del pil.
.Da cittadini che intendono praticare la misericordia, però, si deve dare una mano al nostro Presidente del Consiglio, così traballante ed affaticato sulla via delle vacanze del Castello familiare di Bebbio dove il 9 agosto festeggerà i suoi 68 anni attorniato da parenti ed amici.
In primo luogo, è urgente che Prodi onori la promessa fatta agli italiani nell’autunno 1997 di restituire loro la cosiddetta eurotassa non appena entrati nella moneta unica (ed in grado di farlo). Il mio parroco afferma che chi dice bugie ha il naso lungo. Non so se a Prodi si è allungato il naso ma l’eurotassa non è stata mai completamente restituita neanche nella scorsa maxi-finanziaria di 40 miliardi di euro (mentre secondo l’Ue ed il Fmi ne sarebbe bastati 15 miliardi). Il teologo Bruno Forte ha sottolineato come italiani e tedeschi siano stati pronti a fare sacrifici durissimi a fronte delle promesse di De Gasperi ed Adenauer – i quali conducevano vita austera (niente feste in castelli) e mantenevano gli impegni.
In secondo luogo, è essenziale che Prodi dia una prova concreta di volere dare corpo ad una politica per la famiglia, abrogando dalla prossima finanziaria quella imposta di successione che ha appena introdotto. L’Italia è uno dei pochi Paesi a mantenerla. Tale imposta Mina il significato profondo del lascito da generazione in generazione. In parallelo, Prodi dimentichi, una volta per tutte, di Dico & similia che indeboliscono il concetto di famiglia.
In terzo luogo, si impegni a portare la pressione fiscale-contributiva dal 44% circa (la più alta al mondo) al 33% della regola aurea di Crowe entro la fine della legislatura, eliminando spese inutili (da quello dello spacchettamento dei ministeri a quelle della iperburocrazia). E’ impegno che può essere facilmente monitorato (come quello relativo alla “eurotassa”).
In quarto luogo, vieti a tutti i 112 componenti dell’Esecutivo di praticare la parapsicologia – le sedute spiritiche non sono mai state viste con favore da Santa Romana Chiesa che pur riconosce casi di esperienze sovrannaaturali (di solito riservate a chi è sulla via della santità non a medium di professione o da strapazzo).
In quarto luogo, anche l’immagine conta. Senza volere fare moralismi di bassa lega od entrare in giudizi di merito, i sondaggi suggeriscono che ai cattolici, quali che siano le virtù e le debolezze dell’uomo, la nomina di Silvio Sircana a portavoce del Governo non è andata giù molto bene. Sircana potrebbe, nell’interesse suo e di tutti, completare il corso di laurea che pare non abbia terminato per dedicarsi alla politica.
Con queste cinque regole, da fare proprie il 9 agosto nei propositi di compleanno, Prodi potrà avere la collaborazione di qualche parroco (e pure di qualche rabbino) nella lotta all’evasione.

domenica 19 agosto 2007

PRODI STUDIA IL METODO PER GOVERNARE

Una bisaccia piena di libri, che non ha potuto studiare nell’ultimo anno tanto preso, come è stato, dalle cure di una coalizione di governo in continua fibrillazione. Romano Prodi li ha scelti con cura (ed ovviamente ascoltando con attenzione i consiglio del fido Ricky Levi). Li ha meditati seriamente pensando alle scadenze autunnali (ed alle difficoltà di condurre serenamente in porto la legge finanziaria e la riforma delle pensioni, e del resto del welfare). Quello che più lo ha fatto pensare è il volume di Paolo Peluffo su Carlo Azeglio Ciampi (“Ciampi- L’Uomo e il Presidente”, ben 532 pagine – diventate nella pubblica amministrazione un must per chi vuole fare carriera e nelle coulisses dei Ministeri lettura d’obbligo per i Sottosegretari che vogliono emergere e per i Ministri che desiderino interloquire con efficacia con Piazza Colonna. Tanto più che il pezzo di copertina è meno di ciò che si paga per una pizza ed una birra.
A Prodi non interessa punto il rapporto personale tra Ciampi e Peluffo, raccontato nei 14 capitoli in cui è articolato il volume, ma cosa si apprende da un documento molto speciale (chiaramente e sinceramente di parte, come lo sono tutte le testimonianze) di un periodo molto difficile della vita economica e politica del Paese. Un periodo, per molti aspetti analogo, a quello che travaglia lui e la sua coalizione da quanto è inquilino di Palazzo Chigi. Il filo conduttore dei capitoli che riguardano Ciampi uomo di Governo (molto differente quello dei capitoli che trattano del suo ruolo come Capo dello Stato) è l’esigenza di avere ciò che in un altro libro, del lontano 1996, l’ex Presidente della Repubblica ha chiamato “un metodo per governare”: concertare ma non consociare. Saranno finezze che si apprendono alla Scuola Normale di Pisa – si chiede Prodi – ma la differenza è tanto fine che, come diceva Petrolini delle catenine d’argento donate a battesimi e cresime, non la si vede proprio. Quindi, affronta le scadenze settembrine con qualche dubbio in più (concertare? consociare?) e tendando di imitare il “metodo Ciampi” (ma senza grandi probabilità di riuscirci).
Cerca, ma non trova, maggior conforto in uno snello libretto della Banca Mondiale Governance Matters Governance Indicators for 1996-200. E’ il World Bank Policy Research Working Paper No. 4280 curato da tra esperti dell’istituto Daniel Kaufmann, Aart Kraay e Massimo Mastruzzi . Lo studio calcola i Worldwide Governance Indicatore per 212 Paese nell’arco di tempo 1996 – 2006 . Lo irrita non poco il fatto che la Slovenia, il Cile, il Botswana, l’ Estonia, Uruguay, la Repubblica Cèca, la Latvia, la Lituania, e la Costa Rica superano in classica l’Italian in terminiu di “governance”. E’ importante – pensa- che il nostro rappresentate in Banca Mondiale insista perché gli indicatori di stabilirà politica contino meno negli indici aggregati di “governance”.
Ove ciò non bastasse , un altro testo portato in vacanza – è il saggio di Mario Coccia, uno studioso italiano da anni di stanza al Max Planck Institute, "A New Taxonomy of Country Performance and Risk Based on Economic and Technological Indicators" apparso nell’ultimo fascicolo del Journal of Applied Economics –Il lavoro analizza, con rigorosi strumenti quantitativi, 51 Paesi sulla base di 13 indicatori al fin di prendere il posto al loro andamento in termini di innovazione tecnologica . Ancora una volta l’Italia è nei livelli bassi. In vista lunghe consultazioni con il Ministro competente, Luigi Nicolais. Senza molte illusioni che abbiano frutti ove non si trovi quel metodo per governare la cui leggerezza pare davvero irresistibile.